N.06
Novembre/Dicembre 1999

Tutto me stesso: le riserve e le sfide dell’antropologia

Il documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa, Nuove vocazioni per una nuova Europa, nel delineare alcune prospettive di pedagogia vocazionale riconosce l’importanza di riflettere sul processo di identificazione della persona nella prospettiva dell’integrazione totale di quanto le è proprio in vista dell’accoglienza del progetto pensato da Dio su ciascuno da scoprire con gratitudine e da sviluppare nel dono di sé[1]. L’importante documento si muove così nella prospettiva tipica dell’antropologia cristiana che vede il compimento della persona nella gratuità del dono di sé come espressione della propria maturazione nella luce della grazia che inserisce l’uomo nella dinamica dell’amore divino accolto nella vita, contribuendo a darle consistenza e a svilupparla dinamicamente come apertura e risposta a Dio nelle scelte quotidiane[2]. Scopo di questo contributo è quello di accostarsi al problema dell’identità personale nell’ambito dell’antropologia contemporanea per far emergere riserve, interrogativi e difficoltà che si impongono nella ricezione e della proposta cristiana richiamando, pur in modo esemplificativo, alcuni concetti chiave sottesi ad essa: il “senso”, il “vivere” ed il “donare”.

 

Nei crocevia del senso

Una delle vie percorse dalla riflessione antropologica per delimitare l’unità della persona è indubbiamente l’attenzione alla categoria del senso per dire dell’esistenza dell’uomo tesa, insieme al chiarimento delle domande fondamentali, ad una sua realizzazione ed esplicitazione nell’agire. Occorre riconoscere come l’operazione di chiarificazione del concetto di “senso” si presenti ardua perché attorno ad esso vengono ad addensarsi molteplici determinazioni che contribuiscono, non di rado, a colorare l’espressione di una retorica ambigua. Il problema del “senso” ci viene incontro, così, più che nella chiarezza meridiana di una definizione, negli anfratti chiaroscuri di un lussureggiante sottobosco. Infatti parlare di un “senso” per la vita non significa immediatamente porre una questione di “progetto” e di “impegno”, ma constatare un’incertezza problematica circa di esso. Non a caso molte riflessioni e prospettive culturali accostano la figura della ricerca del senso al vocabolario della crisi, della sua non evidente leggibilità nell’attuale contesto. Detto altrimenti propugnare un “senso” per la vita non significa introdurre prospettive sulle quali l’esistenza di ciascuno possa agevolmente camminare, bensì sottolineare, più modestamente, che questo non è più chiaro nella nostra contemporaneità[3]

Più radicali contestazioni si muovono da parte di chi riconosce nel nostro tempo l’imporsi di una civiltà della tecnica che non solo ha invaso il mondo dell’uomo, ma che in modo pervasivo viene a toccare la sua stessa personalità, il nucleo psichico della persona. In questa luce la posizione, forse unilaterale, ma non di meno ricca di stimoli, di Umberto Galimberti per cui “il senso è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuoverne la ricerca”, nella consapevolezza, però, che il senso “è una parola nobile che nasconde solo il rifiuto dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite”[4]. Pare dunque che l’evocazione di un “senso” per l’esistenza nell’attuale cultura della tecnica sia, più che in riferimento ad una grandezza attorno cui unificare l’esistenza, l’operazione di esorcizzare la paura della dissoluzione. L’ancoramento del problema del senso non avviene così su di un nucleo personale stabilizzato, ma sull’esile ponte sospeso tra l’esistere e la sua negazione nella morte. L’affaccendarsi attorno al senso promuove la rimozione della grande questione inevasa per l’uomo di sempre, ma acuita nella modernità dalla tecnicizzazione dell’esistenza: la finitudine e il limite. Galimberti prosegue rilevando la non pertinenza della domanda circa il senso della vita nell’età della tecnica o, semmai, la sua riduzione ad un problema di strategia di sopravvivenza, ad una sua dislocazione non nel “regno dei fini”, ma nella galassia dei “mezzi” utili ed auspicabili per la vita, configurando piuttosto scenari di espedienti per la “sopravvivenza” più che positive esplicitazioni e qualificazioni per l’esistere. “Non ci si deve far ingannare – nota – dal bisogno di senso, dalla sua ricerca affannosa, dalla sua domanda incessante a cui cercano di dar risposta le religioni con le loro promozioni di fede e le pratiche terapeutiche con le loro promozioni di salute, perché tutto ciò rivela solo che la figura del ‘senso’ non si è salvata dall’universo dei mezzi”: è diventato un mezzo, tra gli altri, per vivere, uno strumento a disposizione di cui servirsi per far fronte all’angoscia del nulla[5]. Queste provocazioni, che pur segnalano la consistenza puramente retorica di molti appelli sul “senso” della vita, possono rappresentare un primo spunto di partenza per riaffrontare la questione anche all’interno della prospettiva dell’antropologia cristiana.

In questo sforzo di ripresa della questione del senso sembrano così intrecciarsi più segmenti di un percorso utile ad accostarsi alla logica del dono totale ed integrale di sé che è sottesa alla proposta cristiana. Una prima correlazione può essere quella tra “senso” e “comprensione”. Parlare, o forse continuare a parlare di senso della vita, presuppone un atteggiamento di fondo davanti ai fatti della vita che si muova, al di là della specificazione dei possibili e della spiegazione dei fatti, da uno sguardo più profondo e rispettoso della realtà comunque misteriosa della vita: quello della comprensione, che pone alla persona l’impegno di interpretare pazientemente l’esistenza, di cercare connessioni al di là della caoticità delle impressioni, di interpellare le proprie ambigue risonanze interiori. Un senso per la vita non lo si spiega; piuttosto lo si può accogliere e comprendere, senza rinchiuderlo in una definizione stretta, ma riaprendolo continuamente a partire da un atteggiamento di interrogazione su di sé. La difficoltà di questo impegno è segnalato in modo vistoso dalla cultura contemporanea che genera un evidente cortocircuito tra l’evasione delle questioni radicali che circondando l’esistenza, attraverso la dispensazione di ricette utili e pratiche tecniche, e il senso di angoscia che viene ad ingenerarsi nella persona come se fosse di fronte ad un compito sproporzionato alle sue stesse possibilità. Ciò che appare superficialmente “arduo” tende ad essere compreso come “impossibile” e finalmente ad essere percepito come “inutile”, cioè non meritevole di un impegno da parte dell’uomo.  

Così, in una seconda sfumatura, il senso domanda un riferimento alla “crisi”, assunta nella sua connotazione positiva di giudizio sull’esistente. Sono le crisi dell’esistenza, i suoi momenti di snodo che, se da una parte possono portare all’evasione delle stesse domande, ritenute ossessive e sovraccaricanti la persona, tuttavia appaiono come momenti ineludibili da affrontare. Gli accadimenti stessi dell’esistere, dai quali nessuno è dispensato, mettono alla prova le risposte, generano responsabilità che impongono l’apertura ad una personalizzazione della vita. In questa capacità di affrontare le “crisi” dell’esistenza trova spazio la domanda di senso come richiesta di cogliere un orientamento, una traiettoria per la vita che sappia unificare i significati parziali che ciascuno mette in gioco per motivare le sue scelte quotidiane, ma anche nella quale la persona possa continuamente ritrovarsi e riconoscere se stessa dentro le modulazioni dell’esistenza lineari o brusche che siano.

Una porta significativa per introdursi al tema del “senso” è proprio l’interpellare alcuni atteggiamenti che costantemente si ripropongono dentro la vita. Uno di questi è lo stupore, evocatore di domande e via alla conoscenza sempre più profonda della propria collocazione nel mondo. Tale atteggiamento è suggestivamente registrato dall’enciclica Fides et ratio che ricorda come “le conoscenze fondamentali scaturiscono dalla meraviglia suscitata nell’uomo “dalla contemplazione del creato: l’essere umano è colto dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo, in relazione agli altri suoi simili dei quali condivide il destino. Parte di qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta di orizzonti di conoscenza sempre nuovi. Senza meraviglia l’uomo cadrebbe nella ripetitività e, poco alla volta, diventerebbe incapace di un’esistenza veramente personale” (n. 4). In questa luce anche le riflessioni di Jürgen Moltmann che coglie questa caratteristica di “apertura” propria dello stupore, prima dello sviluppo di domande più circoscritte sulla conoscenza e sul senso delle cose: “nello stupore – fa osservare – noi cogliamo l’esistenza del mondo e il nostro stesso esserci. In seguito capiamo anche il che cosa e il come, ma il semplice esserci non lo capiremo mai: ci sorprenderà sempre”[6]. Lo stupore che scaturisce dallo scoprirci vivi diventa così l’alveo in cui e da cui articolare una più precisa riflessione sulla vita e porterà già in sé la percezione di una relazione di dono all’origine di essa capace di racchiuderne, con il suo nucleo più misterioso, anche lo stesso suo senso che dovrà essere chiarificato in un paziente ritorno su di sé e in un permanente dialogo con l’alterità. Accanto alla sorpresa dell’esistenza, però, si porrà come necessaria e ineludibile l’integrazione di essa nel tempo della vita: l’impatto con il limite segnalato dal fluire temporale. Dall’incontro dello stupore di una possibilità che ci è donata con l’affiorare del limite, cioè della condizione all’interno della quale essa prende forma nella vita, potrà sporgere una domanda più sincera (non fittizia) di conoscenza di sé, di interpellazione, di comprensione non solo di “ciò che la vita vale”, ma anche di “ciò che vale vita”, di “ciò per cui vale la pena di vivere e di morire”[7].

 

La vita: l’io e la sua identità

La ripresa della questione del senso si apre alla considerazione di ciò che sostanzia la vita personale. Sotteso a questo problema è proprio il “tutto me stesso”, quella disposizione a percepire la propria vita come un tutto unificato che predispone alla decisione su di sé in vista del dono di sé. Nella coscienza dell’uomo contemporaneo il sospetto e la riserva si addensano proprio su questa unificazione dell’esistenza e più radicalmente sulla domanda circa l’effettiva consistenza dell’io.

I vari tentativi di porre il problema dell’identità nella nostra cultura portano i tratti comuni di una debolezza variamente configurata, ma che domanda un’attenta considerazione da parte di quanti, muovendosi dalla prospettiva cristiana, si impegnano a proporre, accanto al fascino della vita come vocazione, un’opera educativa che punti a considerarla come una possibilità effettiva per la persona. Radicale appare la posizione di Derek Parfit[8] che sostiene non solo l’impossibilità di unificare la propria vita, ma che essa a priori non è un’unità: l’identità personale non deve essere pertanto definita nei termini di un’unica esistenza. L’io assume così una caratterizzazione puntiforme e neutrale: l’assommarsi di successivi momenti di consapevolezza di sé sempre mutevoli. La tesi di Parfit evidenzia come problematica proprio quella unificazione di sé nella distensione della vita che conduce la persona a riconoscersi dentro le inevitabili modificazioni, a riconoscere nel presente il proprio passato, a pensare, cioè, l’io come unità biografica nella quale la decisione su di sé rappresenta l’interpretazione ed il riconoscimento di sé aperto al futuro. Cristallizzato nei momenti e nelle identificazioni che lo definiscono mancherebbe così all’io strutturalmente la capacità di decidere qualcosa oltre l’istantanea percezione della propria identità. Erving Goffman[9] riconduce, invece, l’io ad una sorta di supporto, ad un gancio sul quale di volta in volta porre le varie determinazioni di esso prodotte dalle istituzioni sociali, dai ruoli che deve assumere, ponendo l’accento sulla mancanza di  identificazione tra la persona e le sue azioni. Nella categoria dell’“io minimo” vede Christopher Lasch[10] la condizione dell’uomo postmoderno cogliendo un salutare ridimensionamento dell’io forte e sovrano, capace di autodeterminarsi attraverso l’esistenza, ma anche la condizione di assedio che circonda l’individuo e lo costringe ad elaborare, più che progetti di realizzazione di sé, vere e proprie strategie di sopravvivenza in vista non tanto della propria affermazione, ma della tutela del semplice equilibrio psichico. In un’epoca di grandi turbamenti come l’attuale porsi il problema dell’identità è più un “lusso disdicevole” – riconosce Lasch – che un impegno per cui spendersi; occorre piuttosto corazzarsi contro le avversità assumendo quegli atteggiamenti “minimi” che contraggono l’io su di sé e lo armano nei confronti dell’assalto dell’altro e della società. Uno di essi è proprio “la riluttanza a stringere legami affettivi a lungo termine” colto non come un segno negativo, quello, per esempio, che gli studi sulla pastorale delle vocazioni designano come la difficoltà a produrre decisioni definitive, ma quale dato necessario, reazione strategica in vista della sopravvivenza minacciata dalla dissoluzione. Ogni sguardo che impegna ricognizioni sul passato o prognosi sul futuro è colto, così, come fattore pericoloso e di rischio perché innesca la dinamica debilitante della nostalgia e finisce con idealizzare il problema dell’avvenire distogliendolo dalla questione seria della sopravvivenza. La contrazione dell’io non fa che approfondire la dinamica narcisistica che a larghi tratti anima la cultura e i vissuti contemporanei, fino a confondere i lineamenti di quel positivo amore di sé che dispone, proprio attraverso l’interpretazione della propria vita come dono, ad ogni positiva dotazione di senso per l’esistenza e donazione di essa nell’amore, con l’indisponibilità della persona ad ogni apertura di sé.

Prospettive diverse quelle esemplificate che non fanno che insistere, comunque, su di una visione dell’io come affermazione (fino alla disperata difesa) di sé e che colgono comunque il problema dell’identità nell’ottica della tutela dell’io rischiata dalla sua apertura all’altro, interrotta nella continuità dell’esistenza e collocata in una società che rischia di far prevalere alla dimensione profonda della persona il ruolo che ciascuno vi deve assumere. 

Riproporre oggi la cultura della donazione integrale di sé come progetto di vita impone allora di affrontare con impegno la questione dell’identità sviluppandola non sul paradigma dell’affermazione/difesa dell’individualità ma su quello della relazionalità considerandone tutte le implicazioni[11]. La prima di esse pone come imprescindibile quella relazionalità che l’uomo intrattiene con se stesso e con quelle prime raffigurazioni spontanee della vita buona che si annunciano dalla realtà sorprendente di essere vivo. Solo dall’autopossesso, dal guadagno della propria soggettività, dal percepirsi sorgente delle proprie decisioni e dei propri atti contro ogni tendenza massificante ed esteriorizzante può liberarsi l’energia del dono di sé[12]. L’essere personale, nota suggestivamente Bruno Forte, rifacendosi alla lezione di Emanuel Mounier, “è tutt’altro che chiusura gelosa o separatezza altera: esso equivale a singolarità originale e sorgiva, a sovrabbondanza di un essere che, possedendosi nell’autocoscienza e nella libertà, può aprirsi e donarsi ad altri, ed accogliere altri in sé”[13]. Dentro questa interiorità aperta, segnalata dal dialogo intimo ed interiore dell’uomo con se stesso, trova spazio il dinamismo del desiderio del compimento di sé che conferisce unità narrativa all’esistenza della persona e che impone il continuo riconoscersi dentro gli accadimenti della vita, dentro le “crisi” dell’esistenza. In questa ottica l’incontro con l’altro non apparirà come il limite imposto alla propria espansione, ma l’occasione unica per giungere, nella reciprocità della relazione, ad una più profonda definizione della persona: quella donata appunto dallo sguardo dell’altro su di lei e quella offerta dal proprio sguardo sull’altro. Si apre così l’orizzonte della responsabilità entro il quale ciascuno può scoprirsi in grado di donare all’altro la sua identità e di scoprirsi raggiunto dal dono dell’altro. Le idee di appartenenza e partecipazione possono raffigurare in modo incisivo questa relazionalità costitutiva della persona accanto a quella dell’autopossesso. Appartenere indica l’essere presso l’altro con il quale si è entrati in relazione. La propria identità, come quella di chi è raggiunto nella comunicazione, è dislocata, collocata al di fuori di sé, nel cuore dell’altro. Partecipare è comprendere se stessi come attivamente chiamati a prendere parte al processo di liberazione autentica dell’altro attraverso il dono della relazione. L’appartenere all’altro, il partecipare alla vita dell’altro sarà tanto più vero quanto questo dinamismo vivrà della reciprocità interpersonale assumendone i peculiari tratti del “dono”.

 

Il dono di sé tra offerta, riconoscimento e risposta

Il recupero del senso ci ha portati ad intravedere nella costruzione dell’identità relazionale una prospettiva per comprendere meglio il “me stesso” alla base di quell’appartenersi per donarsi su cui ci siamo proposti di riflettere. Si tratta ora di esplorare l’ultimo segmento implicito in questo processo: la realtà appunto del dono che sostanzia la modalità di risposta della persona alla promessa di vita ricevuta e che può esprimerne la sua autentica vocazione. Una più vera comprensione del senso del dono presuppone l’abbandono di una visione di esso come una sorta di vincolo che viene a stringere la relazione tra persone nella circolarità del ricevere e dare con un’evidente sottolineatura di tipo mercantilistico ed utilitaristico[14]. Questa interpretazione porta a tramutare ciò che è movimento spontaneo in un dovere che finisce con l’impoverire gli stessi rapporti più comuni: “ogni moto dell’animo si ritrova ben presto chiuso e immobile nella logica dell’obbligo esterno: ogni dono diventa un dovuto”,[15] dimenticando così l’evidenza di gesti, quali i legami primari, che non possono essere circoscritti nella dinamica dello puro scambio. Piuttosto occorre riconoscere che il tipico legame che viene a costituirsi nell’atto del dono è quello di una consapevole assunzione di assenza di calcolo. Donare significa riconoscere l’immenso valore dell’altro che non ha prezzo se non quello della gratuità: dono, ricorda ancora R. Mancini, “è l’offerta libera e imprevedibile, a un altro, di ciò che vale”[16]. Propria della dinamica del dono è così la libertà, l’elargizione del non dovuto che acquista figura di valore perché simbolizza il donatore, il quale istituisce sulla base di esso un legame con l’altro che prescinde da ogni strategia di calcolo e dunque non si aspetta alcun contraccambio. Se comunque la dinamica del dono ingenera una risposta di ricambio questa non dovrà intendersi come pura restituzione di un dovuto, come risposta suscitata dall’evento del dono, ma tenderà ad esprimersi, a sua volta, come dono: “in realtà – afferma Godbout – non si ricambia mai in un gesto di dono, si dà a propria volta”[17]. La difficile percezione di questa realtà sta nell’insufficiente  elaborazione dell’elemento mediano che si pone tra il dare ed il ricambiare: il ricevere. Alla base della riserva ad entrare in una dinamica di dono di sé, non sta tanto il fatto del dono, né la possibile elaborazione di una risposta di ricambio – pur sempre esposta al rischio di essere sentita non quale reale atto di libertà, bensì come dovuta – ma l’incertezza ad elaborare in modo limpido la verità di quello che si riceve. Ciò che una persona si dispone ad accogliere è dono, cioè qualcosa che la raggiunge in modo imprevedibile. L’articolazione di un corretto processo di ricezione è possibile attingendo alla verità più profonda di se stessi. Alla radice del proprio essere non c’è l’autoaffermazione di sé, ma l’accoglienza del dono dell’esistenza. La vita non è un possesso, ma è scaturita da un atto di dono. Alla sua origine non c’è l’attività poietica dell’io, ma la ricettività passiva dell’essere, ricca dei germi della sua piena realizzazione. L’uomo, così, è colui al quale il senso è stato donato. A partire da questa esperienza sviluppa la comprensione di tutte le altre esperienze di gratuità che lo hanno raggiunto attraverso le relazioni con gli altri. Lo spazio della rielaborazione grata della propria esperienza di vita diventa generatrice di dono, cioè di maturità personale nella forma oblativa dell’amore. In questa linea occorre ripensare lo stesso rapporto fondante con Dio che apre ad intravedere la vocazione personale di ciascuno. Alla realtà del dono di Dio che lo costituisce come essere in cui l’accoglienza diventa la sorgente della propria vita, non fa seguito una risposta di semplice ricambio da parte dell’uomo. Dio non si aspetta nulla dall’uomo se non che, di fronte a Lui, maturi la consapevolezza di se stesso come dono e Lo riconosca come il Dono. La risposta dell’uomo a Dio così non può intendersi come atto dovuto per la sua grandezza, ma è che egli divenga, a sua volta dono, pur nei limiti che gli sono propri. In questa prospettiva anche i gesti espliciti della preghiera e gli atti dell’amore diventano simbolici, cioè trovano la loro verità fondante nell’essere proprio dell’uomo. Così in ogni atto oblativo l’uomo può esplicitare, nella dinamica simbolica, il dono integrale di sé, operazione del resto altrimenti impossibile, se non in forma suprema nella morte. Si arriva al culmine del problema che era stato prospettato come l’esplicitazione di ciò che la vita vale: l’essere stata donata, e di ciò che vale la vita: la possibilità di perderla per amore. Ogni gesto di dono, ricorda ancora Godbout, comporta il rischio della propria identità, conduce alle soglie della morte, ne rappresenta un’anticipazione, non subita, ma espressa come espropriazione del sé nel dono di sé.

 

Epilogo 

Lo sviluppo di una possibile antropologia del dono integrale di sé ha preso le mosse dalle problematiche che attraversano l’attuale visione del senso della vita e dell’identità della persona. Si trattava semplicemente di registrare modalità di affrontare la questione dell’uomo che potessero contribuire a chiarificare il senso dell’affermazione “tutto me stesso” e della dinamica di amore oblativo alla base della risposta vocazionale. Ne è risultato un mosaico, forse disaggregato, ma comunque ricco di stimoli anche nelle sfide e nelle riserve che alcune prospettive di pensiero pongono ad una risoluzione positiva dei problemi prospettati. 

L’azione formativa e vocazionale, che sembra collocarsi oggi dentro l’incertezza nella quale l’uomo percepisce se stesso e sperimenta percorsi di senso per la propria vita, avverte come necessario l’impegno di percorrere una via lunga e paziente: quella di rieducare la persona all’ascolto di sé e alla valutazione dei propri gesti per poter reperire e richiamare quella logica di dono che pure è già iscritta nella profondità di ciascuno. Non si tratta, però, che di una realtà ben presente nella stessa sapienza cristiana di cui un’eco giunge da Agostino come richiamo alla difficile arte della valutazione di sé e degli altri da non dimenticare troppo facilmente: “Quale uomo infatti è in grado di giudicare un altro uomo? Il mondo è pieno di giudizi avventati. Colui del quale dovremmo disperare ecco all’improvviso si converte e diviene ottimo. Colui dal quale ci saremmo aspettati molto, ad un tratto si allontana dal bene e diventa pessimo. Né il nostro amore, né il nostro timore sono stabili e sicuri. Che cosa sia oggi ciascun uomo, a stento lo sa lo stesso uomo. Tuttavia fino ad un certo punto egli sa che cosa è oggi, ma non già quello che sarà domani”[18].

 

 

 

 

Note

[1] Cfr.  PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa. Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita consacrata in Europa. Roma, 5-10 maggio 1997, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, n. 37, pp. 99-100.

[2] Sono stati sviluppati in modo più analitico alcuni di questi elementi in vista dell’azione formativa e della direzione spirituale in P. D. GUENZI, Vita nello Spirito, vita virtuosa e maturità vocazionale: l’obiettivo della direzione spirituale per l’orientamento vocazionale, in AA. VV., Direzione spirituale, maturità umana e vocazione, “Venite e vedete, 5”, Ancora, Milano 1997, pp. 9-46; Id., La formazione della coscienza al discernimento, per una vita secondo lo Spirito, ‘Vocazioni’, 15 (1998), n. 5, pp. 12-38. Si rimanda, pertanto, a questi contributi per un ampliamento della presente riflessione.

[3] Cfr. in questa luce le pregnanti affermazioni dell’Enciclica Fides et ratio: nn. 26; 33; 80-81.

[4] U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 700.

[5] U. GALIMBERTI, Psiche e techne…, p. 41.

[6] J. MOLTMANN, Dio nel progetto del mondo moderno. Contributi per una rilevanza pubblica della teologia, “Biblioteca di teologia contemporanea, 107”, Queriniana, Brescia 1999, p. 147 (Cfr. però pp. 145-148).

[7] Cfr. R. MANCINI, Il dono del senso. Filosofia come ermeneutica, Cittadella, Assisi 1999, pp. 204-205. Tutto il volume presenta suggestive riflessioni sulle questioni oggetto di questo studio.

[8] D. PARFIT,  Ragioni e persone, Il Saggiatore, Milano 1989.

[9] E. GOFFMANN, La vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 1997.

[10] C. LASCH, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano 1987. Lasch aveva prodotto in precedenti studi una disamina della questione dell’uomo nella società contemporanea dai significativi titoli La cultura del narcisismo (Bompiani, Milano 1981) e Rifugio in un mondo senza cuore (Bompiani, Milano 1982).

[11] Oltre dal testo già segnalato di R. Mancini, un tentativo in questa direzione, pur condotto da una prospettiva diversa, è sviluppato da CHARLES TAYLOR in Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993.

[12] “Se conoscersi è accettarsi – ricorda R. Mancini -, quest’ultimo è riconoscere una dignità e un valore irriducibili. È come trovarsi nudi dinanzi a sé senza sentire vergogna e senza punirsi. Risalendo alla relazione che ci ha costituti, recuperando la consapevolezza del fatto che anzitutto esistiamo ricevendo, siamo messi nella condizione di comprendere che siamo dono vivente, siamo donati a noi stessi. È allora che, come afferma Karl Jaspers, ciascuno giunge a se stesso come un dono” (Il dono del senso…, p. 182).

[13] B. FORTE, L’eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale, “Simbolica ecclesiale, 6”, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, p. 76. Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, “ave minima, 7”, AVE, Roma 1964 (ed. or. 1949).

[14] È questa la prospettiva verso cui conduce l’analisi classica di M. MAUSS. Cfr. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965.

[15] J. T. GODBOUT, L’esperienza del dono. Nella famiglia e con gli estranei, “Servizio sociale, 10”, Liguori, Napoli 1998, p. 123. Cfr. anche ID., Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

[16R. MANCINI, Il dono del senso…, p. 181.

[17] Lo spirito del dono…, p. 247.

[18] Discorso ai pastori, Disc. 46, 27.