N.04
Luglio/Agosto 1999

La Chiesa in Italia tra fede e cultura alle soglie del terzo millennio

Un titolo così ampio rischierebbe di diventare come un fiume straripante nel caso non venisse arginato e ulteriormente delimitato, cosa peraltro piuttosto agevole se si tiene presente la cornice di questo convegno che, mentre favorisce un’opportuna contestualizzazione del tema in oggetto, stimola a declinare il plesso dei rapporti “chiesa-cultura” sul versante della realtà “giovani”. Pertanto sembra utile ripercorrere brevemente almeno qualche traiettoria del trinomio “fede-cultura-giovani” negli ultimi decenni, in modo da situare la riflessione – come è richiesto dal tema – nel quadro dell’imminente trapasso di millennio.

 

Alla corte del re Narciso

L’attuale società di fine millennio viene descritta come una società senza padri: nonostante le sue mirabili acquisizioni tecnologiche, la società di oggi è composta da “figli orfani” che sono impreparati a surrogare il padre e si trovano a vivere in “un luogo insicuro, labile, inutilmente motorio, privo di credenze ma ingombro di superstizioni”[1]. In verità nella lunga fase precedente la società si caratterizzava come società contro i padri. Una visione anticipatrice si annunciava alla soglia dell’Ottocento, in pieno Illuminismo, in quel Discorso del Cristo morto del tedesco Johann Friedrich, pubblicato con lo pseudonimo di Jean Paul, che è un’apocalisse dell’ateismo e porta significativamente la data del 1789. In quel testo di letteratura onirica pre-freudiana, un’orrida scena cimiteriale notturna si dilata a visione cosmica della rovina dell’universo, e il Cristo morto vi appare:

“Ed ecco, dall’alto discese sull’altare una sublime, nobile figura che portava i segni di un dolore incancellabile, e tutti i morti gridarono: – Cristo! non c’è nessun Dio? – Cristo rispose: – Nessuno!… Ho percorso i mondi, sono montato sui soli e ho volato con le vie lattee per i deserti del cielo; ma non esiste alcun Dio. Sono disceso fin dove l’essere proietta le sue ombre, e ho guardato nell’abisso e ho chiamato: Padre, dove sei?, ma ho sentito soltanto l’eterna tempesta… E quando il mio sguardo si levò verso il mondo infinito alla ricerca dell’occhio divino, il mondo mi fissò con un’orbita vuota e sfondata… – E tutto si svuotò. Vennero allora nel tempio, atroci per il cuore, i bambini morti che si erano svegliati nel camposanto; si gettarono ai piedi dell’altare su cui si ergeva la figura sublime, e dissero: – Gesù! non abbiamo padre? – E lui rispose con un fiotto di lagrime: – Siamo tutti orfani, io e voi, siamo senza padre… Nulla immobile e muto! Fredda, eterna necessità! Folle caso!… Come ciascuno è solo nell’immensa tomba dell’universo! Accanto a me ci sono solo io – O padre o padre! dov’è il tuo seno infinito, perché mi possa riposare su di esso? – Ahimè, se ciascun Io è padre e creatore di se stesso, perché mai non può essere anche il proprio angelo sterminatore?”.

Passando per i “maestri del sospetto” (Marx, Freud, Nietzsche), si arriva all’ormai mitico ‘68, che insieme alla contestazione della tradizione dei padri, registrava la breve ma tutt’altro che banale stagione dei teologi della “morte di Dio”. Proprio in quegli anni uno dei libri più letti era la Lettera al padre di F. Kafka dove così viene descritta la frustrazione del giovane “figlio” che nell’autorità del “padre” ha sperimentato solo il potere e la fredda repressione: “Io potevo fruire di ciò che tu davi, ma solo nella vergogna, nella stanchezza, nell’impotenza, nel sentimento di colpa. (…) Davanti a te avevo perduto la fiducia in me stesso, scambiandola con uno sconfinato senso di colpa”[2].

Finita l’epopea sessantottina con il tragico epilogo degli anni di piombo, cadeva la testa di un altro “padre” della società, Marx, e così Linus commentava amaramente: “Dio è morto, Marx pure, e neanch’io mi sento bene”. Dunque da una società contro si è arrivati ad una società senza padri. I giovani più di altri si trovano sulle spalle il peso di questa orfanatezza, condannati come sono a vivere senza radici e senza progetti. È in atto infatti “una radicale trasformazione della temporalità che conduce alla ‘spazializzazione del tempo’ che si manifesta nella supremazia nell’attuale vita sociale delle coordinate spaziali su quelle temporali e che, di fatto, anestetizza l’idea del tempo e della storia, del vissuto diacronico a favore della sincronicità spazializzante”[3]. Questo fa sì che solo ciò che è immediato e simultaneo venga vissuto come veramente reale. Di conseguenza l’individuo vive in una sorta di stato ipnotico, di totale spaesamento, di perdita di quei punti di riferimento che gli davano la possibilità di prevedere l’esito delle sue azioni e quindi di ipotizzare il suo futuro prossimo e lontano. Parlare dei giovani di fine millennio è operazione ad alto rischio: la psicologia è necessaria, la sociologia utile, l’antropologia culturale preziosa, ma forse può aiutare di più la … mitologia. Mi spiego. Quando ripenso alla mia generazione – quella del ‘68 – la rileggo inquadrandola (forse con un pizzico di autocompiacimento) nel mito di Prometeo, l’eroe greco che avrebbe dato la scalata al cielo per rubare il fuoco degli dei e avviare così la storia dell’eterno progresso: insomma la generazione di quelli che cercavano di cambiare il mondo.

Poi è arrivata l’ondata del flusso con le derive dello scetticismo e del nichilismo: qui forse la figura mitologica più appropriata potrebbe essere Sisifo, con il suo masso enorme portato con immane fatica sulla cima di un colle e poi rotolato giù a valle, e quindi di nuovo su e poi giù, all’infinito, senza un perché, senza una speranza. Cioè: tutto è perfettamente assurdo. E a chi paragoneremo la generazione presente? Verrebbe da pensare a Narciso: vedi il culto dell’immagine, il mito della moda, l’ossessione del successo personale. Ecco come questi giovani “Narcisi” si autopresentano. In una lettera dal titolo “Provocazioni dei giovani ai loro vescovi”, letta al recente convegno di pastorale giovanile della Conferenza Episcopale del Lazio (Divino Amore, 8 giugno 1999) si sono definiti come “i ragazzi del brivido, così duri eppure così fragili che perfino uno specchio può farci crollare”. Duri e fragili, dunque, o come è stato detto, “giovani-thermos”: duri fuori, fragili dentro.

Un altro segno caratteristico della presente generazione è l’over-dose di superfluo, accompagnata alla “carestia di essenziale” che affligge tanti giovani e rende la loro esistenza “obesa e depressa”. Come ha drammaticamente testimoniato una di loro, Claudia, una sedicenne romana che prima di suicidarsi in un bagno della stazione Ostiense, lasciò scritto in un bigliettino ai genitori: “Mi avete dato il necessario e anche il superfluo. Mi è mancato l’indispensabile”. Giovani costretti a vivere con più beni ma meno bene, coccolati, sfruttati e “abbacchiati”, questi “giovani firmati”, anemici perché ipertrofici, fanno venire in mente l’etimologia che vorrebbe derivare “narcosi” dal fiore del narciso, azzurro fiordaliso che secondo Sofocle (Edipo a Colono) si intrecciava nelle collane di Demetra e Persefone, le divinità della Morte, si avrebbe quindi l’accostamento narciso-narcotico: l’amore per la propria immagine droga e uccide.

La situazione chiama in causa gli adulti. Prendiamo, ad esempio, il caso delle ventimila adolescenti italiane che chiedono come regalo di Natale di andare dal chirurgo estetico per rifarsi il naso o il seno: non è forse più preoccupante che quarantamila madri e padri trovino perfettamente ragionevole spendere otto milioni per accontentare la figlia sedicenne che “non si piace”? Non rischiamo di questo passo di trovarci una generazione di figlie “rifatte” e di genitori “disfatti”? Molte inchieste sulla condizione giovanile rilevano l’insignificanza degli adulti per la maggioranza dei giovani. Per questi giovani gli adulti, infatti, non sono modelli né da imitare né da rifiutare, non sono né occasione di incontro né occasione di scontro: sono solo semplicemente insignificanti. Il risultato di questa debolezza intergenerazionale è che le diverse generazioni finiscono per confondersi e così ci ritroviamo una società insieme bambina (con la frenetica voglia di giocare e di divertirsi) e insieme senile (con il ripiegamento e la depressione): andiamo verso la scomparsa della giovinezza?

Ritorniamo al tratto su accennato e che qui più ci interessa, quello che definisce la presente generazione come di “giovani senza padri”. Senza radici e senza progetti, senza amori e senza sogni, sembra che l’unica scialuppa di salvataggio loro offerta sia quella dei bisogni e l’unica ancora residua sia quella di abbarbicarsi nel presente, di un presente puntuale e indeterminato, “aoristo”, senza cioè l’orizzonte sia del passato che del futuro. Il rischio è che la vita si riduca ad uno zibaldone di tante micro-esperienze o al più di storie abortite e perda il carattere sacro di una storia sacra, anche piccola ma coerentemente unitaria, sorretta da un progetto e da una meta. La sfida, tutta da giocare, è che la riscoperta del presente consenta alle persone un maggior rapporto con se stessi, con gli altri, con la vita, e deve trattarsi di un presente senza uccisioni del passato, senza furti del futuro.

Questi brevi tratti non possono essere ovviamente né generalizzati né esasperati, e comunque abbisognano di chiavi di lettura che rendano ragione non solo della complessità e della delicatezza della situazione, ma anche della ricchezza di fermenti e delle non poche tutt’altro che marginali valenze positive.

Una prima chiave è quella del disagio: i giovani accusano fatica e affanno, la giovinezza non fa più rima come nella visione romantica con spensieratezza, ma con pesantezza e tensione, anche se spesso negata o mascherata. Dire disagio non è dire indifferenza. Quando si dice che i giovani sono indifferenti, si è già tranciato un giudizio non solo ingeneroso, ma ingiusto, perché si sottintende che gli adulti hanno fatto di tutto nei loro confronti mentre loro, i giovani, non apprezzano mai niente, non osano più niente.

Un’altra chiave di lettura è quella dell’ambivalenza: l’attuale generazione appare come posizionata sul dorso di un crinale che presenta sempre due versanti, uno positivo e l’altro negativo. Si prenda ad esempio il tratto della soggettività: da una parte ha cura di sé, capacità di interiorità, attenzione all’individuo e alle persone; dall’altra comporta il rischio del soggettivismo esasperato (“Io sono mio”), del ripiegamento morboso e compiaciuto, del relativismo arbitrario e fin troppo comodo. Si riprenda anche il tratto su accennato della crisi della temporalità che alla riscoperta del presente spesso accompagna il rischio dello sradicamento dal passato e del disancoraggio dal futuro. Inutile dire che una pastorale non stracciona, ma pensata e accorta è quella che sa sfruttare i problemi in risorse, le difficoltà in sfide e opportunità. Ma per questo c’è bisogno di un progetto.

 

Fede e cultura: il nuovo progetto della Chiesa italiana

Di un progetto culturale (= PC) orientato in senso cristiano si parla, nella Chiesa italiana, oramai da vari anni, da quando cioè l’idea fu proposta dal Cardinale Ruini all’attenzione dei Vescovi del Consiglio Permanente della CEI, riunito a Montecassino nel settembre 1994. Senza ripercorrerne ora l’iter, è forse opportuno rivisitarne le ragioni e gli obiettivi, con qualche rapido riferimento al contesto pastorale del nostro convegno. Dopo Palermo ‘95 e Collevalenza ‘96 risultano ormai acquisiti i seguenti elementi:

– è necessario che la missione della Chiesa di annunciare il Vangelo di Gesù Cristo, nel duplice senso di evangelizzazione della cultura e di inculturazione del Vangelo, avvenga attraverso un’azione consapevole e mirata, che quindi oltre alla fondamentale e irrinunciabile via della testimonianza, preveda – anche se in forme e gradi diversificati – il momento della riflessione e della progettazione;

– è inoltre indispensabile che tale azione risulti concreta, per la puntuale determinazione di obiettivi, modalità, strumenti e tempi di attuazione;

– dovrà ancora trattarsi di un’azione organica, per poter superare i rischi della frammentazione e di un’episodicità che sarebbe inevitabilmente estemporanea e disordinata;

– in quarto luogo, perché il messaggio cristiano possa interpellare l’uomo del nostro tempo, l’azione pastorale al servizio della incarnazione del Vangelo deve avere il carattere della unitarietà, deve cioè registrare una convergenza sinfonica di menti e disponibilità operative, prevedendo sempre una circolazione continua e feconda tra la cultura vissuta e la cultura pensata.

In questo senso, al di là di talune difficoltà che poi sono state gradualmente superate, ha registrato un generale consenso l’accezione del progetto come di un processo dinamico, ossia un cammino aperto, condotto con l’intelligenza della fede e con la costante disponibilità ad aggiornare tempi e strategie. Per una tale azione consapevole e mirata, dinamica e concreta, occorre avere ben chiaro il nucleo fondativo del PC.

Il progetto culturale orientato in senso cristiano non è una “trovata” dell’ultima ora né un espediente “tattico” per rimediare a ritardi o a difficili e spesso drammatiche emergenze. In un certo senso si può dire che il Progetto è antico quanto la Chiesa, o comunque esso risponde alla necessità che è di ieri e di sempre: quella di dire il Vangelo parlando il linguaggio della vita e della cultura del tempo. Infatti non esiste una fede che non sia espressa attraverso una lingua che la gente non possa capire.

In particolare, dal Concilio in poi, la Chiesa in Italia si è sforzata di far fronte alla situazione che per la prima volta si è verificata nella sua storia bimillenaria con l’avvento della secolarizzazione. È difficile trovare nel passato un’epoca in cui tanto largo e a prima vista incolmabile si è presentato il divario tra Vangelo e modi di vivere e di pensare della gente. Lo sforzo della Chiesa si è concentrato nella missione sua propria, e cioè l’evangelizzazione, come dimostrano i grandi piani pastorali di questi decenni e i progetti pastorali di rinnovamento della catechesi, della liturgia e della testimonianza della carità.

La situazione degli ultimi anni, di cui a Palermo si è preso ancora più coscienza, è che la nostra appare una situazione da un lato più problematica e dall’altro più promettente che in passato. Più problematica perché la fede sembra incidere sempre di meno sul costume della gente e sulle grandi scelte etiche, economiche, politiche, che vengono effettuate nel nostro paese. Più difficile e problematica anche perché il pensiero che soggiace ai comportamenti diffusi e ispira gli atteggiamenti più condivisi si presenta come particolarmente allergico alle istanze di verità, di fedeltà e di gratuità che sono connesse con il messaggio evangelico. Questa situazione però, se guardata con intelligenza profetica, appare per altro verso più promettente e più disponibile alla nuova evangelizzazione sia per la caduta delle ideologie marcatamente secolaristiche, sia per la nuova domanda di presenza che viene rivolta da più parti alla Chiesa, sia per l’accresciuta possibilità di mezzi e di strumenti (vedi i media) che rendono più facile, immediata e capillare la comunicazione intra ed extra ecclesiale.

Per delineare sinteticamente il cammino pastorale della comunità cristiana in Italia in questo scorcio di millennio, si può quindi parlare di un percorso che si snoda in continuità rispetto alle radici remote e al passato più prossimo, ma che si presenta anche con i tratti di novità che sono compresi nell’impegno della nuova evangelizzazione. A questo punto della riflessione, ci si è domandato in varie occasioni perché l’impegno per la nuova evangelizzazione debba prevedere un’attenzione alla cultura nei termini precisi e impegnativi di un progetto culturale. Raccogliendo in sintesi diversi elementi si può dire:

1. la vita quotidiana dei membri del popolo di Dio, per essere cristianamente coerente e fortemente incisiva nel contesto culturale di oggi, ha bisogno di essere più attentamente motivata e resa maggiormente consapevole della situazione in cui essa viene condotta, come pure dei condizionamenti che si verificano in modo sempre più pesante e che, se recepiti passivamente o addirittura inavvertitamente, rischiano di non far vivere la fede in quell’impegno di vigilanza che la rende significativa e incidente;

2. il servizio dei tanti operatori – preti, religiose/i e laici – o viene vissuto con particolare e coltivata attenzione al contesto culturale in cui è chiamato ad operare, o rischia di scadere prima o poi nell’abitudine, nell’estemporaneità e in quell’agire convulso, intermittente e alla fine insignificante non solo allo scopo di una autentica evangelizzazione ma anche al fine di una promozione degli autentici valori dell’uomo; infatti senza una conversione pastorale e un rinnovato impegno culturale il servizio degli operatori si estenua e si appanna la testimonianza delle comunità;

3. la cultura elaborata nelle sedi accademiche, nei centri e negli areopaghi in cui si decidono le svolte determinanti della società ha bisogno di essere orientata dal Vangelo e continuamente fermentata dal suo lievito; altrimenti le grandi scelte vengono operate contro l’uomo. Pertanto c’è bisogno che nelle frontiere ultime della civiltà sia assicurata presenza cristiana e competenza professionale, cosa che pre-esige appunto quell’azione mirata, coordinata e incisiva che risponde ai connotati del progetto culturale orientato in senso cristiano.

Riservando al prossimo paragrafo una riflessione più organica sul tema in oggetto, mi limito ad accennare a qualche breve riferimento al nostro trinomio: giovani-fede-cultura. La Chiesa è sempre stata a fianco ai giovani; per secoli ha comunicato loro in modo geniale e comprensibile il Vangelo (evangelizzazione) e li ha messi in grado di ridirlo con il loro linguaggio (inculturazione): perché oggi questa felice sintonia dovrebbe passare per un sogno proibito?

Per questo è importante non limitarsi all’offerta da parte della comunità cristiana di una sola possibilità: il gruppo giovanile. In fondo la stessa società in cui viviamo tollera abbastanza bene che i giovani si facciano le loro belle riunioni in gruppo, si autocoltivino in serre più o meno riservate, si ritrovino in isole più o meno felici. “Purché tutto resti nel modello bonsai… piccolo, carino, apprezzato, ma mai in grado di diventare una foresta, esperienza di popolo, di mondo giovanile, di comunità. Non ti è permesso di creare cultura diversa; in questo campo vige la legge del branco promossa spesso dai mass-media, dalla cultura dominante del sondaggio, dalle mode introdotte ad arte per orientare, e fosse possibile, anche le speranze degli uomini”[4].

 

Rifare la spiritualità

Attraverso il PC la Chiesa in Italia non intende proporre un’etica, ma una spiritualità: il Progetto infatti non è questione di tattica, fatta di piccoli aggiustamenti; non è nemmeno questione di prassi, fatta di attività caritative: è questione di spiritualità, diciamo pure di santità. Senza la spiritualità, il PC viene a mancare del suo “motore” insostituibile (Ruini). Perché però tale spiritualità risulti aderente, anzi incarnata nella cultura contemporanea, è indispensabile tenere presenti le tre grandi sfide o provocazioni che segnano il modo di pensare e di vivere della società e che corrispondono alle tre grandi pulsioni dell’essere umano: sesso, avere, potere[5]. Queste sfide si configurano ripetitivamente nell’edonismo e nell’idolatria dell’istinto (VC 88), nel materialismo avido di possesso (VC 89), nella corsa sfrenata al potere e nell’ideologia della libertà sganciata dalla verità (VC 91). Come si vede, le tre sfide attentano a tre valori o dimensioni fondamentali della vita cristiana (non solo consacrata!): castità povertà e obbedienza. Per esemplificare, proviamo a descrivere la sfida della povertà evangelica, vedendone una configurazione culturale a tre livelli: quello della testimonianza, realizzata secondo i criteri evangelici; quello della critica e della denuncia; e quello della proposta di una controcultura che attui una efficace terapia dei mali della nostra società e metta in cantiere una controsfida alternativa.

a. La testimonianza della povertà evangelica ha assunto nella storia della comunità cristiana diverse forme che vanno dal mettere i beni in comune per favorire la promozione dei più poveri (figura benedettina: povertà come vivere per i poveri) alla condivisione della sorte dei poveri (figura francescana: vivere come gli ultimi, i minores). Oggi la “profezia” della povertà evangelica, per poter essere più adeguatamente compresa, sembra debba essere espressa nella figura del vivere con i poveri: questo almeno pare doversi desumere dalle nuove forme di vita consacrata, come pure dalle varie riforme di diverse congregazioni religiose. Ma non è solo la povertà consacrata a doversi risignificare: anche il “cristiano comune” non può né fare un cammino di vera santità né incarnare – come è chiamato a fare – il Vangelo nella mentalità e nel costume dei nostri tempi, senza testimoniare il valore irrinunciabile della sobrietà nell’uso dei beni e della solidarietà con i più poveri. Ecco al riguardo la testimonianza-provocazione di un “cristiano comune”:

Oltre che dal comportamento sessuale, un cristiano si dovrebbe riconoscere anche da come guadagna il suo denaro e da come lo spende. La partita doppia del cristiano è importante per la sua profezia. Ma siamo onesti: oggi in Italia c’è una differenza evidente nell’uso della sessualità tra credenti e no, ma quella differenza non appare quasi mai nell’uso del denaro. I politici cristiani hanno una vita sessuale più responsabile – o più castigata – di quelli laici, ma in tangentopoli stanno alla pari, o peggio. Nelle “case dello studente” delle nostre università, i ragazzi cattolici si distinguono dagli altri per la loro attesa dell’amore, ma non si distinguono per come spendono, o per come cercano il denaro. Evitare scorciatoie nel guadagno, evitare mondanità, nella spesa. Ma soprattutto mantenere, nell’uno e nell’altro capitolo, una serenità che viene dal distacco. Se abbiamo di che mangiare e di che vestire e un tetto, ma ugualmente non siamo contenti, vuol dire che qualcosa non va. L’inquietudine per il denaro toglie la pace che è necessaria per accogliere, far germinare dentro di noi e portare a maturità il seme e la pianticella della Parola. Lo dice Gesù nella parabola del seminatore, regalandoci uno dei suoi detti più penetranti, che suona al nostro orecchio con sorprendente modernità: “La preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto” (Matteo 13,22)[6].

b. L’intervento critico deve tener conto di quanto è stato ampiamente praticato negli anni passati, quando si è rischiato di ridurre in alcune parti la vita consacrata a impegno totale ed esclusivo sul fronte della lotta nei confronti delle ingiustizie. “Oggi il problema più vistoso è l’affermarsi sicuro e baldanzoso dell’economicismo, il quale, in nome della globalizzazione dell’economia, compie drastiche ristrutturazioni e rischia di aumentare, specie nei Paesi un tempo benestanti, delle fasce sempre più ampie di poveri”[7]. Questo economicismo, in nome della globalizzazione afferma il determinismo dei processi e l’utilitarismo nei profitti e, mentre rende la situazione molto più complessa che in passato, pone questioni non eludibili. Come ci si può illudere di vivere in isole felici di “puri e duri” quando il mostro del liberalismo si va facendo sempre più baldanzoso e vorace? La situazione è esplosiva: il passaggio dal moderno al postmoderno, sotto il profilo economico, è caratterizzato – secondo il documento preparatorio dell’Assemblea mondiale delle chiese cristiane di Seul 1990, da un quadro a dir poco allarmante: ogni ora millecinquecento bambini muoiono di fame o per malattie di denutrizione; ogni giorno si estingue una specie di animali o di piante; ogni settimana vengono arrestate, assassinate, costrette alla fuga o in altro modo oppresse più persone che in qualsiasi altro periodo della storia; ogni mese altri sette miliardi e mezzo di dollari USA vanno ad aggiungersi ai millecinquecento miliardi di debito per i paesi del Terzo Mondo; ogni anno viene distrutta per sempre una superficie della foresta equatoriale tre o quattro volte più grande della Corea. O la vita dei cristiani e delle comunità ecclesiali e religiose dice qualcosa nei confronti di questa situazione, o rischia l’insignificanza e, prima o poi, l’emarginazione.

c. La proposta culturale dovrebbe partire dalla consapevolezza che “così non è possibile continuare”: non si può continuare a dissipare i risparmi delle generazioni precedenti e a sperperare le risorse del domani. In questa direzione la “profezia” della vita consacrata è irrinunciabile. “Proprio per questo la vita consacrata contesta con forza l’idolatria di mammona, proponendosi come appello profetico nei confronti di una società che, in tante parti del mondo benestante, rischia di perdere il senso della misura e il significato stesso delle cose. Per questo, oggi più che in altre epoche, il suo richiamo trova attenzione anche tra coloro che, consci della limitatezza delle risorse del pianeta, invocano il rispetto e la salvaguardia del creato mediante la riduzione dei consumi, la sobrietà, l’imposizione di un doveroso freno ai desideri” (VC 90). Ma, ancora una volta, non è né può essere solo questione di vita consacrata: è semplicemente questione di vita cristiana. In questo senso vorrei accennare a due esperienze che reputo molto interessanti, quello della “economia di comunione”, del Movimento dei Focolari, e il cammino proposto da suor Maria Pia Giudici dell’eremo S. Biagio (Subiaco) ai giovani fidanzati, che culmina nella promessa annuale oltre che di castità, anche di “sobrietà evangelica”.

 

Tre parole per un progetto… giubilare

Un accenno al prossimo Giubileo, per quanto dovuto e apparentemente scontato, sembra piuttosto prezioso e stimolante. Fin da quando ne parlò nella sua prima enciclica, la Redemptor hominis, nell’ormai lontano 1979, Giovanni Paolo II ha dimostrato di intendere il Giubileo del Terzo Millennio non come una serie di iniziative devote e nemmeno come un programma di attività religiose e caritative, ma come un “progetto” di vita e di chiesa. Non si può non convenire: né il cristiano né la chiesa possono esimersi dall’ideale e dall’impegno di vivere una storia “giubilare”. Pertanto il PC non può non essere coerentemente ed intimamente giubilare. In questo senso vanno tenute presenti le tre parole programmatiche, anzi “progettuali” del giubileo.

La prima parola è pellegrinaggio. Il pellegrinaggio è il segno più eloquente di un cammino giubilare. Sembrava un segno ormai tramontato e invece le giornate mondiali della gioventù stanno lì a dire come la provocazione di Giovanni Paolo II sia stata particolarmente compresa e accolta dai giovani. Ma anche qui il pellegrinaggio non può essere ridotto ad una pia processione: se a livello personale sta a dire la volontà di condurre tutta l’esistenza come un cammino di fede, a livello comunitario indica una chiesa peregrinante verso la casa del Padre, e dunque non una comunità “in seduta permanente”, una parolikia che invera il suo nome, cioè – come affermò Giovanni Paolo II nell’incontro quaresimale con i parroci di Roma del 1998 – una comunità che “cerca se stessa fuori di se stessa”. Occorre uno spostamento del baricentro dell’azione ecclesiale in senso missionario: questa è la “conversione pastorale” richiesta dal convegno di Palermo ‘95, non più rinviabile in tempi in cui l’uomo si percepisce come un pastore errante, un viandante smarrito, e il “pensiero nomade” invoca una cultura non del “tempio” ma della “tenda”[8].

Una seconda parola progettuale, prima ancora che programmatica, è giubileo. Il rischio più grande oggi per una comunità cristiana è la “carestia di fiducia”, insomma la tentazione dello scoraggiamento. Così, anziché essere i testimoni delle otto beatitudini si finisce per diventare i professionisti delle mille lamentazioni. Tanta gente domanda ai cristiani, come già agli ebrei dopo l’esilio a Babilonia: “Fateci vedere la vostra gioia” (Is 66,5). In quest’ora “magnifica e drammatica” della storia (Giovanni Paolo II), nel tempo del grande Giubileo, saremo una chiesa giubilante o costantemente afflitta e piangente?

L’ultima parola giubilare è grazia. Prima ancora che domanda di grazie, il Giubileo è offerta di grazia e di misericordia. Una spiritualità della grazia implica una cultura del gratuito, quel gratuito estromesso sia dalla cultura marxista che ha fatto della lotta di classe la molla del progresso e ha relegato il gratuito nel mondo delle favole. Una spiritualità del gratuito richiede il disinquinamento della cultura cristiana dai residui tossici del neopelagianesimo e di un giansenismo duro a morire. Occorre dunque rifare la spiritualità, ricentrandola non attorno all’asse del desiderio umano di Dio e allo sforzo dell’uomo per elevarsi dalla materia per arrivare fino a Dio, ma attorno all’asse dell’amore divino per l’uomo che “si abbassa” (syn-katabasis) addirittura fino al nostro livello di uomini, anzi di peccatori, per elevarci e condurci a sé “su ali di aquila” (Es 19,4).

 

 

 

Note

[1] E. SCALFARI, Il padre che manca alla nostra società, in La Repubblica, 27 dicembre 1998.

[2] F. KAFKA, Lettera al padre, Milano 1959, pp. 30.41.

[3] M. POLLO, Sogni, percorsi e contesti socio-educativi del nostro tempo, in Proposta educativa del MIEAC, sett.-dic. 1998, p. 7. 

[4] D. SIGALINI, Pastorale giovanile: la Chiesa accetta la sfida del mondo dei giovani, rel. al Convegno regionale del Lazio, Santuario del Divino Amore, 8 giugno 1999, cicl. p. 9.

[5] Cfr. Vita consecrata (=VC), nn. 89-91; PG. CABRA, Le icone della vita consacrata, Brescia 1997, pp. 175 ss.

[6] I. ACCATTOLI, Io non mi vergogno del Vangelo, Bologna 1999, p. 42.

[7] PG. CABRA, ivi, p. 186.

[8] Sul “nomadismo” come tratto caratteristico della post-modernità, cfr. E. BACCARINI (a cura di), Il pensiero nomade, Assisi 1994; A. RIZZI, L’Europa e l’altra, Cinisello B. 1991, pp. 51-55.