N.02
Marzo/Aprile 1999

A quali condizioni la comunità parrocchiale diventa luogo e segno di riconciliazione?

Prima di offrire alcune considerazioni in risposta alla domanda che dà vita a questo “orientamento”, credo sia indispensabile chiedersi quale attenzione è riservata alla dimensione comunitaria nella celebrazione del sacramento della penitenza. Perché difficilmente la comunità si sentirà impegnata nel divenire luogo e segno di riconciliazione se prima non sarà aiutata a sentirsi direttamente coinvolta nel cammino di conversione di ogni battezzato.

In molte chiese gli antichi e tarlati confessionali sono stati sostituiti con altri più moderni e dotati di ogni “comfort” (sedia, inginocchiatoio, tavolino, illuminazione soffusa, aria condizionata…) che assicurano certamente una maggiore riservatezza. E se in passato dalla sagoma del confessionale venivano fuori solo i piedi del penitente, comunque sufficienti a segnalarne la presenza e al di là della tendina si riusciva con molta difficoltà ad intravedere il confessore, oggi tutto appare impenetrabile tanto da risultare estremamente difficile sapere se c’è qualcuno “lì dentro”. Tutto avviene (in ossequio alla legge sulla privacy) lontano da occhi indiscreti e da orecchie sensibilissime, ma anche molto lontano dalla comunità che sembra non debba assolutamente interferire nel dialogo tra confessore e penitente. Per questo Karl Rahner non esita a collocare la dimensione ecclesiale della penitenza tra le “verità dimenticate” circa questo sacramento[1].

Si ha, infatti, l’impressione che tutto si concentri e si esaurisca nello spazio limitato di questo dialogo, rischiando, non raramente, di far scivolare il sacramento della penitenza negli spazi angusti di una pratica di tipo terapeutico-spirituale, la cui efficacia è legata sostanzialmente a ciò che fanno e dicono rispettivamente il penitente e il confessore. Questa eccessiva, se non esclusiva, attenzione all’aspetto umano emerge con forza in alcune richieste che troviamo spesso sulle labbra del penitente: “vado alla ricerca di un confessore che mi capisca”; “sento il bisogno di dialogare, non tanto di confessarmi”; “ho bisogno di sfogarmi con qualcuno”… Saremmo tentati di pensare che nei moderni confessionali, dopo che vi è entrato il confessore e il penitente, non sia permesso neppure a Dio di disturbare, né tanto meno di inserirsi e di operare con la sua grazia.

In questo clima comprendiamo bene come la presenza della Chiesa nella celebrazione della penitenza tende ad esaurirsi, nel migliore dei casi, al solo ministro che assolve[2]. Per questo credo sia estremamente necessario non solo per porre l’attenzione sull’autentico senso del peccato, ma anche per far risaltare con più chiarezza il ruolo della comunità, impegnarsi perché non si dimentichi la natura propriamente sacramentale della penitenza.

Il primo improrogabile compito della comunità sarà, allora, quello di pensare itinerari penitenziali animati dalla Scrittura, capaci di illuminare e far maturare il senso del peccato, la ricchezza e l’originalità del celebrare, rispetto al puro e semplice consigliare. Vale sempre la pena non dimenticare che trattandosi di un sacramento siamo di fronte ad un’azione dello Spirito che ha un’efficacia certa: non ciò che fa il prete, né ciò che fa il penitente da soli possono essere determinanti nel qualificare il senso della confessione, bensì ciò che ha fatto Dio, il quale “ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati” dalla preghiera di assoluzione (del Rito della Penitenza) ha affidato alla Chiesa “il ministero della riconciliazione” (cfr. 2Cor 5, 18-21).

È necessario che traspaia chiaramente dall’agire della comunità parrocchiale che la “riconciliazione è dono di Dio ed una sua iniziativa”[3]. Per queste ragioni il sacramento della penitenza deve essere celebrato e non solo amministrato. Tutto ciò attraverso il rispetto di un minimo di ritualità: nella scelta del luogo (possibilmente in una chiesa o cappella), nell’atteggiamento e nella posizione rispettiva del penitente e del confessore (per es. in piedi o in ginocchio per la preghiera di assoluzione), nei segni esteriori che richiamano il riferimento a Cristo e alla Chiesa (il crocifisso, l’uso della stola da parte del sacerdote…), nelle formule e nei gesti rituali (segno della croce, imposizione delle mani, padre nostro, preghiera di assoluzione…) da pronunciare e da compiere in modo dignitoso, con intensa partecipazione interiore (non come delle formalità da sbrigare).

Possono essere di grande aiuto per le nostre comunità parrocchiali in questo cammino di riscoperta della realtà sacramentale della riconciliazione e del conseguente coinvolgimento della comunità le celebrazioni penitenziali: “… perché ravvivano nella comunità cristiana lo spirito della penitenza, e hanno un’efficacia pedagogica non lieve. Specialmente nei fanciulli formano una coscienza cristiana del peccato e li rendono consapevoli della vera liberazione, quella appunto dal peccato, operata da Cristo Signore; nei giovani poi sviluppano il senso della conversione, ne richiamano l’impegno e fanno vedere in essa il cammino verso la perfetta libertà dei figli di Dio”[4].

Queste celebrazioni penitenziali, soprattutto nei “tempi forti” dell’anno liturgico, dovranno essere vissute dall’intera comunità come luogo privilegiato dell’educazione alla fede e, contemporaneamente, al senso del peccato. L’iniziativa di Dio celebrata in avvento, il giudizio della croce proposto nel cammino quaresimale consentono, infatti, di ricentrare teologicamente l’esperienza della penitenza e del perdono, evitando il primato della dimensione psicologica. Una particolare attenzione la comunità parrocchiale saprà garantire ai giovani offrendo loro momenti penitenziali previsti e costanti durante l’itinerario di fede.

“La pastorale giovanile della penitenza dovrà sapientemente porre in risalto quei valori ai quali le nuove generazioni sono particolarmente sensibili: l’aspetto ecclesiale e comunitario, l’autenticità e la concretezza, l’apertura ai problemi della giustizia e della solidarietà. Al tempo stesso dovrà però essere affermato il primato di Dio e del rapporto personale con lui, in modo che la dimensione teologica o verticale della colpa abbia sempre il debito risalto. A tal fine dovranno essere promosse nei gruppi giovanili, celebrazioni penitenziali, sempre però come invito alla conversione, che trova il suo compimento nel sacramento della riconciliazione”[5]. Anche l’atto penitenziale della celebrazione eucaristica potrebbe costituire un valido aiuto in questa direzione, purché non si esaurisca, come capita a volte di osservare, in un dettagliato esame di coscienza, anziché essere una proclamazione di quello che il Signore è e ha fatto per la sua Chiesa peccatrice e penitente.

Ed è proprio questa consapevolezza di essere una comunità penitente, perché segnata dal peccato e, ad un tempo, comunità riconciliata, perché abitata dal dono della riconciliazione che le viene dall’alto, che porta la Chiesa non solo ad essere accanto al penitente per impetrarne efficacemente il perdono, ma anche a sentirsi assieme e dentro quel peccatore che ne è in qualche modo il rappresentante. A volte si percepisce aggirarsi all’interno delle nostre comunità parrocchiali la strisciante convinzione che il peccato sia presente solo al di fuori e che a doversi convertire siano solo i “lontani”.

Per tenere sempre viva questa coscienza di essere una comunità ferita dal peccato e quindi sempre bisognosa di conversione, ogni membro dovrà essere aiutato dalla parrocchia a non aver paura di ammettere la propria fragilità e il proprio peccato, facendogli percepire di essere comunque sempre accolto, amato e perdonato nonostante i propri limiti. Questo clima di comprensione e di misericordia eviterebbe ad ogni membro il faticoso compito di inseguire inutilmente un freddo “perfezionismo”, che porterebbe direttamente alla frustrazione, qualora non fosse realizzato (il che avviene nella maggior parte dei casi), se non addirittura a confezionare continuamente maschere capaci di nascondere i propri limiti, nell’affannosa ricerca di essere ben stimato dalla comunità. Si deve poter sperimentare la convinzione che per la comunità è vero ciò che afferma s. Ambrogio: “cristiano non è chi non cade mai, ma chi, dopo essere caduto si rialza”.

Per favorire e sostenere questo paziente cammino di conversione e di crescita di ogni battezzato, la comunità parrocchiale moltiplicherà le occasioni in cui fare la verifica della propria vita, mettendosi sinceramente in ascolto di ogni fratello senza trascurare le “critiche” di coloro che non sono inseriti pienamente nella comunità, ma che comunque vivono nel territorio parrocchiale; tutto questo senza aver timore di ammettere le proprie lentezze, le proprie infedeltà, le proprie chiusure…, ma anche per constatare con gioia i progressi, le ricchezze e le meravigliose testimonianze di “santità feriale” presenti dentro la comunità. Mettersi in ascolto è sempre e comunque un modo per esprimere la consapevolezza dei propri limiti, ma anche il desiderio di cambiare. Una comunità dove è molto difficile parlare sinceramente, dove si preferisce sempre tacere, dove raramente si ammette di aver sbagliato è una comunità che non solo non favorirà la riconciliazione, ma che, prima o poi, diventerà terreno fertile per il fiorire del pettegolezzo e della maldicenza, che non raramente avvelenano la pace, mettendo a repentaglio la stessa vita della comunità. “Finché alcuni hanno paura di esprimersi, paura di essere giudicati o di passare per stupidi, paura di essere rifiutati, è segno che ci sono progressi da fare. Nel cuore della comunità ci deve essere un ascolto pieno di rispetto, di tenerezza, che richiama quello che c’è di più bello e di più vero nell’altro”[6].

Per raggiungere questo obiettivo, potranno essere molto utili le assemblee parrocchiali dove mettersi insieme non solo per programmare, ma anche per verificare il cammino fatto; le revisioni di vita nei diversi gruppi; la correzione fraterna profumata di grande carità[7].

Per diventare sempre più luogo e segno di riconciliazione, tutta la comunità si porrà costantemente nell’ascolto della Parola di Dio: “è, infatti, la parola di Dio che illumina il fedele a conoscere i suoi peccati, lo chiama alla conversione e gli infonde fiducia nella misericordia di Dio”[8]. Il cammino della conversione, infatti, di cui l’accostamento al sacramento della penitenza fa parte, non può prescindere dall’ascolto della parola del Signore, parola che scruta e mette a nudo i nostri cuori (Eb 4, 12), ma anche parola che ricrea, portatrice delle energie dello Spirito, parola che annunciandoci la buona notizia del regno di Dio ci rivela anche il nostro radicale bisogno di salvezza e, raggiungendoci nelle profondità del nostro cuore, sconosciute anche a noi stessi, compie, se accolta, l’opera di rivelazione, di svelamento dell’amore di Dio e del nostro peccato, compie cioè l’opera della misericordia. Perché, come affermava Pascal, “la conoscenza di Dio senza la conoscenza di noi stessi porta all’orgoglio, ma la conoscenza di noi stessi senza la conoscenza di Dio conduce alla disperazione”.

La comunità parrocchiale accompagnando ogni battezzato, attraverso itinerari appropriati e differenziati di catechesi, all’incontro quotidiano con la Parola, lo educherà a vivere la conversione non come un generico cambiamento, attento solo agli aspetti esteriori o periferici della vita, quanto piuttosto come adesione piena e fedele alla vocazione ricevuta, quella battesimale e, radicata in essa, quella specifica. “È, infatti, nella luce e nella forza della parola di Dio che può essere scoperta, compresa, amata e seguita la propria vocazione (…) La familiarità con la parola di Dio faciliterà l’itinerario della conversione (…) così che la fede, quale risposta alla Parola, diventi il nuovo criterio di giudizio e di valutazione degli uomini e delle cose, degli avvenimenti e dei problemi”[9]

In quest’ottica la comunità parrocchiale nell’annuncio e nell’accompagnamento vocazionale offrirà l’occasione e il luogo in cui ribadire con forza la radicalità della sequela, il senso dell’ascesi e l’obbedienza alla croce, alla quale tutti devono sempre convertire il proprio cuore, senza cedere alla tentazione di presentare proposte che lascino trasparire una immagine annebbiata di sequela, quasi idealizzata, giungendo a coglierne solo gli aspetti estetici e gratificanti che producono più un senso di protagonismo che di offerta totale di sé.

L’impegno da parte della comunità di scoprire, sostenere e valorizzare la vocazione di ogni suo membro costituirà un elemento di non secondaria importanza nel favorire il clima di riconciliazione e di pace al suo interno. Si elimineranno, infatti, fin dal suo sorgere, quei sentimenti di gelosia, di contrapposizioni e di invidia che spesso avvelenano la vita delle nostre comunità, quando questa diventa “monopolio” di alcuni (i più fidati) che fanno tutto, soffocando la generosità di tanti altri fratelli e ingenerando in loro il dubbio di non essere capaci di fa nulla e, pertanto, non meritevoli di stima, di affetto e di accoglienza. Lì dove, al contrario, tutti sono valorizzati e coinvolti nella vita della comunità è più facile che si crei un clima di comunione e di stima reciproca, unico antidoto capace di combattere ogni divisione e contrapposizione[10]

“Una comunità che tollera dei membri inutili prepara con questo la sua rovina. Ecco perché dovrà assegnare ad ognuno un compito speciale, così che, nei momenti di dubbio, nessuno possa sentirsi inutile. Ogni comunità cristiana deve sapere che non sono solo i suoi membri deboli ad aver bisogno dei forti, ma anche i forti non potrebbero vivere senza i deboli. L’eliminazione dei deboli significa la morte della comunità”[11]. La testimonianza di fedeltà gioiosa alla propria vocazione da parte dei consacrati all’interno della comunità parrocchiale costituisce un pressante richiamo a “puntare in alto” e a non adagiarsi in una mediocre superficialità. Alla luce di queste considerazioni possiamo affermare che il cammino di conversione, che porta il penitente a ricevere il perdono sacramentale, si svolge all’interno di una comunità ecclesiale che è tutta permanentemente chiamata alla conversione e a testimoniare quella stessa misericordia, esercitata quando riconcilia il penitente, nelle molteplici forme di carità che sostengono la vita quotidiana della comunità (perdono reciproco, correzione fraterna, consiglio, consolazione…). Non sempre, però, la comunità parrocchiale si presenta come luogo dove la misericordia, il perdono e la riconciliazione sono costume di vita; perché, purtroppo, “le nostre comunità cristiane non appaiono agli occhi di tutti come luogo della riconciliazione e promotrici di essa”[12].

Ogni fratello, dunque, non deve essere lasciato solo nel suo cammino di riconciliazione, deve poter contare sulla preghiera, i sacrifici e la carità di tutta quanta la comunità e di ogni singolo battezzato: “La Chiesa, in quanto popolo sacerdotale, animato dallo Spirito Santo, partecipa pienamente alla conversione del peccatore. Infatti essa non solo è il luogo della riconciliazione, ma anche lo strumento efficace. Con la carità, l’esempio, la preghiera, la predicazione della Parola, il ministero”[13]. L’icona evangelica di quelle quattro persone che calano davanti a Gesù il loro amico paralitico, perché lo guarisca (Mc 2, 12) raffigura con tratti inequivocabili e toccanti quale deve essere l’impegno di tutta la comunità: “portare i pesi gli uni degli altri” (cfr. Col 3, 13) e insieme andare incontro a Cristo, il nostro redentore!

Senza confusione alcuna di ruoli, è necessario che il ministero della riconciliazione non appaia ristretto in una pratica sacramentale anchilosata, né soltanto nella attribuzione ministeriale, ma articolato secondo la multiforme realtà ecclesiale: “anche a tutta la comunità dei credenti, all’intera compagine della Chiesa è affidata la parola della riconciliazione”[14]. In questa direzione sono tante le forme di aiuto che la comunità parrocchiale può mettere in atto: dall’incoraggiare chi non è in piena comunione con il fratello ad incamminarsi sulla via del dialogo e del perdono, a sostenere chi è tentato di lasciarsi vincere dallo scoraggiamento, perché non vede corrisposto il suo desiderio di riconciliarsi, a creare un clima di accoglienza nei confronti delle “differenze” (di cultura, di razza, di religione, di appartenenza ecclesiale) considerandole non come una minaccia alla propria esistenza, ma come un arricchimento della propria vita.

“La comunità è fatta di delicatezza tra persone nella vita quotidiana. È fatta di piccoli gesti, di premure, di servizi e sacrifici che sono segni costanti di un ‘ti voglio bene’ e ‘sono felice di stare con te’. È lasciar passare avanti l’altro, non cercare durante le discussioni di dimostrare di aver ragione; è prendere su di sé i piccoli fardelli per scaricarne il vicino”[15]. Solo una comunità che si impegna a vivere in questo modo potrà essere “in un mondo lacerato da odio e discordie, segno di riconciliazione e di pace”.

 

 

 

 

Note

[1] K. RAHNER, Verità dimenticate intorno al sacramento della penitenza, in La penitenza nella Chiesa, EP, Roma 1968, pp. 73-128.

[2] “Non sempre nella persona del sacerdote ministro si avverte e si accetta la presenza della Chiesa, né si percepisce l’esercizio concomitante del sacerdozio battesimale di tutto il popolo di Dio” (CEI, Evangelizzazione e sacramenti della penitenza e dell’unzione degli infermi, 1974 , 24).

[3] CEI, ibidem, 65.

[4] CEI, ibidem, 90-91.

[5] CEI, ibidem, 102-105

[6] J. VANIER, La comunità, luogo del perdono e della festa, Jaca Book, Milano 1997, p. 74.

[7] “Se vedi un tuo fratello peccare, coprilo con il mantello della tua carità”, ci ricordano i padri…

[8] Rito della Penitenza, 17.

[9] GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis, esortazione apostolica post-sinodale, 1992, 47.

[10] “Utilizzare il proprio dono, è costruire la comunità. Non essere fedeli al proprio dono, è nuocere a tutta la comunità e ad ognuno dei suoi membri. Perciò è importante che ogni membro conosca il proprio dono, lo eserciti e si senta responsabile della sua crescita; che sia riconosciuto nel suo dono dagli altri e renda conto dell’uso che ne fa. Gli altri hanno bisogno di questo dono e devono incoraggiare colui che lo ha ricevuto a farlo crescere e ad essergli fedele. Seguendo il proprio dono ognuno trova il suo posto nella comunità. Non solo diventa utile ma unico e necessario agli altri. Soltanto in questo modo svaniscono le rivalità e le gelosie” (J. VANIER, o.c., p. 70).

[11] D. BONHOEFFER, Vita comune.

[12] CEI, Le attese della Chiesa in Italia, 26, (Contributo della CEI al VI Sinodo dei Vescovi sul tema “La riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa”, 9/11/1982)

[13] J. VANIER , o.c., p. 68.

[14] Rito della Penitenza, 8.

[15] J. VANIER , o. c.