N.01
Gennaio/Febbraio 1999

Restare fedeli, diventarlo di nuovo

È un po’ di tempo che sono alle prese con queste note; sin dal primo momento i pensieri si sono rincorsi l’uno dietro l’altro, ma ce n’era qualcuno che si è affacciato subito e non mi ha più lasciato: restare fedeli?! Diventarlo di nuovo?! Ma allora qui devo dire qualcosa sulla grazia di Dio, sul fatto che Lui solo è fedele per sempre? E che noi senza di lui non possiamo nulla? Che a noi è impossibile essere fedeli, ma che a Dio tutto è possibile? E poi subito ho cominciato a fantasticare sulla figura di Pietro: parlando di fedeltà, infedeltà, restare fedeli mi pareva che la sua esperienza in qualche maniera potesse essere considerata come paradigmatica[1]. Non poche volte, in verità, proprio il tener presente lo svolgersi della sua avventura di discepolato, mi ha offerto parecchi spunti pedagogici che a questo punto provo a condividere.

Le tracce evangeliche evidenziano un intreccio tra le sue vicende di fragilità, di peccato e di perdono col suo cammino di ritrovata fedeltà. Vorrei cercare di cogliere qualche riverbero di questo intreccio per un cammino spirituale lì dove questo è segnato dal limite, dalla fragilità, dal fallimento, dal peccato, visti come situazioni di infedeltà o come possibili “ostacoli” alla fedeltà, ma anche come promettenti “veicoli” e “occasioni” per chiederne e riceverne da Dio nuovamente il dono.

 

Pietro, il discepolo dalla “faccia tosta”: la resistenza

Niente paura. Nessuna pretesa di ricostruire la “biografia” dell’apostolo. Ma è anche vero che i redattori finali dei Vangeli rinviano ad una certa caratterizzazione dei loro personaggi quando di fatto scelgono di riportare episodi, parole, atteggiamenti etc. E se c’è un discepolo la cui figura emerge come fortemente caratterizzata, carica di contraddizioni, di positività e di ombre, slanci e resistenze, ambiguità e coraggio, questi è proprio Pietro. Non l’hanno mancato di notare molti commentatori. Tra quelli da me consultati a Pietro si riservano espressioni come: spontaneo, generoso, impulsivo, impetuoso, coraggioso, libero, categorico, eccessivo, sincero, ingenuo, presuntuoso, testa dura, a momenti pauroso, troppo fiducioso in se stesso e così via… Mi sono anch’io permesso di aggiungere un altro appellativo, quello di “faccia tosta”: dalle mie parti richiama, infatti, un misto di sfrontatezza, coraggio, arditezza, che talvolta si associa anche ad una visione poco realista di sé, forse un po’ gonfiata, spesso per mascherare qualche sottostante paura; ad ogni modo mi sembrava una espressione appropriata per il nostro apostolo. Infatti, mentre Gesù “indurisce la faccia” verso Gerusalemme (Lc 9,51), Pietro lo prende in disparte, protesta, vuole insegnarli come si fa il Messia (Mc 8,27-33; Mt 16,22), vuole distogliere Gesù dalla rotta verso il Calvario (Mc 8,32b), si oppone alla volontà di Dio (Mc 9,2) e non vuole restare al suo posto di discepolo.

Sul lago di Genesaret vuole andar incontro a Gesù camminando sulle acque e nell’ultima Cena non vuole farsi lavare i piedi. Promette di seguirlo dovunque, assicurando di non scandalizzarsi, a costo della prigione e se fosse il caso anche della vita, pensando di essere più fedele degli altri apostoli (Mc 14,29-31; Lc 22,39ss; Mt 26,30ss). Se non è “faccia tosta” tutto questo!? È un po’ la catena di illusioni e false aspettative presenti non solo all’inizio, ma disseminate un po’ lungo l’arco del discepolato e che costituiscono delle vere e proprie resistenze ad entrare nella logica di Gesù e della sua proposta di vita.

Un altro particolare mi sembra importante notare: a ben riflettere nei “tratti” con i quali gli evangelisti tratteggiano la personalità dell’apostolo, sembra esserci contemporaneamente la predisposizione e il vissuto del suo amore passionale e appassionato al Maestro, come anche qualche frammento del mistero del suo peccato e della sua incapacità ad essergli fedele!

È vero che la infedeltà e il peccato non sono comprensibili solo all’interno di categorie antropologiche o morali o psicologiche come “finitudine”, “orgoglio”, “vulnerabilità”; ma non è anche nella geografia affettiva di ciascuno qualche traccia del personalissimo modo di amare Cristo, ma anche di non essergli fedeli e di tradirlo? E una pedagogia più rispettosa del mistero di ciascuno non dovrebbe anche imparare ed insegnare a cogliere e interpretare le coordinate di questa “geografia” del cuore? Se la risposta non è semplice e non è univoca, la domanda – nei suoi risvolti anche esistenziali – mi sembra degna di essere presa in considerazione.

 

Il discepolo “perde la faccia”: la delusione

L’ambiguità di Pietro e la sua vulnerabilità fanno presto a trapassare la facciata: sul lago si lascia subito prendere dalla paura e comincia ad affondare; ha appena proclamato Gesù come Messia ed entra in crisi di fronte alla prospettiva di un Messia umiliato e sofferente; non ha la forza nemmeno di resistere al sonno e di vegliare, nonostante le ripetute richieste del Maestro che lotta nell’orto degli Ulivi (Mc 14,32-42) e la sua dichiarata disponibilità. Quando stacca l’orecchio di Malco dà prova di non aver capito molto del Regno di Gesù e pensa ancora una volta di poter essere lui il difensore del Maestro. Molte delle sue scelte, e proprio nei momenti cruciali, vanno nella direzione sbagliata, fuori della logica di Gesù, tendendo a contraddire o ostacolare i disegni di Dio. L’esperienza del rinnegamento, a questo punto, è la conclusione di una fase del cammino del discepolo: da una sicurezza che sembrava inattaccabile alla incapacità di reggere il momento della testimonianza, fino a giungere a dire di non sapere nulla del suo legame con Gesù, fino a rinnegare la sua stessa identità di discepolo[2]. Ma la risposta di Pietro – “non conosco quell’uomo” – non è una semplice bugia: Pietro davvero a quel punto in cui è giunto non sa più chi è il Messia e non sa neanche più chi è lui stesso. Il rinnegamento del Maestro è anche la sua incapacità di autodefinirsi. Non solo ha “perso la faccia”, nel senso di essersi completamente smarrito. Pietro non si riconosce più; la crisi del suo legame con il Maestro, la sua infedeltà al Maestro, è crisi di identità[3]. Questo è il momento più tragico: quando tutto quello su cui si è costruito il proprio progetto di fedeltà viene meno; quando la lotta, poi, non è soltanto su un piccolo particolare, ma investe addirittura il rapporto con il proprio Dio, che si mostra inaspettatamente e terribilmente diverso da come lo si era immaginato, pur nel desiderio vero di vivere nella sua orbita. Allora la confusione diventa totale: da un lato si raccolgono i cocci di un progetto ormai in frantumi; dall’altro il Dio di Gesù sembra non fare niente per venire in soccorso, anzi ci si mette anche Lui, fino a farti capitolare. Ma non è il momento della capitolazione quello dove può iniziare la “ricapitolazione”?

 

Un gallo e uno sguardo: il discepolo tra memoria e disincanto

E il momento della capitolazione per Pietro arriva con il canto di un gallo: tutti gli evangelisti lo ricordano e, tranne Giovanni, ad esso fanno seguire il “ricordo” delle parole di Gesù e il pianto dell’apostolo. Luca riporta anche il particolare dello “sguardo” di Gesù verso Pietro. Il canto del gallo lo fa rientrare in se stesso[4] e se non bastasse il simbolo giungono la “memoria” delle parole del Maestro e il suo sguardo penetrante. Lo sguardo di Gesù e quello di Pietro si erano già incrociati, con un fissarsi reciproco che proprio all’inizio della sua avventura col Maestro avrà certamente lasciato la sua traccia: è un momento delicato, è l’inizio del “giro di boa” dell’apostolo. Ora Pietro – ogni discepolo – deve fare i conti con il proprio passato di promesse e di infedeltà, di entusiasmi e di incomprensioni. È uno di quei “momenti verità” dove la persona non può far più finta di niente, deve prendere atto del suo fallimento, della sua vera identità di persona fragile, debole, che deve imparare a comprendere meglio questa debolezza per poter finalmente poggiare sulla grazia di Dio più che sulle proprie risorse[5], perché finalmente possa essere vero per lui che nella sua debolezza si manifesta la potenza di Cristo (cfr. 2 Cor 12,9-10). Lo sguardo di Gesù un tempo aveva cambiato il nome all’apostolo; lo sguardo di oggi e la memoria “affettiva” di quella prima volta gli cambiano il cuore. Non è lo sguardo accusatore della serva che smaschera Pietro; non è lo sguardo un po’ malcelatamente e sottilmente compiaciuto di chi pensa o dice “te lo dicevo…!” Lo sguardo di Cristo è quello della benevolenza e dell’amore che rivela delicatamente fin in fondo la propria vera identità e apre il cuore alla speranza. Non è forse la capacità di coltivare e imitare questo “sguardo” ciò che anche in un cammino di accompagnamento diventa “mediazione” di una grazia che scende dall’alto e che riapre nuovi sentieri e speranze di fedeltà, proprio dove la fedeltà era venuta meno?

 

Il dono delle lacrime: la resa e la ritrovata fedeltà

“Le lacrime di Pietro sono importanti al pari della sua confessione di fede”[6]. Sono il frutto e il segno della sua resa all’amore incondizionato e rigenerante del Maestro, tutto presente in quello sguardo. Tra il canto del gallo, il ricordo, lo sguardo di Gesù e il pianto mi pare di poter ritrovare una sequenza stupenda e significativa per ogni cammino: Pietro fa esperienza della sua infedeltà, della sua identità di creatura povera e fragile, come della iniziale difficoltà ad accettarsi proprio così. Ma è anche il momento trasformante in cui integra infedeltà, colpa, finitudine e fallimento, aprendosi al perdono e all’amore, accettandosi “peccatore e credente”, peccatore amato e perdonato. Nel dialogo tra Gesù e Pietro il Vangelo di Giovanni ben sottolinea tutto questo (Gv 21,15ss), insieme ad un altro aspetto del cammino verso una ritrovata ma nuova fedeltà. Nella triplice domanda sull’amore la pedagogia di Gesù è di una finezza unica e si offre ancora una volta come modello di vera pedagogia spirituale: “non gli dice: tutto è passato, non pensiamoci più, mettiamoci una pietra sopra come se nulla fosse accaduto. E nemmeno: ho visto che vali ben poco, ma non importa, andiamo avanti ugualmente. Gesù, invece, agisce rimettendo in moto le forze più profonde di Pietro… lo interroga sull’amore, ricostituendogli la fiducia in se stesso… Gesù restituisce Pietro alla sua verità, raggiunge quel punto che sta sotto le nostre debolezze, i nostri peccati, le nostre fragilità e che ci qualifica perché in esso ci scopriamo amati da Dio e aperti alla sua salvezza”[7].

Una ritrovata fedeltà, dunque, non passa per il rinnegamento del passato né di quella parte di sé che nel passato ha rinnegato; né per il rinnegamento della colpa dinanzi a Dio. Non è neanche il frutto di un ossessivo rimuginare né un soccombere al peso del ricordo: saremmo ancora nella spirale distruttrice di una espiazione autosalvante[8]. Non è neanche soltanto o prevalentemente il frutto di un sapiente e talvolta importante e necessario cammino psicoterapeutico. Ma è la memoria viva di una Parola e di una Persona; è il riconoscimento sentito ed esplicitato del bisogno di una redenzione e di un Redentore che diventa invocazione accorata, che sale dagli abissi del proprio cuore contrito e umiliato, perché il Dio fedele ricostruisca in noi la Sua immagine e somiglianza.

Restare fedeli o diventarlo di nuovo non è possibile al di fuori di questa logica: le promesse da… “pescatore” sono tutte destinate al naufragio! Con un po’ di pudore vorrei dire che è una illusione pensare il contrario. O è presunzione. O è ingenuità. O inesperienza. Ma vorrei altrettanto dire di nuovo: ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio! Già, perché se comincio a capire qualcosa della vita, e se l’esperienza di Pietro veramente insegna qualcosa, un punto mi diventa sempre più chiaro: il restare fedeli e il ridiventarlo sono una “utopia possibile”, ma veramente e propriamente perché opera di Dio: infatti, se noi manchiamo di fede, Lui però resta fedele. Solo un Dio può fare così!

La nostra risposta? Canterò senza fine le grazie del Signore, con la mia bocca annunzierò la tua fedeltà nei secoli, perché hai detto: “la mia grazia rimane per sempre”; la tua fedeltà è fondata nei cieli (Sal 88,2-3). La nostra collaborazione? Lui tutto e noi nulla!

Ma intendiamoci! Ci vuole un lungo e faticoso discepolato, e molte illusioni, e molte fatiche, e molte sconfitte, e molte bruciature, e molta passione, e molta fede, e molto amore, e molta ascesi, e molta preghiera e poi un abbandono cieco, accettando con pazienza che anche alla fine dei nostri giorni ci illuderemo di poter noi da soli fare qualcosa. Meno male che c’è la morte! Sarà la morte, infatti, l’ultima occasione propizia – e per qualcuno l’unica -, con cui potremo permettere al Dio fedele di farci diventare finalmente “fedeli” come sta a cuore a Lui, per goderne così la gioia senza fine, come ci insegna il “buon ladrone” (Lc 23,40-43). Ed è però proprio il confronto con la morte e le sue ancelle – peccato, colpa, sofferenza, finitudine etc. -, come il nostro quotidiano morire, che potrà permettere a Dio di rifarci sempre da capo, di restituirci per-dono ad una fedeltà più debole, ma vera; vera perché Sua, debole perché “carnale”. Vera perché debole; forte, perché partecipe della fedeltà del Verbo che si è fatto carne.

A proposito, dunque, di fedeltà, restare fedeli, diventarlo di nuovo, al termine di questi spunti mi sono ritornate fresche e appropriate le note espressioni di S. Ignazio: “questa sia la prima regola dell’agire: confida in Dio in tal modo, che tutto il successo delle cose (eventi) dipenda da te e non da Dio; tuttavia, metti in opera ogni azione per queste cose come se tu nulla e Dio solo sarà colui che fa tutto”[9]. Mi pare che sia qui il cuore di una corretta pedagogia della fedeltà come sta a cuore a Dio. E allora non c’è cammino, non c’è proposta, non c’è accompagnamento che possa fare a meno di questa regola all’inizio, durante e alla fine. Cioè non c’è cammino di fedeltà senza la disponibilità e il desiderio di una resa incondizionata a Dio prima durante e dopo la necessaria e doverosa lotta perché questa resa sia di fatto vissuta. Non c’è modo di rimanere nella fedeltà o di ridiventarlo senza un continuo grido di aiuto al Dio fedele e senza un costante riferimento alla vita della grazia, perché ogni nostra risposta di fedeltà abbia da Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento, sicché il Dio della pace ci santifichi fino alla perfezione e tutto quello che è nostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che ci chiama è fedele e farà tutto questo (cfr. 1 Ts 5,23-24).

 

 

 

Note

[1] R. PESCH, Il Vangelo di Marco, Paideia 1982, 93; cfr. anche C. M. MARTINI, Le confessioni di Pietro, Piemme 1992, 30-31.

[2] R. FABRIS, Matteo, Borla 1982, 541-542.

[3] C. M. MARTINI, o.c., 29.

[4] R. SCHNACHEMBURG, Vangelo secondo Marco. Commenti spirituali del N.T., Città Nuova 1973, 281.

[5] R. SABOURIN, Il Vangelo di Luca, Coed. P.U.G. e Piemme, 1989, 340.

[6] O. DA SPINETOLI, Luca, Cittadella, 681.

[7] C. M. MARTINI, o.c., 64-65.

[8] È la spirale che porterà Giuda al suicidio?

[9] Cit. in F. IMODA, Esercizi Spirituali e Psicologia. L’altezza, la larghezza e la profondità (Ef 3,18), Centrum Ignatianum Spiritualitatis 1991, 22.