N.02
Marzo/Aprile 1998

Quale pastorale vocazionale delle nostre Diocesi nell’attuale situazione della Chiesa italiana

Il titolo ha tutto il sapore di una domanda: “Quale…”. Ed allora la riflessione vuole essere una risposta che tiene pure conto della situazione della Chiesa italiana, ma soprattutto l’orizzonte della nostra Chiesa particolare. Anzi questo è un interrogativo che io stesso mi sono posto: “Quale pastorale vocazionale per la mia Chiesa particolare”. Credo però che la risposta sia estensibile, fatte salve le differenze, a tutta la nostra Chiesa.

 

 

 

ALCUNE COORDINATE STORICHE

 

Quando si pensa all’attuale situazione della Chiesa italiana credo sia doveroso evocare, sia pure per cenni, tre coordinate storiche.

 

Vangelo e carità per un “nuovo” progetto culturale

Anzitutto la vicenda di questo decennio vigilare del 2000 che costituisce l’esito di oltre un quarto di secolo. La parabola disegnata dalla Chiesa italiana sul versante del dopo-Concilio ha preso il via dal primato della evangelizzazione per giungere al vangelo della carità, il cuore dell’annuncio.

 

Evangelizzazione e sacramenti

Gli anni ‘70 hanno impegnato, infatti, le nostre comunità in un difficile salto di qualità: passare “da comunità praticanti a comunità credenti”. La magna charta che ha stimolato un vasto e convergente impegno pastorale è stato il documento della CEI Evangelizzazione e Sacramenti (1973), con l’esplicita e insistente affermazione del necessario primato dell’evangelizzazione (n. 59). Ciò ha prefigurato quella scommessa che ha trovato nel Convegno di Palermo la sua esplicita ratifica con la consegna a tutta la Chiesa italiana dell’impegno della formazione, a partire dal primato della Parola.

 

Comunione e comunità

Gli anni ‘80, dentro una cultura drammaticamente attraversata dai venti incrociati dell’indifferenza e del nichilismo, hanno incoraggiato un ulteriore passo avanti: “da comunità praticanti a comunità missionarie”. I documenti orientativi del cammino, Comunione e Comunità (1981) e Comunione e comunità missionaria (1986), hanno vigorosamente sollecitato tutta la Chiesa italiana a diventare nuovo lievito di storia dentro le sfide aperte del mondo.

 

Evangelizzazione e testimonianza della carità

Ed eccoci agli anni ‘90, tra la recente memoria storica di un quarto di secolo post-conciliare e l’ultimo decennio di questo millennio, che ha tutto il sapore di una vigilia. Un’altra conversione sollecita il nostro cammino: passare da “comunità praticanti a comunità testimonianti il vangelo della carità”. Si tratta di assumere e annunciare il “vangelo dell’amore”, e verificarsi su di esso. Primato dell’evangelizzazione, comunione e missione, testimonianza della carità; la strada è aperta: in salita. L’Agape diventa la vera giustificazione eziologica della sincronia della missione e della nuova evangelizzazione.

Non a caso il documento per gli anni ‘90 Evangelizzazione e testimonianza della carità non va lasciato da parte, spinto fuori dal farsi posto dei documenti successivi, perché dà un’esatta chiave interpretativa della carità come forma della nuova evangelizzazione, ricuperando dell’agape i significati forti: la carità come identità di Dio e della comunità ecclesiale, la carità come via maestra della missione.

 

La grande sfida del progetto culturale

Di qui la grande sfida del progetto culturale tra discernimento e nuova evangelizzazione. Il rapporto chiesa-mondo tocca i nervi scoperti della storia: la cultura, i modelli di pensiero; ed evoca quanto già disse Giovanni Paolo II: Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta (Discorso al Meic, 1982).

Il progetto culturale non è dunque una sorta di inedito storico per riaggregare il mondo cattolico dopo la caduta delle mediazioni ideologiche; bensì è la conseguenza urgente di un’autocoscienza della Chiesa in stato di missione e di evangelizzazione. Certo, se paradossalmente la Chiesa fosse rimasta nel tempio, avrebbe potuto evitare la rotta impervia della cultura; ma ha preso il largo, deve prendere il largo. E non poteva non cimentarsi con il secolarismo, con il post-moderno, con le sue sfide e la sua visione di uomo.

Di qui la tematizzazione della cultura con il suo contenuto centrale: l’annuncio di Cristo all’uomo della post-modernità, alle prese con il paradosso della libertà: da una parte questa – la libertà – è il valore più enfatizzato, al punto da essere valore sopra la vita per deciderne le sorti (pensiamo al grave equivoco attorno alla mentalità abortista). Dall’altra la libertà come contenitore vuoto, condannata al suicidio. Quale libertà infatti hanno i nostri giovani, quando in casa, nel contesto sociale, sono drammaticamente condannati a pensare la vita e l’uomo ad una dimensione? Non solo. Ma l’uomo della post-modernità è un timido soggetto interrogante nella soffocante cultura delle risposte. La domanda di senso per la vita, che pure fa parte dell’indistruttibile struttura antropologica, viene indebolita da una cultura che devia la domanda con i bisogni indotti artificialmente, gratificandoli e dando risposte che in realtà non sono in sintonia con gli interrogativi più veri e più profondi.

Anche per questo l’uomo della post-modernità esprime “un io debole”, che si riflette nei molti atteggiamenti esistenziali che toccano le scelte più importanti della vita e del futuro: come ad esempio l’indecisione o il rimando delle decisioni, la psicolabilità diffusa, la paura delle scelte definitive. La stessa nostalgia di Dio corre il grave rischio di deviare su sentieri religiosi, che poco hanno a che fare con Gesù Cristo. Insomma, la preoccupazione del progetto culturale è una sola: dire all’uomo della post-modernità, Gesù Cristo; all’uomo assediato dalle nuove provocazioni culturali che vanno dalla bioetica all’ecologia, problematiche che chiamano in causa non solo questa generazione, ma anche quelle successive. E dire “progetto culturale” significa pensare una Chiesa “diffusa”, plurilivellare, per essere propositiva e missionaria di ogni uomo: dal mondo universitario, alla scuola, alla comunicazione, alle comunità cristiane alle prese con la pastorale ordinaria, con i suoi catechisti e con il suo anziano parroco, con i suoi problemi e la sua preoccupazione di dire significativamente Gesù Cristo come vero progetto dell’uomo.

 

CEI, Vocazioni nella Chiesa Italiana, 1985

Una seconda coordinata è costituita dal cammino della pastorale vocazionale italiana, soprattutto con riferimento al Piano Pastorale per le Vocazioni in Italia del 1985. È un cammino tuttora aperto e disegnato con chiarezza di obiettivi e di proposte, che senza dubbio hanno allargato a macchia d’olio la coscienza vocazionale della pastorale della chiesa italiana, soprattutto in tre direzioni: in modo ampio ed aperto a tutti, (ad es. attraverso il Convegno annuale di studio); con la cura puntuale dei formatori o degli operatori pastorali; e nella direzione della riflessione teologico-pastorale.

 

Tali obiettivi pastorali sono così riassumibili:

-il primato della formazione e della spiritualità;

-la pastorale vocazionale unitaria come “fatto” di Chiesa, dove tutti (ministri ordinati e religiosi, consacrati secolari, missionari) sono a servizio di tutta la pastorale vocazionale, prima che dell’animazione delle proprie vocazioni;

-la pastorale vocazionale come “scelta educativa della comunità cristiana”, in specie della comunità parrocchiale e delle sue articolazioni;

-la proposta vocazionale come proposta di itinerario educativo non di iniziative saltuarie;

-ogni educatore alla fede formato a divenire guida spirituale e anche specificamente “animatore vocazionale”;

-la naturale collocazione del Centro Diocesano Vocazioni al “cuore”, e cioè nel tessuto ordinario della vita della Chiesa particolare e la sua piena valorizzazione, con un adeguato potenziamento di persone e mezzi.

Se qualche osservazione va fatta in merito a tale cammino è la seguente: va anzitutto riconosciuto il grande patrimonio di idee cresciuto in questi anni in senso vocazionale anche se, ad una verifica sul campo – in termini numerici – sembra che i risultati non corrispondano alla fatica profusa e sembra che la ripresa vocazionale in molte Chiese particolari sia ancora in spe. Forse il lavoro vocazionale ha da prevedere più marce, soprattutto perché, proprio in questo settore pastorale che è il più difficile, si verifica in molte Chiese particolari un rapido avvicendamento di persone. Per cui molti principi ed esperienze che possano risultare scontatissimi per molti, permangono inediti per tanti altri. L’arte della pastorale vocazionale deve far convivere il paziente andare oltre, il passo in più, con il riprendere da capo.

 

Il Congresso Europeo

Un terzo riferimento storico-simbolico è il Congresso Europeo celebrato a Roma dal 5 al 10 maggio u.s. Si è trattato del secondo Congresso continentale sulla vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa. Si sono incontrati 253 delegati provenienti da 37 nazioni d’Europa e rappresentanti di tutte le categorie vocazionali (sacerdoti, consacrati/e, laici e vescovi), con la partecipazione di alcuni esponenti delle chiese sorelle (Protestanti, Ortodossi e Anglicani).

Due domande hanno attraversato questo avvenimento: È possibile oggi, in questa curva di storia, avere speranza in un futuro più promettente e più ricco dei doni dello Spirito?

Si è insomma interrogato la speranza, ed essa sembra presentarsi con due volti diversi: in Oriente, è necessaria per accompagnare il faticoso cammino di avvio di una vera pastorale organica al servizio delle vocazioni, in un contesto non facile di ritrovata libertà; in Occidente, la speranza è necessaria per affrontare e attraversare positivamente questa stagione che si qualifica come tempo di crisi.

E poi una seconda domanda: È possibile oggi pensare realisticamente, per la pastorale delle vocazioni, un salto di qualità? È possibile quel “sussulto profetico” capace di liberare le nostre Chiese, e in particolare i sacerdoti e i consacrati, dalla patologia della stanchezza e dalla rassegnazione?

 

 

 

QUALI PROSPETTIVE 

PER LE NOSTRE CHIESE PARTICOLARI 

CON IL LORO VESCOVO E IL LORO CDV?

 

Soprattutto a partire dal Concilio non c’è intervento magisteriale autorevole che non solleciti e forse non richiami la responsabilità personale del Vescovo nel delicato settore della pastorale vocazionale. È lui il primo responsabile delle vocazioni. Asserto vero, doveroso. Apparentemente tanto impegnativo quanto generico. Anche se là dove se ne parla, non si manca di fornire indicazioni precise, che vanno nella direzione della concretezza. Si usano parole che, se prese uti sonant, c’è veramente da rimboccarsi le maniche. Ma forse vale la pena di esplicitare tali parole, rivestendole di feconda operosità, come ad esempio: “La prima responsabilità della pastorale orientata alle vocazioni sacerdotali è del Vescovo” (PdV 41). Davvero tutto si dice o si indica, tranne che la delega. Altro è coinvolgere e altro demandare ad altri.

Certo sono diverse le motivazioni che possono chiamare in causa il Vescovo sul versante vocazionale. Che in sé non è un ambito della pastorale, e forse neppure un tema trasversale, bensì la prospettiva unificante di ogni pastorale. Non è questo infatti l’obiettivo nell’annunciare Gesù Cristo come il senso della vita e della storia? La pastorale non è forse il complesso di mediazioni umane per favorire l’incontro tra Cristo e le persone? E l’incontro con Cristo comporta il giocarsi la vita su di Lui. L’equazione a cui ci abitua il Vangelo è nota: il discepolo riconosce in Gesù il Cristo, e Gesù riconosce, anzi costituisce l’identità-missione del discepolo. Di qui la natura della fede come strutturalmente vocazionale. Essa non è un riferimento a dei valori, sia pure eticamente forte; bensì ad una persona che fa essere la vita secondo un preciso progetto. Pertanto ci possono essere – si diceva – diverse ragioni che chiamano in causa il Vescovo nella promozione e nell’animazione vocazionale di una Chiesa particolare. Alcune sono legate all’attuale congiuntura; sempre che il Vescovo, più di altri, debba abitare la storia, starvi dentro; soprattutto sulle curve ardue. Altre, fanno parte del suo ministero di comunione e di segno della presenza della Chiesa popolo di Dio sul territorio.

Credo di individuare sette punti, particolarmente coinvolgenti il ministero del Vescovo e dei suoi più stretti collaboratori come il Direttore del Centro Diocesano Vocazioni.

 

Entrate evangelicamente nella crisi

Anzitutto il Vescovo è chiamato a segnare il passo giusto nel buio della crisi. Sono in molti infatti a porre al Vescovo la domanda, come alla sentinella di isaiana memoria: Custos quid de nocte? (Sentinella quanto resta della notte? Is 21,11). La crisi. La notte. Le stagioni difficili. Molti si chiedono se siamo ancora in mezzo al guado o siamo già oltre. La risposta non può essere univoca. Dipende da Chiesa a Chiesa, da Nazione a Nazione. Forse la domanda non è del tutto esatta, o comunque è sostituibile con un’altra, più evangelica: “Come attraversare questa stagione, che impropriamente va sotto il nome di crisi?”. Ci sono infatti modalità diverse per affrontare le curve difficili della storia.

Si avverte in molti una sorta di colpevolizzazione: si vive male, pensando che la penuria vocazionale sia una sorta di punizione di Dio; un prezzo da pagare per scelte sbagliate o non fatte. In altri c’è l’attesa che la storia volti pagina: è implicita una visione hegeliana che genera passività, fatalismo di fronte al fiume della storia, in attesa che dopo l’acqua fangosa arrivi quella più limpida. In altri ancora emerge l’attesa un po’ risentita che la Chiesa riveda sue antiche opzioni che sarebbero decisive in ordine alla soluzione del problema.

Il Vescovo, sentinella della Chiesa, deve dare una risposta positiva, incoraggiando e testimoniando un atteggiamento di speranza evangelica, anche nel tunnel, sino al ritorno della luce. Perché anche la crisi ha un formidabile significato pedagogico per la Chiesa e per le vocazioni: soprattutto nella direzione di un radicalismo più parlante, di una sobrietà più credibile, affrancata dagli apparati che forse non dispiacciono a molti, ma sono privi di mordente kerigmatico; nella direzione di una passione più trasparente che non ceda alla cultura della Chiesa di Laodicea, richiamata da Gesù perché “né fredda né calda” (Ap 3,15); nella direzione di una Chiesa meno clericale, ma più comunionale e ministeriale, capace di coinvolgimento e di partecipazione laicale sul fronte comune della missione.

 

Animare la “vocazionalità diffusa” del popolo di Dio

In secondo luogo al Vescovo tocca animare la vocazionalità diffusa del popolo di Dio; a promuovere una cultura della vocazione. Venendo meno la quale, è difficile presumere stagioni nuove. La penuria delle vocazioni specifiche – le vocazioni al plurale – è soprattutto assenza di coscienza vocazionale della vita – la vocazione al singolare – ovvero una piena coscienza battesimale. Il problema del discernimento del dono specifico si pone là dove emerge chiara la consapevolezza che la vita è una consegna alla libertà dell’uomo, provocato a dare una risposta personalissima ed originale.

Il Vescovo è il primo educatore alla “domanda vocazionale”, che è poi domanda del senso della vita, affrancandola dalla cultura della distrazione che rischia di narcotizzare gli interrogativi seri nel macero delle parole. Forse è proprio questa la prima grande sfida pedagogica della pastorale giovanile. Anche la parola di Gesù Cristo sveglia la domanda fondamentale davanti a Lui: “Maestro buono, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?” (Mc 10). Che cosa devo fare per “essere”.

 

Pastorale vocazionale unitaria

La cura della vocazionalità diffusa fa del Vescovo e del suo CDV il garante della “pastorale unitaria”, attenta a tutti i doni dello Spirito. È l’attenzione pneumatologica del ministero episcopale. Se in rapporto a Cristo la vita è sequela, in rapporto allo Spirito è carisma, dono particolare (cfr. 1 Cor 12,4). Affermare la ministerialità carismatica della Chiesa particolare, significa credere che ogni vocazione, ogni dono è necessario e relativo insieme. Necessario perché la vocazione battesimale non è generica, ma si specifica in un progetto di vita; relativo, perché nessuna vocazione esaurisce il segno – testimoniale – del mistero di Cristo, ma ne esprime solo un aspetto. Soltanto l’“insieme dei doni” rende epifanico l’intero corpo di Cristo, il suo mistero.

Pertanto il Vescovo, Communionis minister, ha in definitiva il compito di promuovere tutte le vocazioni, garantendone l’unitarietà operativa; evitando penose schizofrenie all’interno della Chiesa particolare, là dove ogni categoria vocazionale è incline talora a coltivare se stessa, con la preoccupazione della propria sopravvivenza, più che a testimoniare l’accoglienza delle molte vocazioni dello Spirito.

 

Attenzione prioritaria al ministero ordinato

Tutto questo non esime il Vescovo e il CDV dal preoccuparsi di promuovere una pastorale specifica nella direzione del “ministero ordinato” e pertanto del seminario. Anzi l’impegno pastorale in tale senso non grava soltanto sul Vescovo, ma su tutta la Chiesa particolare. La quale deve pensare al proprio futuro e a ciò che la fa essere attraverso il ministero ordinato. Insomma se l’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia, il problema del seminario ha da diventare oggetto di attenzione pedagogica e di cura affettuosa da parte di tutti. E in particolare del Vescovo, il quale ha bisogno di un presbiterio per servire la Chiesa e per rendere visibili i segni del Regno sul territorio, primo fra tutti l’Eucaristia. Va da sé che ogni presbitero, a sua volta, celebrando l’Eucaristia fa essere la Chiesa ed è nativo educatore ed animatore di tutte le vocazioni. 

Pertanto, una coordinata azione pastorale a favore di tutte le vocazioni – dalla vita consacrata alla famiglia – ed un’intelligente convergenza sul seminario, possono essere garantite dal ministero di comunione del Vescovo.

 

La cura della mediazione educativa

La domanda che potrebbe porsi è la seguente: come può il Vescovo con il suo CDV diventare “concretamente” promotore di vocazioni? Qui forse si va nella direzione pastorale di alcune urgenze datate, per questo tempo e per questa Chiesa. Certo è difficile immaginare e auspicare una stagione nuova senza la cura puntuale e paziente della mediazione educativa. In primis del presbiterio. È finito il tempo in cui il clero dava di sé l’immagine di uno status sociologicamente significativo ed appetibile. È scontato che oggi chi si mette per questa strada ne coglie tutto il valore e la bellezza, ma insieme anche i problemi. È proprio questo che va “detto”, con la parola, ma soprattutto con la vita. Di qui l’importanza decisiva di un presbiterio fraterno attorno al proprio Vescovo, capace di rendere tangibile la bontà e la passione gioiosa di lavorare per il Regno. 

Non solo. È risaputa oggi la diffusa debolezza dei luoghi educativi: famiglia, scuola, gruppi, e persino comunità cristiana. Forse anche per questo emerge la domanda di riferimento a personalità spiritualmente forti, robuste. Capaci di ascolto, di dialogo, di proposte pedagogiche credibili. Soprattutto a livello di presbiterio. Ma non meno a livello di Religiose/i e fin anche di laici profondamente motivati, alla Lazzati o alla La Pira; capaci di discernimento e di essere mediazione per una visione cristiana della vita, attenta al progetto di Dio.

 

L’assoluto primato della vita spirituale

Tutto questo trascina con sé la coltivazione del primato assoluto della vita spirituale. Ciò chiede una particolare attenzione pastorale per evitare pericolosi sbilanciamenti nel ministero: verso uno sterile pragmatismo, che troppe volte è imparentato con il ritualismo o con trionfalismi di ritorno. Il primato della vita spirituale è rivelativo di una singolare parentela tra il ministero del Vescovo, del Presbitero, e lo Spirito Santo; il quale sospinge a fare unità nell’azione frenetica di una pastorale divenuta estremamente complessa. Anzi a fare unità nell’esistenza di ogni cristiano, il quale, al di là di ogni sentiero in cui si concretizza una scelta vocazionale, ha una meta da perseguire: la santità, che è il capolavoro dello Spirito, iconografo interiore di ogni battezzato.

 

Una cura a tutto campo

Ma insieme a questo impegno a favorire il primato dello Spirito, onde evitare sbilanciamenti pragmatistici, tocca alfine al Vescovo accompagnare un’azione pastorale complessa e a tutto campo, finalizzata vocazionalmente. È risaputo che in questi ultimi decenni non sono mancate le esperienze, la creatività soprattutto da parte degli addetti ai lavori, anche se sovente un po’ stanchi per la sproporzione tra la fatica profusa e i magri risultati. Forse anche per questo la pastorale vocazionale ha bisogno di fare un salto di qualità nelle nostre Chiese particolari. C’è una sorta di segreto elementare che fa parte della sapienza contadina. Per garantire un qualsiasi raccolto nella stagione giusta, bisogna curare proprio “tutto”. I passaggi dal terreno al seme, al prodotto, sono molti. Ma vanno tenuti sott’occhio con grande attenzione. Anche contro le imponderabili intemperie delle stagioni.

In campo vocazionale succede qualcosa di simile. Bisogna curare tutto: la comunità, la famiglia, la preghiera, l’attenzione alle singole persone (ragazzi e giovani in particolare), la cura dei cammini di fede, la qualità della proposta pedagogica, i gruppi specifici… insomma il salto di qualità è non poco esigente per superare la stagione delle sole “iniziative”, per arrivare al quadro globale di una comunità e di una Chiesa. In essa la sapienza di una proposta vocazionale si fa specifica in modo efficace, diventando mediazione delle stesse chiamate di Dio; lo sguardo del pastore, anzi dei pastori, si fa attento, personale, puntuale per interpretare la voce del Signore.