Invito all’incontro con un maestro della direzione spirituale: attualità della pedagogia di Francesco di Sales
Quando mi sono imbarcato nell’impresa di presentare la figura spirituale di Francesco di Sales sono stato preso da un’inquietudine. Quale aspetto presentare della sua esperienza spirituale? Il tema della santità accessibile ad ogni ceto sociale? Il suo modo di intendere la DS? L’educazione all’orazione oppure alle virtù umane? La sua interpretazione della mistica? La pedagogia dell’affettività? La modalità con cui interpreta la relazione interpersonale? Il rapporto tra la sua vita ed il suo magistero? Oppure limitarmi a presentare globalmente la sua spiritualità? Introdurre alle sue due opere più diffuse (la Filotea ed il Teotimo, quest’ultimo un vero trattato sull’arte di amare Dio)? Sarei appagato se questo mio contributo aiutasse a riscoprire questo amabile maestro, il quale ha molto da trasmettere proprio su quei problemi che… deliziano ed affliggono il nostro servizio pastorale: non ultimo il punto nevralgico e cruciale del rapporto tra formazione umana e spirituale, oppure, detto con linguaggio più vicino a noi, il rapporto tra psicologia e spiritualità.
“È il Vangelo parlante” – diceva di lui Vincenzo de’ Paoli. Le sue opere hanno “un sapore di verità, di realismo, di vita, tali da rendere la loro lettura una sorprendente riscoperta. Tocchiamo con mano la ‘genialità’ forse più caratteristica di Francesco di Sales, il suo carisma nella guida delle anime e di ciascun’anima secondo la situazione del momento”[1]. In particolare incoraggio alla lettura del Teotimo che secondo A. Ravier, uno dei massimi conoscitori del santo, condensa una mistica dell’azione apostolica. “… È un direttorio di vita interiore per cristiani impegnati a fondo nelle esigenze del loro battesimo, ma è anche un libro di conversione per i ‘pagani’ e i peccatori; è una guida per anime profondamente contemplative e un breviario per gli uomini d’azione; è un trattato teologico, se non un trattato di teologia, ma anche un catechismo della vita d’unione con Dio; è un diario dell’anima, una confidenza, ma anche un poema”[2].
Qui si pone per la verità un’altra questione ancor più interessante: quale familiarità è opportuna tra chi è incaricato dell’animazione e del discernimento vocazionale con le figure spirituali del passato? In particolare quali figure consigliare? A molti la Chiesa ha riconosciuto autorevolezza di magistero, di profezia: li ha indicati al popolo di Dio come riferimento. Quali di essi privilegiare? È mia impressione che per irresponsabile incuria siano stati trascurati, incautamente, scoperte straordinarie ed esemplari, carismi,lezioni definitive degli “spirituali”. Penso alle grandi pagine scritte da Teresa d’Avila, penso ad Ignazio, alle figure monastiche del deserto, allo stesso Agostino, a Bernardo, a Francesco d’Assisi, a Vincenzo de’ Paoli ed altri. Quasi fosse un interesse esclusivo per addetti ai lavori o un problema per devoti.
Certo non si vuol fare né dell’archeologismo né ambigue operazioni di… accanimento terapeutico, cercando di tener in vita ciò che non è più vivo in quest’epoca post-moderna…“L’attualità di un maestro e di un maestro spirituale – osservava don Moioli – non è mai misurata dalla sua funzionalizzazione troppo immediata e nuova al nostro presente. Anche un maestro vive in un tempo ed è segnato dal suo tempo. Ma ciò che lo fa maestro – anche per i tempi non suoi – è la profondità e la vitalità con cui nel tempo e nonostante il tempo egli raggiunge e presenta la realtà ed i valori, e così vi introduce. È questo che gli si può e gli si deve chiedere”[3]. Egli conferma che la formazione spirituale non può essere una tecnica o grossolana improvvisazione ma iniziazione ad una globale sapienza di vita.
Da parte mia cercherò di far parlare lui, grande comunicatore, sovrabbondante di immagini talvolta un po’ singolari, denso della dottrina spirituale del passato (ribadisce di non dire nulla che altri non abbiamo già detto), con una riflessione ricca di allusioni alla cultura filosofico-letteraria del tempo. Cercherò di evidenziare alcuni passaggi illuminanti della sua spiritualità ritenuti da me assai fruttuosi nel lavoro di guide e, prima ancora, nella nostra formazione permanente.
Ripartire dal Dio di Francesco: un Mistero d’Amore che attrae
“Ascolta Israele le leggi ed i comandi e bada a metterli in pratica: perché tu sia felice…” (Dt 6, 4). Dio ha a cuore la gioia dell’uomo. In principio alla pedagogia del Vescovo di Ginevra sta la scoperta continua di un Dio che prima crea, e promette, poi esige. Occorre capire ciò che l’Amore ha già fatto per noi e, dunque, ciò che pretende da noi. Vuol condurre a scoprire che il Bene della nostra vita vale più di tutte le creature e più della vita stessa, come il mondo è più dell’insieme delle cose. Esiste una gioia secondo Dio di cui ci si può fidare: la beatitudine.
Il cammino che il Vescovo di Ginevra apre è una pedagogia alla bellezza della Grazia, oltre la seduzione e l’illusione delle felicità promesse dalla religione. Non la felicità, costruita da mani d’uomo, secondo le pretese della propria affettività ma la solidità della Grazia. “Ti basta la mia Grazia” (2 Cor 12,9). Per questo, dovendo tra l’altro anche fronteggiare la competenza nella Bibbia dei protestanti, mette a frutto la sua profonda cultura biblica: è un pastore che ha il pensiero ed il cuore pieni della Parola di Dio.
Già nella sua crisi mistica al collegio di Clèrmont a Parigi prega e geme esprimendosi con i versetti dei salmi, ma rimane soprattutto affascinato dal Cantico dei Cantici: lo ricorda nel Teotimo (cfr. le lezioni straordinarie del benedettino Génébrard, insegnante di ebraico). Rimane il testo preferito e la sorgente principale dei suoi scritti, nonché la colonna sonora fissa della sua attività apostolica e della sua esperienza spirituale personale[4]. La Parola è accostata alla scuola di valenti maestri, sui testi originali, secondo un metodo di tutto rispetto per il suo tempo. (Utilizza la Vulgata, correggendola talvolta su testi originali). “Se il predicatore e lo scrittore vuol essere il Vangelo parlante, occorre che lui stesso, anzitutto, sia Vangelo vivente”. Volendo radicare l’amore di Dio nell’esperienza dell’amore umano, Francesco riparte dalla manifestazione affascinante, bruciante dell’Amore di Dio come è rivelato nella Bibbia (1200 citazioni nel Teotimo!). Comunque al di là della quantità dei rimandi, ritiene che non esista linguaggio più efficace di quello fornito dalla Parola di Dio. Sa usare senza complessi anche le immagini più ardite, come la simbolica del bacio, sino a rifiutarsi di censurare quei capitoli che secondo la sensibilità del tempo potevano sembrare troppo osé. I termini chiave sono interpretazioni misurate sulla teologia dell’Alleanza. (Esempio: il cuore del cuore, per dire la profondità guarita del discepolo, ove l’Amore vive, è illustrato con l’immagine del Tempio, del “Santo dei Santi”).
“Se l’uomo pensa con un po’ di attenzione alla divinità, immediatamente sente una qual dolce emozione al cuore, il che prova che Dio è il Dio del cuore umano” (I, 15). Per questo in noi c’è un desiderio senza limiti insieme ad una ricerca che mai può essere soddisfatta. “C’è un sommo bene dal quale dipendo e un artefice infinito che ha impresso in me questo desiderio senza limiti di sapere e questo appetito che non può essere soddisfatto: ecco perché bisogna che io tenda e mi lanci verso di lui, per unirmi e congiungermi alla sua bontà, alla quale appartengo e della quale sono. Tale è la convenienza che abbiamo con Dio” (ivi). Sarebbe interessante un raffronto con il tema ignaziano del Principio e fondamento, come pure il tema della Contemplazione per raggiungere l’Amore negli Esercizi Spirituali. Dio e l’uomo dunque si appartengono!
Secondo A. Raviers[5], Francesco è preoccupato di superare l’ambiguità della parola amore, ed ha cura di usarla con un certo rigore; preferisce perciò il termine appartenenza, con il quale esprime, alla luce delle Scritture, l’amore di Dio, interpretandolo, in sintonia con Geremia, nel senso della unilateralità dell’alleanza. Talvolta lo chiama anche adesione o convenienza, secondo l’uso del termine latino: non quindi nel senso di opportunità ma di attaccamento radicale, totale ed esclusivo all’essere amato, che perciò è buono in quanto sorgente di tutto ciò che esiste di positivo. Dio è la pienezza dell’essere, della verità. Egli si effonde in tutte le creature, fatte per manifestare, svelare la sua bontà, costitutiva di tutta la creazione, che di Lui è irraggiamento (cfr. tutto il cap. 4 del II libro). È un amore che dal profondo del cuore continuamente chiama ad amare, per un segreto bisogno, quasi per un’inclinazione naturale. Anche nell’uomo più corrotto succede ciò che capita alla pernice… la quale, uscita da un uovo rapito, ritrova per istinto la vera madre, abbandonando la madre falsa ed ingannatrice che ha covato l’uovo non suo (I, 16).
Non dimentichiamo che l’autore non solo ha profondamente amato il Cantico dei Cantici ma anche il grande tema dell’essere creati in Cristo, l’affascinante visione dei cantici di Ef e Col, la contemplazione di una creazione già “firmata” dal Verbo. “Di fatto, secondo Francesco di Sales, che segue in questo l’opinione di S. Bonaventura, Dio ha preparato l’uomo per unirsi alla natura umana nel mistero dell’Incarnazione; e questa unione d’amore si sarebbe realizzata anche se l’uomo non avesse peccato”[6].
Occorre ripartire da questa rivelazione biblica, non psicologica, dell’amore. Solo una crescente e forte esperienza dell’Amore sostiene una robusta progettualità vocazionale. Oggi purtroppo è diventato più debole Colui che chiama, poco incisiva la proposta dell’esperienza del Mistero ed invece troppo forte ed esasperata la progettualità. Allora non nasce l’abbandono, il coraggio di credere e di confessare: “So in chi ho posto la mia speranza”! Questo Volto di Dio, in Gesù, rimette in ordine le esperienze affettive, senza umiliare l’affettività; gerarchizza le esperienze, integrando persino il timore servile e mercenario (cfr. le tre categorie classiche dell’essere il servo che teme, il mercante che fa per interesse, il figlio per amore). Il figlio ubbidisce perché è figlio, integrando, nell’amore, il timore servile del castigo, il timore mercenario del perdere i vantaggi. (XI, 18).
Nel nostro lavoro avvertiamo la duplice urgenza di Francesco: radicare la nostra pedagogia nella concretezza dell’esperienza umana e presentare il Vangelo in una luce “attraente”, capace di dar gusto, sapienza e bellezza ad ogni esperienza. La fatica pedagogica in noi, come in lui, deve diventare anche preoccupazione di un linguaggio che sia creativo, limpido, concreto, accattivante.
La libertà dell’uomo: la dinamica dell’amore e dell’appartenenza
Come l’uomo può seguire Dio? Sembra che l’interrogativo ispiratore del Teotimo sia: – Come la libertà dell’uomo si trova convertita in amore e l’amore in libertà? A questo proposito nell’opera più matura del Santo viene tracciato un progetto di uomo spirituale che, alimentandosi alla kenosi del Signore Gesù, diventa un’esistenza espropriata. Con tutta la sua corporeità, con tutto il cuore l’uomo come desiderio è in tensione verso l’altro; trova la sua consistenza, come il Figlio, esistendo ex-staticamente nella volontà del Padre.
“Profondamente debitore, per quanto concerne la visione antropologica, di S. Agostino e del suo insegnamento psicologico, il Vescovo di Ginevra ha una concezione essenzialmente ‘estatica’ – proprio nel senso etimologico – della natura umana: l’uomo, creatura infinita ed anelante ad una perfezione infinita, è costitutivamente ‘desiderio’, tensione profonda ad uscire da sé, a proiettarsi sull’altro: a s’extasier”[7]. Stupendo è il n. 17 del libro X.
Anche secondo Moioli ci troveremmo nel Trattato di fronte a un disegno che profila l’uomo spirituale. L’uomo è concepito come “… amore, cioè come libertà che cammina in autenticità e ‘purezza’ (cioè in gratuità), perché si lascia plasmare – come dal proprio riferimento assoluto – dall’amore di Dio. Il Crocifisso, in definitiva, rivela l’amore di Dio, ma anche il cammino autentico dell’uomo verso Dio: quello che cerca la sua volontà e ad essa si abbandona. È questa l’estasi suprema dell’amore: quella che fa uscire definitivamente l’uomo dalla ricerca egoistica di se stesso. Ed è questo che si comprende sul Monte Calvario, il monte degli amanti”.[8] (Teotimo X, 17; XII, 13).
È necessario meditare a questo punto tutto l’indimenticabile capitolo conclusivo del Teotimo, che ha come sottotitolo Il monte Calvario è la vera accademia dell’amore (XII, 13). Nell’Amore Crocifisso si apprende l’Amore. L’amore è perciò anche esperienza in assoluto la più drammatica, poiché è un’esperienza di eccesso e di pazzia: amare è morire! “Ogni amore che non trae la sua origine dalla Passione del Salvatore è frivolo e pericoloso” (ivi).
Certo l’amore è il movimento del cuore verso il Bene, attratto da una compiacenza, intesa come il “godere della progressiva unione delicata, intellettuale, cordiale con il Signore” (I, 10). Ma amare è l’estasi di chi può dire per espropriazione. “Non son più io la mia vita: Lui vive in me”. Dunque il cammino proposto non è fatto per mistici dilettanti o per sentimentali che vivono di emozioni a buon mercato. È una concezione forte e concreta dell’amore: amare è morire per l’Amato, nel quotidiano, nell’estasi della volontà. Amare, (il Trattato dell’Amore è stato pensato dall’autore come biografia di S. Carità) è morire per gli altri. La nostra libertà trova qui la sua pienezza e solamente così si ritrova. Pur parlando molto di amore, Francesco non lo fa con un’ingenuità che ignori la potenza devastatrice delle passioni. Ironizza sugli stoici (i calvinisti del tempo hanno tracce di volontarismo nei loro itinerari spirituali) che si illudono di liberarsi da soli, con le proprie forze dai vizi; conosce la potenza delle concupiscenze. Esse sono in noi “sudditi ribelli, turbolenti, in continuo ammutinamento”: il cuore dell’uomo è luogo di permanente ribellione (I, 3).
La fede, se si alimenta di una compiacenza del nostro cuore che nella esperienza spirituale trova “gusto” e soddisfazione, non può essere confusa con una ricerca di piacere e di gratificazione né misurarsi sulla resa di vibrazione della sensibilità. “Non voglio tanto il godimento della mia fede, della mia speranza, della mia carità; quanto piuttosto di poter dire secondo verità, anche in assenza di gusto e di sensibilità, che io saprei morire piuttosto che abbandonare la mia fede, la mia speranza e la mia carità… Quello di accontentarsi di atti nudi, secchi ed insensibili, esercitati a motivo della volontà superiore, costituisce il più alto grado della santa rassegnazione”, intesa come resa amorosa a ciò che piace a Dio[9]. Quindi l’amore verso Dio è affettivo ed effettivo, non necessariamente né sentito né sensibile: il criterio è la sintonia con Dio. “Tu hai posto la legge della volontà di Dio al centro del tuo cuore, perché vi regnasse e dominasse eternamente: chi farà alla mia anima la grazia di non avere altra volontà che la volontà di Dio”? (Cfr. la preghiera finale di VIII, 7).
Molti dei giovani che incontriamo nel nostro servizio hanno bisogno di questa pedagogia forte e concreta: hanno un rapporto immaginario con la realtà. Raccontano i propri desideri ed i propri sogni come fossero maturazioni acquisite, cioè delle appropriazioni tranquille. Il cammino della libertà indicato sopra snida le illusioni e accompagna la progettazione che lavora per superarle.
Anzitutto la cura di sé come accettazione di sé
Avere cura di sé significa anzitutto apprezzare ciò che si è accettandosi.
“Non seminate i vostri desideri nel giardino altrui, limitatevi a coltivare bene il vostro. Non desiderate di essere diversa da quella che siete, ma desiderate di essere al meglio ciò che siete… A che serve costruire castelli in Spagna, se dobbiamo abitare in Francia?”[10].
L’amare Dio come un attaccarsi a Lui, gioiosamente contemplato come Provvidenza, si vive nella accettazione di sé, assumendo in prima persona quegli avvenimenti dai quali siamo “segnati”: condizione sociale, risorse personali, limiti, carattere ecc. Nel suo accompagnamento la guida sa che ogni discepolo rischia di aspirare a diventare perfetto secondo la propria idea, le proprie forze o le proprie immaginazioni, finendo così per volere le cose senza Dio o a dispetto di Dio. Occorre invece amare ciò che Dio ama per noi. Occorre diventare ciò che siamo, camminando decisamente su quella via sulla quale la Provvidenza ha posto e pone ciascuno. “La vostra immaginazione vi aveva suggerito l’idea d’una perfezione assoluta alla quale la vostra volontà voleva arrivare; ma spaventata dalla grande difficoltà, o meglio, dalla grande possibilità di raggiungerla, si sentiva come colei che è prossima al parto ma non può partorire”[11].
L’aver cura di sé, in profondità e nella realtà, secondo la sapienza dell’Alleanza, genera un continuo superamento in Dio. La creatura crede possibile il sogno di Dio su di sé. Il desiderio dell’uomo è esaudito non quando pretende di compiersi a partire dalle fantasie su di sé, ma quando si consegna a quel Dio che opera anche nell’esistenza debole e piena di difetti. Colui che è somma bontà e tenerezza dà alla fragilità della creatura la possibilità di accedere alle dimensioni del sogno di Dio, consente ad ognuno di superarsi in Lui, fonte della libertà.
Nell’uomo l’accettazione di sé non va intesa come resa ai propri limiti, rassegnazione che smarrisce la propria identità e realtà, oppure, nel quotidiano, come un appiattirsi su ciò che accade, esonerandosi da quanto la vita domanda. Da sempre Dio è vicino all’uomo. Da sempre Dio è creatore dell’uomo, ha fiducia in lui e ne conosce le possibilità. Perciò Dio fa ripartire la libertà, senza bloccarla né intrappolarla in se stessa: così ciascuno può assumersi la responsabilità del cambiamento, amando ciò che Dio ama per lui.
Ancora sull’indifferenza
“Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno… sono messo alle strette tra queste due cose…” (Fil 1,23-24).
La maturità di un cammino è svelata da quanto di fatto uno aderisca a “ciò che piace a Dio”, le bon plaisir de Dieu, estrema aspirazione del cuore. Chi ama Dio vive della libertà di Abramo, sino ad assumere fino in fondo i desideri “impossibili” ispirati da Lui, perseverando nel seminare senza attaccarsi ai risultati, pronto ai suoi cenni, persino nell’abbandonare quei disegni che Lui stesso ha ispirato, libero dalla ricerca di sé, amando Dio solo perché Dio. (IX, 5, 6, 9). Suggestiva al riguardo è la metafora del suonatore di liuto (tutto il paragrafo 9 del libro IX).
“Noi non sappiamo che cosa sia amare Dio. L’amore non consiste nei grandi gusti e nei grandi sentimenti, ma nella massima e ferma risoluzione e nel desiderare di contentare Dio in tutto, nel cercare, per quanto possibile, di non offenderlo in nulla e nel pregare perché la gloria del Figlio vada sempre aumentando. Queste cose sono segni di amore”[12].
L’indifferenza non va intesa come una sorta di atonia o mancanza di passione per la vita. “Non amo assolutamente quelli che non amano nulla e restano indifferenti di fronte a tutti gli avvenimenti; ma lo fanno per mancanza di vigore e di cuore o per disprezzo del bene e del male… In sostanza bisogna dire… Non voglio questo o quest’altro: voglio solo l’amore di Dio, il desiderio di Lui e la comunione con la sua volontà”[13].
Evidentemente importa ricordare che Colui al quale ci si consegna è il Dio estatico, proteso verso di noi, consegnato per amore. All’amore, che insieme è bontà e bellezza, non si nega nulla. “Se sapessimo comprendere, quanto non ci sentiremmo obbligati verso quel sommo bene, che non solo ci permette ma ci chiede di amarlo. O Mio Dio, non so se debba amare di più la tua infinita bellezza… o la tua divina bontà… O bellezza, quanto sei amabile, perché concessami da una così immensa bontà! O bontà, quanto sei amabile nel comunicarmi una così eminente bellezza!” (X, 1). Si va dall’amore di compiacenza (con il quale godiamo della sua bontà), all’amore di benevolenza (che consiste nel volere esclusivamente il bene di chi si ama).
Per questo, in 4 gradini, Francesco traccia anche una fenomenologia della libertà del discepolo che, insoddisfatto di ogni altro bene che non sia Dio, sviluppa il dono ricevuto, progressivamente purificandosi nell’amore e crescendo in esso (X, 4-5). Il principiante deve arrivare alla scoperta, nell’estasi della volontà, che “quand’anche Dio non avesse Paradiso da dare, non sarebbe né meno amato né meno amabile” (X, 5).
Anche nel nostro lavoro è assai importante una fenomenologia dell’interlocutore: non per classificare ma per arricchire gli strumenti interpretativi oltre gli schemi mortificanti. Non auspichiamo una riedizione di “scale” (pur di grande interesse, come l’interpretazione di Giovanni Climaco) ma dei criteri per valutare la verità dei cammini e le loro dinamiche, senza la pretesa di misurare la libertà dello Spirito. Sarebbero utili per apprezzare i cambiamenti delle stagioni della vita spirituale, per coglierne i trapassi, per collaborare con le operazioni dello Spirito, che segue leggi costanti. Urge raccogliere la messe abbondante di dati e di indicazioni che giacciono inutilizzati nella diverse tradizioni spirituali.
Ripartire dal cuore, cioè dall’interiorità
Il cuore è il logo, il tema forse più centrale di tutta la spiritualità salesiana. Si è immagine e somiglianza di Dio quando si è nel suo cuore, che è Amore e Bontà. “Il cuore umano è certamente il vero cantore dell’amore sacro ed è esso stesso arpa e salterio. Però questo cantore ascolta generalmente se stesso…” (IX, 9-10). “L’uomo vale tanto quanto il suo cuore” (IX, 250): perché il nostro cuore è innestato nel cuore del Figlio. Perciò l’esperienza spirituale è qualificata dalla conversione reale del cuore, dall’appartenenza del cuore al cuore di Dio, “poiché nel cuore più che nella testa avviene la conversione… Fate che il Salvatore sia il cuore del vostro cuore… Le notti sono giorni quando Dio è nel nostro cuore, i giorni sono notti quando Egli non è presente”[14]. Esso è lo spazio dove si svolge il gioco d’amore tra Dio e l’uomo. È il luogo dove Dio e l’uomo si incontrano, ove emergono la sorgente e la dimora dell’Amore, ove le grandi scelte della vita si coniugano e si accordano con le azioni di ogni giorno (Teotimo II, 12-13; VII, 7; 1,15). Perciò ogni formazione inizia sempre dall’interno (cfr. Filotea III, 23).
Occorre essere molto attenti a non equivocare! Non si parla dell’interiorità come introspezione, come ripiegamento narcisistico sul proprio nulla, pretendendo che nel profondo non rinnovato dimori la verità. Esiste una retorica del viaggio interiore o del rientrare in sé che finisce per diventare un perdersi nel vuoto… È sterile un raccoglimento che non dia spazio alla Parola nella propria dimora. Dice il Santo: “A che cosa sono buoni quei cuori mezzo morti?” (intende i cuori non convertiti). Anche l’azione apostolica, oggi diremmo la relazione pastorale, è un “fare del cuore”. Anche la predicazione è un “parlare al cuore”, guadagnandosi la gente; per questo egli può dire con gioia: “il cuore del mio popolo è quasi tutto mio”. Ovviamente il vescovo ricorda al suo discepolo come debba essere trasfigurato il cuore di chi ha incontrato Dio ed è “segnato nel cuore dall’impronta del Crocifisso”: magnanimo, libero, non possessivo, umile, dolce, coraggioso, tranquillo nelle avversità, vigoroso …[15].
In questo quadro va collocato il tema dell’amicizia. Il Vescovo di Ginevra ha la passione per l’amicizia e la sua corrispondenza rigurgita di espressioni affettive non attribuibili al solo stile epistolare del tempo. Egli enumera le qualità dell’amicizia, ne illustra la reciprocità come legge fondamentale (I, 9), ricorda quanto essa debba essere purificata, perché l’amicizia vera è ispirata da Dio e si accoglie ricevendola dalla sua mano, vivendola con prudenza, “avendo le radici sul monte Calvario”.
Un itinerario degli affetti: affettività e volontà
L’uomo soffre di una ferita di amore (VI, 13, 14, 15). Francesco illustra le differenti modalità con le quali nell’esperienza la ferita si presenta. Quando ci si innamora, dentro ci si divide da sé per darsi alla persona amata. Il desiderio stesso punge e ferisce. Dio stesso infligge “nostalgie”, spingendo l’anima ad amare e nello stesso tempo sfuggendo come lo Sposo del Cantico. La grande sofferenza allora è non avere sufficiente forza per amare Colui che con dolcissimi legami continua ad attrarre a sé (II, 12). “Questo cuore innamorato del suo Dio, desiderando infinitamente amare, si accorge che, nonostante tutto, non riesce ad amare e nemmeno a desiderare abbastanza” (VI, 13). (Ritroviamo questo tema della necessità impossibile, cioè l’inevitabilità e l’impossibilità di amare in Teresa di Lisieux). Ne nasce un tormento indicibile. All’anima non rimane che accettare la divina pedagogia che l’aiuta a passare dal desiderio all’estasi, nel senso detto sopra, anche grazie ad una volontà plasmata dall’Amore.
“Il divino amore impiega tutte le passioni e gli affetti dell’anima e li riduce alla propria obbedienza” (XI, 20). Questo amore è “come il re”, che domina e doma ogni altra affettività ed istintività. La volontà si libera dagli affetti disgreganti o contrastandoli con affetti. più forti o opponendo passioni contrarie. Per Francesco nell’uomo la volontà è la categoria sintetica. Nell’uomo “Dio ha stabilito una dipendenza naturale che fa capo alla volontà, la quale comanda e domina su tutto quello che si trova in quel piccolo mondo (varietà di azioni, sentimenti, inclinazioni, abitudini, passioni…)” (I, 1). Anche l’intelligenza si applica a quelle cose alle quali è indotta (C’è il tema pascaliano dell’uomo libero, l’uomo d’azione che decide). Ma una volta che la volontà ha scelto un amore, dopo averne abbracciato uno, vi rimane sottomessa, fin quando quest’amore muore. Solamente a questo punto può amare altro e… sottomettersi a questo nuovo amore. (I, 4).
Il Vescovo di Ginevra ha una visione positiva della volontà: “è fatta talmente per il bene che, appena lo scorge grazie all’intelletto che glielo rappresenta, si volge dalla sua parte per compiacersi in lui”. (Rileggere il suggestivo cap. 7 del I libro!). Per poter vivere continuamente una volontà che sceglie il bene, occorre provare una vera compiacenza in esso, con un atto teologale, che fa scoprire in Dio la Bontà e la Bellezza. Così, a forza di compiacersi in Dio, si diventa conformi a Dio, trasformati in quel Dio che amiamo (VIII, 1). Camminare nello Spirito è un assaporare Dio come bene nell’anima, è un’esperienza di gratificazione (V,1). Dio con tutte le sue qualità diviene nostro per assimilazione. C’è persino una dolcezza che viene dalla contemplazione dell’Amato nel dolore (V, 5). Comunque la volontà è sempre dono, che si riceve (IV, 6). Anche l’itinerario della sua crescita della volontà, che in concreto consiste nel rivivere l’obbedienza di Cristo, l’“estasi cristiana”, avviene per dono della Grazia. Solo così il discepolo può accogliere e partecipare al folle amore di Dio, alla sua folle libertà. Ciascuno esiste perché la vita e la sapienza di Cristo si effondono nel sentire ed nell’agire del cristiano[16]. La Grazia rende ciascuno capace di vivere al di sopra di se stesso, nei consigli evangelici, in ogni forma di radicalismo evangelico. Il Padre attrae sempre! (VII, 6).
Note
[1] FRANCESCO DI SALES, Lettere di amicizia spirituale, introduzione di A. RAVIER, EP, 1984, p. 9.
[2] A. RAVIER, Francesco di Sales, Un dotto e un santo, Jaca Book, 1987, p. 182
[3] G. MOIOLI, Elena da Persico, Una donna, una spiritualità, pro manuscripto, pp. 145-146.
[4] Per queste osservazioni, vedi A. RAVIER, S. Francois de Sales et la bible, in “Le grand siècle et la Bible, a cura di JP. Armogathe, Beauchesne 1989, pp. 617 – 627.
[5] A. RAVIER, Initiation à la lecture du Traité de l’Amour de Dieu, de Francois de Sales, Labat, 1986, pp. 14-23.
[6] Ivi, pag. 19.
[7] P.L. BORACCO, S. Francesco di Sales, La rivista del clero italiano, 1987, p. 827.
[8] AA.VV. La Storia di Gesù, Rizzoli, Milano, 1985, n. 88, p. 2130.
[9] Cfr. FRANCESCO DI SALES, Lettere di amicizia spirituale, a cura di A. RAVIER, EP 1984, p. 956.
[10] Oeuvres, edizione critica di Annecy, Lettres, XIII, 291.
[11] Ivi, Lettres XIII, 282.
[12] FRANCESCO DI SALES, Lettere di amicizia spirituale, EP 1984, p. 874.
[13] Ivi, p. 917.
[14] Ivi, La voce Cuore, curata da A. RAVIER, pp. 897-899.
[15] Per tutto questo tema vedi “Sui sentieri della Visitazione”, cioè la ricerca della volontà di Dio nelle relazioni di ogni giorno, pellegrinaggio ISMI 1996 ad Annecy, Ancora 1996.
[16] P.L. BORACCO, art. cit., p. 831.