N.02
Marzo/Aprile 1997

Ho capito in quel momento il cuore del Buon Pastore…

Sin da piccolo ho vissuto in una parrocchia animata dai Missionari Redentoristi. Ricordo che attendevo con gioia il fine settimana perché avevo la possibilità insieme ad altri amici di poter giocare nelle sale parrocchiali in un clima sereno ma competitivo. Con l’avvicinarsi dell’età adolescenziale mi sono allontanato da questa realtà per vari fattori, il primo dei quali fu il sisma del 1980: per molti mesi la mia famiglia è stata costretta a vivere lontano da casa. E intanto gli anni che passavano, con le loro scoperte e i nuovi interessi, mi allontanavano dalla vita parrocchiale.

 

Un giorno, aspettando il bus…

Avevo iniziato da due anni le scuole superiori quando una mattina alla fermata dell’autobus incontrai la mia catechista. Avevo persino vergogna di salutarla, mi sentivo un po’ traditore, ero andato via per dei motivi che non erano dipesi solo da me, ma quando tutto era ritornato alla normalità, ogni qualvolta il mio parroco e i suoi collaboratori mi avevano rivolto l’invito a tornare avevo sempre fatto orecchie da mercante. Quel giorno la mia catechista si avvicinò, mi salutò con affetto tale da far aumentare e non diminuire il mio disagio, così che quei minuti di attesa mi sembrarono eterni. Finalmente arrivò l’autobus, ma prima di salire la mia “amata” catechista mi strappò una promessa. Sapendo che me la cavavo a costruire casette in cartoncino e roba simile, mi invitò ad aiutare altri ragazzi nell’allestire il presepe parrocchiale.

Non sapevo se rispondere a quella promessa fatta, per tutta la settimana mi arrovellai rimproverandomi per quel sì. Tra l’altro il giorno dell’appuntamento dovevo arbitrare, in quanto da più di un anno avevo seguito il corso arbitrale della federazione gioco calcio. Dopo tutto quel dibattito interiore andai ad arbitrare, ma anche se in forte ritardo mi presentai a quell’invito così cordiale. Notai subito che tante cose erano cambiate: dalla disposizione delle sale ai tanti volti nuovi. Ma soprattutto la cosa che mi colpì era la presenza del parroco con il suo vice che in tanti anni precedenti ero stato abituato a vedere da lontano e con un po’ di timore. Quella figura mi incuriosiva, e pur tuttavia non riuscivo ad avvicinarmi. I primi mesi di inserimento furono un po’ difficili, non perché il gruppo parrocchiale o i vari educatori non mi accettassero, anzi si respirava aria di famiglia, ma perché ero diviso da due cose che mi piaceva fare, da una parte stare con gli amici di sempre sul muretto tutta la giornata e poi di sera uscire con il motorino e dall’altra stare con questi nuovi amici, anzi come in seguito ci insegnò il nostro parroco “compagni di viaggio”; così dinamici e vivi, pronti a tutto nel nome di Cristo. A seguito della riorganizzazione parrocchiale l’anno successivo mi ritrovai con dei nuovi catechisti: erano una coppia molto giovane sposata da un paio di anni, due persone al di fuori del comune, però ero arrabbiato con il mio parroco, perché vedevo questa scelta fatta con arbitrio senza interpellare la base. Solo ora riesco a capire che questa scelta era stata fatta solo per la nostra crescita. Il mio nuovo educatore era stato in seminario, anzi aveva fatto anche il noviziato, però prima della professione temporanea era tornato a casa. E questo mi “ispirava” a dire sia a lui che al mio parroco quanto fosse assurda la scelta del sacerdozio.

 

Se il Signore ti mette al tappeto

Nel frattempo la fiducia verso il mio parroco aumentava sempre di più, anche se molte volte si arrabbiava subito dopo ritornava come prima, anzi più disponibile di prima. Nel tempo ho iniziato a far conoscenza anche degli altri Padri e Fratelli che vivevano in comunità, incuriosendomi gradualmente per la vita che condividevano. Ricordo con gioia i momenti vissuti con la comunità Redentorista di Pagani; ogni giorno per me era una festa perché sia il mio parroco che gli altri suoi confratelli erano pronti ad ascoltare e a guidare me o gli altri ragazzi della parrocchia.

Tutto quello che possedevano è sempre stato a nostra disposizione. Ho ancora davanti agli occhi la scena di quando sono entrato per la prima volta nella biblioteca di comunità: quando in seguito ho letto il bestseller di Umberto Eco “Il nome della Rosa” ho capito la gioia che Guglielmo di Baskerville provò entrando nella torre dei libri, forse Eco stava descrivendo la mia gioia. Non mi sembrava vera tutta l’accoglienza che ricevevo da quei missionari.

Qualcosa in me lentamente stava cambiando, anche se non riuscivo a capire cosa. Stranamente desideravo che nessuno entrasse in questo mio momento difficile. In quei giorni in parrocchia si preparavano le iniziative per la settimana vocazionale e il mio parroco mi invitò a prendervi parte. A fine anno – forse riconoscendo in me un germe di vocazione che io stesso stentavo a riconoscere (o che forse non volevo accettare) – mi chiese se ero interessato a partecipare al camposcuola di orientamento vocazionale che a giugno si sarebbe tenuto nella casa formativa dei Redentoristi. Prima di dare una risposta ci pensai un paio di giorni e la mia conclusione fu più o meno questa: “ci vado, così mi riposo, mi diverto ma soprattutto faccio due-tre giorni di igiene mentale, vale a dire di riposo”. Mi spinse a partecipare anche un incontro di preghiera della settimana vocazionale animato dal mio parroco e mi colpì la frase del vangelo di Giovanni 4,14: “…chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò, diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. Forse disperatamente stavo cercando da mesi questa acqua, ma la cosa che mi sconvolgeva era che già la conoscevo, e pur tuttavia non l’avevo mai presa in vera considerazione. Aveva ragione il mio parroco a dire che ero cieco e che non riuscivo a vedere al di là del mio naso. La vita in comune mi affascinava, il mio parroco sempre pronto all’ascolto, sempre accogliente verso tutti noi, la continua aria di preghiera che si respirava… Oggi posso dire che tutti questi elementi mi avevano messo al tappeto.

Se fino ad allora dicevo che il sacerdozio era assurdo, da quel momento non ho osato più neanche pensarlo. Dopo poco tempo la ragazza con cui stavo, il mio parroco e i miei educatori si accorsero che qualcosa in me stava cambiando. Fino ad allora cercavo disperatamente il volto di Cristo, da un po’ di tempo ormai ero consapevole di stare sulla buona strada per incontrarlo.

Una sera a letto aprendo il vangelo mi capitò per caso il passo di Giovanni 10,1-21, il brano del Buon Pastore. Ho capito in quel momento che il mio parroco in modo particolare, la comunità Redentorista e i miei catechisti erano sempre usciti per cercare la pecorella perduta anche a costo di lasciare le altre novantanove da sole, ed io li ringrazio per questo insegnamento.

Man mano in me è aumentato il desiderio di amare Cristo non in una sola persona, ma in tutti quelli che incontravo. Si stava delineando in me un desiderio sempre più forte che per alcuni versi avrei voluto soffocare. Quello che non riuscivo ad accettare in principio era come la testimonianza coraggiosa della propria fede potesse cambiare il modo di vivere degli altri. Ringrazio il mio parroco per questa sua testimonianza di vita che mi ha dato perché ha trasformato la mia vita facendomi amare e mettere Gesù Cristo come inizio e fine di ogni mia scelta. Non sono mancate le difficoltà quando ho comunicato ai miei genitori la scelta che volevo intraprendere,però il discernimento, il dialogo, la preghiera costante e la presenza silenziosa di tante persone mi è stata di supporto notevole.

 

A pensarci adesso…

Se dovessi guardare ora a quel che mi è capitato negli anni della mia “scelta di vita”, dovrei riconoscere nella figura del mio parroco un punto di riferimento sicuro per il mio cammino vocazionale. La sua concezione della parrocchia come “comunità di vocazioni”, in cui ognuno ha un suo ruolo da svolgere e soprattutto un cammino di fede da compiere per vivere questo ruolo come vocazione, la ritengo decisiva, non solo per dare vita ad una parrocchia organizzata, ma – appunto – per favorire quei germi di vocazione che il Signore semina a piene mani nella Chiesa e che in parrocchie così concepite trovano terreno fertile. Ne è prova che dopo di me sono seguite altre vocazioni, e altri giovani sono attualmente in ricerca.

Naturalmente accanto a questa concezione di fondo devo riconoscere l’importanza di un aiuto specifico, la presenza costante e nello stesso tempo discreta del parroco, una parola detta al momento giusto, come anche l’aiuto ad una verifica personale e al discernimento; come anche la gradualità degli impegni, dati al momento giusto, come “scatti di qualità” che mi hanno permesso di arrivare fino ad un chiarimento con me stesso e con Dio. Devo riconoscere la presenza del tema della vocazione in tutti gli itinerari proposti (di catechesi, di carità, di liturgia, ecc.). Né posso tacere l’importanza decisiva della preghiera, proposti alla comunità parrocchiale per le vocazioni, e ad ogni singolo per scoprire la propria vocazione. Così, sempre nel mio caso, devo dire che è stato fondamentale scoprire, alle spalle del mio parroco, la presenza di una comunità religiosa che in vari modi con lui collaborava, ma che soprattutto mi faceva scoprire un modo diverso di vivere, nella fraternità, ma anche nella serena accettazione delle proprie debolezze.

Ora mi manca poco più di un anno per la conclusione dei miei studi. La figura del Buon Pastore, interiorizzata nella preghiera e incontrata nella mediazione umana del mio parroco, continua a ispirare le mie giornate e i miei progetti per il domani. Spero di poter essere anche io un giorno Buon Pastore per gli altri.