N.03
Maggio/Giugno 1997

Dio comunica, rivela e chiama

L’impostazione dialogica sottesa all’intera Bibbia mostra Jhwh come colui che parla in termini efficaci (cfr. Is 55,10s.). Israele ne misura la portata nell’uscita dalla schiavitù d’Egitto; poi, per aver esperito la liberazione, crede anche alla forza creatrice di quella stessa parola che suscita la vita e diversifica le creature (cfr. Gn 1,1ss.; Sal 33,6). 

Comunicazione – dunque – anche profondamente personale che invita all’ascolto per un’adeguata risposta: il credente anzitutto ascolta (cfr. Dt 6,4) la voce di Dio, come l’intera creazione (cfr. Is 1,2). Primo organo ad essere creato (cfr. Sal 40,7), l’orecchio garantisce l’ascolto della comunicazione divina (Is 50,5) e il nutrimento, all’ebreo e al cristiano (Dt 8,3; Mt 4,4).

Oltre ad essere pane questa parola ha pure la forza di spogliare: la chiamata di Dio mette a nudo l’uomo e quando questi è sorpreso nel peccato la nudità lo sconvolge (cfr. Gn 3,9-10). Se scopre le miserie, è anche pronta a offrire la salvezza: il racconto di Caino e Abele (cfr. Gn 4,1ss.) presenta Dio che chiama l’uomo a farsi custode della diversità del fratello e benché lo scopra omicida è disposto a difendergli la vita, oltre ogni aspettativa.

La parola garantista, è atto d’amore che apre la via alla trascendenza là dove il suo eccesso espressivo cerca l’eccedenza oltre ogni misura. Dell’oltre passamento dell’ordine giuridico è testimone Abramo disposto a immolare il figlio per amore di Dio, nonostante il quinto comandamento. Lo stesso patriarca già aveva vissuto la seduzione di quella parola come le carezze dell’amata che l’aveva chiamato a fuggire con lei, gli aveva promesso terra e figli in cambio di fedeltà. A volte questa medesima parola si scontra con le possibilità umane: è la tragedia di Mosè la cui balbuzie rende difficile ridire le parole di Dio. Altre volte la latitanza dalla convocazione divina è dettata dalla paura, dalla pigrizia o dalla propria ideologia: Giona fugge dal proprio incarico perché non reputa giusto che Sodoma e Gomorra si salvino.

Però a prescindere dalla disponibilità del personaggio cui è indirizzata la convocazione divina, nonostante le maniere brusche e insistenti del destinatore, colui che Dio chiama personalmente è il profeta: qualsiasi vocazione deve averne i caratteri, riconoscere la voce e farsene carico. Il riconoscimento non è cosa da poco, soprattutto quando i clamori sono forti e la comunicazione sottovoce: Elia sulla caverna dell’Oreb la riconobbe “nel mormorio di un vento leggero” (1Re 19,11-13).

Più difficile riconoscerla quando diviene ironica, allora si scontra con la pretesa seriosità dell’uomo. In 2Re 5,1ss., Naaman, potente capo militare siriano che ha contratto la lebbra, su indicazione della schiava della moglie va a cercare la guarigione fuori della propria terra; recatosi da Eliseo questi si disinteressa della diplomazia ufficiale e dell’efficacia seriosa dei mezzi umani ai quali oppone il carattere derisorio di una cura stupida: senza neppure riceverlo lo manda a bagnarsi nel Giordano. Per Naaman è ingiurioso quanto gli si chiede, tant’è che si adira e accetta di ubbidire solo per l’insistenza dei suoi servi. Uscito dall’acqua è guarito e allora confessa la fede nel Dio di Eliseo e vuol pagare, ma la parola di Dio è gratis, chiede solo di essere ubbidita.

La paradossalità raggiunge l’apice negli annunci a Zaccaria e a Maria (cfr. Lc 1,5ss.). Il primo è un vecchio sacerdote senza figli, contraddizione che vive come dolore sordo, confidato nella preghiera al Dio che rappresenta tra gli uomini: l’uomo che distribuisce la benedizione divina ai fratelli, non l’ha per sé. Quando gli tocca di offrire l’incenso nel Santuario riceve l’apparizione dell’angelo e la rivelazione della nascita del figlio.

Ancora un paradosso: la storia dell’incarnazione si apre con una scena i cui personaggi umani si rapportano al mistero fuori degli spazi della usualità. Se il culto sembra essere la sede della rivelazione, l’angelo ne è l’immagine autorevole (alla destra dell’altare) perché “appare” allo stesso modo del risorto, si qualifica con la stessa formula di autopresentazione divina (“io sono” e la sua collocazione originaria è “davanti a Dio” che ne indica il benestare. Dalla vista della forma esternata della divinità nasce il timore di Zaccaria. La risposta tranquillizzante dell’angelo (“Non temere Zaccaria la tua preghiera è stata esaudita”) apre la strada al rapporto tra preghiera e visione. Allo stesso modo l’uscita in ritardo di Zaccaria dal tempio e il suo mutismo offrono nuove possibilità alla relazione tra mutismo e visione: quasi che la sottrazione della parola o sia stato l’effetto della visione oppure abbia avuto la capacità di aumentare le possibilità visive del sacerdote.

Che sia stata interpretata come causa o come effetto, nel giudizio della folla visibilità e parola restano due realtà antitetiche. Se il mutismo di Zaccaria crea qualche attimo di smarrimento agli astanti, problemi più seri sembrano quelli provocati allo stesso sacerdote dalle parole dell’angelo che promette quel figlio tanto desiderato ma forse così poco creduto e dà il nome al nascituro: Giovanni assolverà a un ruolo previsto da Dio che se l’è scelto dal seno materno perché, animato dello spirito della profezia, cammini per le medesime strade di Elia, ne abbia la potenza e il soffio divino, sappia essere profondo interprete della storia e veda ciò che all’occhio comune sfugge. Dinanzi alle parole dell’angelo questo sacerdote sembra abdicare al suo ruolo di mediatore col divino così come pare aver perduto il senso per non prendere in considerazione nessuna delle numerose allusioni anticotestamentarie del messo celeste. La risposta è la più banale che si possa dare: l’età non consente né a lui né alla moglie di avere figli. Entrato nel tempio come rappresentante degli uomini accreditato presso Dio, Zaccaria dubita delle parole del messaggero divino; uscito dal tempio come il rappresentante di Dio presso gli uomini non può comunicare con i suoi simili perché il rapporto col mistero l’ha reso muto. Quanto non ha compreso nell’annunciazione, però questo vecchio prete lo capisce al momento della circoncisione, dopo aver ubbidito alle parole dell’angelo, e lo esprime nel canto profetico del benedictus dettato dallo spirito, vento della profezia e anima della poesia.

Dopo l’annuncio a Zaccaria l’angelo è inviato a Maria di cui viene evidenziata la verginità. Anche a lei Gabriele annuncia la nascita di un figlio, ma la situazione è diversa: Zaccaria aveva pregato per superare la sterilità di Elisabetta, gli spazi erano quelli straordinari del tempio e la paura nasceva dalla visione, la verginità di Maria non attendeva certo un fanciullo, l’ambito è quello feriale della casa e lo spavento è causato dalle parole.

Viene detto esplicitamente che il nascituro sarà “figlio dell’Altissimo”e “figlio di Dio”. Titolo del re davidico (cfr. 2 Sam 7,14) il primo, il secondo si presenta come un riferimento discreto al Sal 2,7. Forse anche un’allusione a Gn 2,7 allorché Jhwh alita sulle narici dell’uomo un soffio vitale: là il soffio suscita un figlio, qui le parole di Gabriele il Messia (cfr. Rm 1,3s.). La risposta dell’angelo all’obiezione della giovane nazaretana che aveva rivendicato la propria verginità, descrive con un’espressione anticotestamentaria (v. 35 “verrà su di te”) un intervento dello Spirito di Dio (cfr. Es 32,25; Nm 5,14.30; At 1,8). Ugualmente quando l’angelo annuncia il mistero che carica la terra, scende la notte di Dio: “La potenza di Dio ti coprirà con la sua ombra” indica un intervento favorevole. Il parallelo tra i due verbi “venire sopra” e “ombreggiare” espressi da Gabriele dicono lo stesso movimento e la medesima potenza divina intervenuta in maniera benefica e protettrice su Maria. Lo Spirito di Dio la protegge perché lei a sua volta deve proteggere. La parola ha raggiunto Zaccaria nel tempio, da cui poi è uscito. Maria la incontra a casa, dove invece resta e lì la custodisce: quante volte questa ragazza nei vangeli lucani dell’infanzia custodisce in cuor suo parole che non comprende!