N.03
Maggio/Giugno 1997

I linguaggi vocazionali della Chiesa

Sembra finalmente che sia chiara a tutti, nella Chiesa, l’importanza di comprendere il ruolo decisivo della Comunicazione. Ruolo che è sempre stato fondamentale, ma che non aveva mai raggiunto prima la potenza attuale, né come comunicazione in se stessa, né come complesso di modificazioni indotte, che finiscono per determinare decisamente la forma e l’efficacia della stessa evangelizzazione. Se Giovanni Paolo II, nella enciclica “Redemptoris Missio”, arriva a definire la Comunicazione come primo Areópago dei nostri tempi ed esorta a inserire la Comunicazione nei piani e nei progetti pastorali, ma non in posti secondari, dovrebbe essere inutile insistere. Ma c’è un aspetto particolare del problema che appare oggi provvidenzialmente suggerito proprio dai processi della Comunicazione. È il ruolo specifico della Chiesa come mezzo scelto da Dio per comunicare con gli uomini. Come dice Enzo Bianchi in una recentissima pubblicazione “Come evangelizzare oggi”, edita dal Monastero di Bose: “Guai a me se non evangelizzo”, ma l’annuncio deve avvenire in buona comunicazione (cfr. la “bella condotta” di cui parla 1Pt 2,12), in una pratica cordiale del confronto e dell’alterità; non deve avvenire ad ogni costo, né attraverso l’arroganza dell’identità cattolica pura e dura, né con un ritorno alle incertezze che mortificano o agli splendori abbaglianti della verità. Sembra un’eco lontana di un pensiero profetico di Bonhoeffer, il quale già negli anni trenta, dopo aver parlato di “forme della comunicazione” e di “leggi del linguaggio”, afferma l’esistenza di un “sacramentum verbi”.

Le parole citate da Enzo Bianchi sembrano un piccolo vademecum da “portavoce” o da responsabile delle pubbliche relazioni. Mi piace immaginare dunque la Chiesa – e i suoi fedeli e i suoi pastori – come un ufficio di pubbliche relazioni al servizio della Parola di Dio e della Comunicazione pubblica di Dio con gli uomini, nulla togliendo, naturalmente, alla libertà di Dio di comunicare direttamente e personalmente con chi vuole e quando vuole.

 

 

Chiamata pubblica e chiamata personale

Dunque non vi può essere alcun dubbio circa il fatto che solo attraverso la chiamata pubblica fatta dalla Chiesa si realizzi la comunicazione vocazionale, che rende i chiamati idonei ad essere incorporati mediante l’Ordinazione Sacra. È, questo, un elemento importante, che deve essere conosciuto e apprezzato, purché non lo si releghi solo nell’ambito del diritto e della giurisdizione. Non dico questo per svuotare la vocazione dei suoi aspetti istituzionali, ma perché essa sia arricchita di elementi sempre più significativi, proprio in ordine alla comunicazione vocazionale. La “Chiamata della Chiesa” non è solo un atto giuridico ma è un atto di comunicazione pubblica e fondante, promossa da Dio e affidata alla mediazione comunicativa della Chiesa. La chiamata istituzionale, dunque, non può avvenire che mediante la Chiesa e dentro la Chiesa. Ma essa non sarebbe sufficiente, o potrebbe addirittura risultare erronea, priva com’è da ogni protezione di infallibilità, se non venisse a sanzionare la chiamata personale, rivolta da Gesù Cristo alla sua maniera, come ha sempre fatto fin dall’inizio, adattandola alla persona, alla professione, ai talenti e persino alle miserie di coloro che chiamava. Sarebbe interessante esaminare le caratteristiche comunicazionali rinvenibili in tutte le vocazioni narrate dal Vecchio e Nuovo Testamento, da Abramo, a Simone, a Levi, al Giovane ricco, a Saulo.

Ma poiché nessuno crede che la chiamata personale sia una sorta di “voce che viene da dentro” o un’ispirazione straordinaria che prescinda dai normali processi di riflessione e di maturazione della personalità, la domanda da porsi è la seguente: quali sono i linguaggi che la Chiesa usa di fatto e quali sono le condizioni favorevoli perché questi linguaggi diventino efficaci in ordine alla vocazione al sacerdozio?

 

 

Modelli e messaggi in ordine alla chiamata

Ognuno di noi proviene da un’esperienza vocazionale personale che è in qualche modo narrabile. L’elemento comune è che essa si è sviluppata interiormente riferendosi a un modello e accettando i messaggi che la Chiesa ci inviava. I modelli erano i preti, i messaggeri erano alternativamente o insieme i preti stessi, le madri, le catechiste, le associazioni o i movimenti, e – almeno per i più anziani tra noi – la società religiosa e persino la società civile. Il sistema di comunicazione vocazionale ha bisogno probabilmente oggi di una attualizzazione più precisa proprio per quanto riguarda i modelli, i messaggi e i messaggeri. Poiché né la società, e spesso nemmeno le famiglie, sono in grado di farsi messaggeri dell’ideale vocazionale, resterebbero i preti e la vita ecclesiale a svolgere il ruolo di messaggeri vocazionali, usando i linguaggi che sono propri della Chiesa, in primo luogo la Parola e poi la Liturgia, la Carità, la testimonianza. Questi linguaggi costituiscono già di per sé dei media, che però non escludono l’uso dei media intesi in senso tecnico. Abbiamo visto, recentemente, che la Chiesa si è servita persino di spot televisivi e sappiamo che in alcuni paesi la Chiesa ha affidato il reclutamento vocazionale anche a campagne promozionali su vasta scala e con vari media, compresi i manifesti murali. Oserei dire però che non è questo il problema principale. Come scrive Ermanno Genre, forse “la tentazione più grande della Chiesa è quella di catturare Dio nella tecnica di un linguaggio religioso che riproduce se stesso”. Il vero problema è quale modello e quale messaggio diffondere per favorire la chiamata personale al Sacerdozio.

La risposta a questa domanda è complessa, richiede contributi interdisciplinari e soprattutto uno spazio ben maggiore di quello concesso in questa sede. Credo però che si possano dare alcuni spunti di riflessione proprio in ordine al problema comunicazionale.

 

 

Il modello

Ritengo che non sia stato utile favorire un modello “sociale” del ministero presbiterale. Il presbitero che è soprattutto uno che risolve i problemi sociali – droga, AIDS, povertà, profughi – è più un modello di cristiano che di Presbitero. Manca di specificità. Un errore simile si commetteva anche nel passato proponendo il modello di Presbitero educatore dei ragazzi e dei giovani, mediante atteggiamenti che erano più simili a camuffamenti del tipo prete-organizzatore di tornei, giochi, spettacoli, campi-scuola (intesi per quello che sono spesso, vacanze collettive) e cori della montagna. Naturalmente non v’è ombra di disprezzo o di svalutazione nei confronti di queste attività che permangono e sono utili. Ma sono anche insufficienti a costituire un modello. Io credo che non mi sarei mai fatto prete per fare questo. Bisogna allora che messaggeri e messaggi ritrovino il gusto di credere in un modello vocazionale che si concentri soprattutto su ciò che è essenziale e specifico nel ministero del Presbitero e bisogna farlo senza paura, anche rischiando un nuovo assetto numerico immediato, forse qualche perdita di colpi iniziale, ma pensando alla lunga prospettiva, come a un investimento. È inutile fare qui citazioni che sono sicuramente familiari, pane quotidiano in chi legge e che si riferiscono al ministero della Parola e dei Sacramenti. Il Presbitero, uomo di Dio scelto tra gli uomini e a favore degli uomini, per la loro salvezza eterna e per “fare la Chiesa”: questo è il messaggio e questo devono sapere i messaggeri. Poi viene anche il resto.

 

 

Il modello messaggero

Vorrei infine fermarmi brevemente sul modello-messaggero, che è il Presbitero stesso. Egli dovrebbe essere un linguaggio vocazionale vivente. A partire dalla fede, per finire nella gioia di essere quello che è. Purtroppo esistono modelli-messaggeri proposti dal cinema e dalla televisione, ma anche nella realtà, che sembrano preti senza Dio. Come non vedere che il bisogno più urgente – sia esso consapevole o no – è per l’uomo contemporaneo quello della fede? E come non capire che dal Presbitero ci si aspetta, prima di ogni altra cosa, la certezza non intellettuale e nemmeno culturale, ma autentica e personale della fede in Dio e nelle sue Verità? Senza arroganze, senza atteggiamenti da commessi viaggiatori della Verità, senza “splendori abbaglianti della verità”, ma con la testimonianza di una fede autentica, manifestare nel linguaggio della vita, del gesto, della parola e persino del sorriso. La possibilità di diventare così modello-messaggero diventa esercizio quotidiano e può essere porta aperta a chiamate nascoste e umili, ma anche più evidenti e persino clamorose. In sostanza, il modello-messaggero vocazionale dovrebbe essere in grado di far balenare l’idea che “fare il prete” significa aiutare i nostri contemporanei a incontrarsi col Mistero e scoprire le vie della fede e della pacificazione spirituale, mediante le “ragioni della speranza” e quelle della convivenza con le schizofrenie culturali e con le crisi ideali del nostro tempo. E la carità? Certo, il Presbitero è l’uomo dell’amore e della solidarietà e della compassione. Ma anche nell’esercizio della carità egli privilegia le miserie e le sofferenze dello spirito, non perché le altre siano meno dolorose e impellenti, ma perché egli deve essere sempre, anche quando soccorre il povero, un testimone dell’Eterno nel tempo.

 

 

Conclusione

Credo, dunque, che la vera sfida comunicazionale sia quella di rendere gioiosa, piacevole e attraente la sostanza del Ministero presbiterale, che è radicata nella fede, nella speranza e nella carità e che si esplica mediante la Parola e i Sacramenti. Non certo è un pensiero né mio, né nuovo. “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola” (At 6,2-4).

Nulla di nuovo, dunque. Ciò che invece deve essere rinnovato è il linguaggio per comunicare efficacemente questa specificità vocazionale.