N.04
Luglio/Agosto 1997

Il pellegrinaggio come itinerario vocazionale

La prima tentazione è di lasciar perdere. Proporre il pellegrinaggio come itinerario vocazionale può sembrare un’impresa impossibile, se non addirittura sprecata. In un tempo in cui si bruciano come “esperienze” le mille proposte pastorali che si cerca di inventare e che gli stessi giovani si dispongono benevolmente a vivere, anche il pellegrinaggio rischia di entrare nel gran contenitore che tutto recepisce e tutto vanifica. E francamente, un itinerario vocazionale, che per natura sua dovrebbe tendere a dare unità alle esperienze, e un’unica, o almeno prevalente progettualità alla vita, non merita di finire nel calderone delle esperienze, l’una che fagocita e ammortizza l’altra.

A pensarci bene, però, di queste diffidenze e relative sconfitte è lastricata la strada di un qualsiasi progetto di Pastorale Vocazionale, con un particolare riferimento a quello che si è andati formulando negli ultimi 20-30 anni, nei nostri contesti vitali che contemporaneamente tengono un occhio aperto sul richiamo-nostalgia della fede e un altro sul più pagano consumismo. Solo che, almeno in apparenza, il pellegrinaggio sembra, più che tutte le altre proposte pastorali, obbedire proprio alla logica del mordi e fuggi, del festoso happening che tutto celebra e tutto dimentica.

 

 

 

Parlare per simboli

Pur tuttavia, restano questi i canali privilegiati, per non dire obbligati, per parlare a questa generazione. Proprio in un tempo di “frammenti”, quello simbolico si conferma il genere letterario più capace di fare breccia nel muro di gomma di questi nostri giovani, e in ogni caso in grado di suscitare interrogativi, di evocare dimensioni ulteriori della vita. Resta vero, comunque, che nessun altro momento della Pastorale ordinaria riesce a narrare, con la freschezza propria del linguaggio simbolico, i valori propri dell’itinerario vocazionale, come o meglio di quanto riesca a fare un pellegrinaggio.

 

– Essenzialità, gratuità, solidarietà

Quali altre occasioni si presentano, ad esempio, perché un giovane sperimenti sulla propria pelle il valore dell’essenzialità? Già l’abbandono della routine quotidiana, con tutto ciò che comporta di sicurezze, di punti di riferimento, di motivi per trascorrere il tempo, o di compensazione con l’effimero, è di per sé una possibilità per distinguere ciò che serve per la vita da ciò che è periferico, un desiderio vero e profondo da un bisogno indotto. Così, c’è da chiedersi: l’occasione propria di un pellegrinaggio non è uno spiraglio sul mondo della gratuità, proprio perché permette di distinguere finalmente ciò che per natura sua è “dato” da ciò che presumo essere semplicemente “mio”? E da parte sua questa scoperta non porta automaticamente con sé quella della solidarietà? L’austerità non apre un varco privilegiato per capire l’altro e finalmente incontrarlo?

 

– Una meta per la vita

In quanto fondamentalmente spirituale, il pellegrinaggio aiuta a riscoprire il senso più profondo di una meta per la vita. Come per Abramo, il paese verso cui ci si muove è quello che il Signore e solo lui indicherà (cfr. Gn 12,1), e nessuna esperienza come il pellegrinaggio può raccontare quanto perennemente “mobile” sia questo traguardo, quanto esso dipenda esclusivamente da Dio, e con quanta puntualità esso comporti una sistematica rinuncia alle proprie posizioni mentali, alle “conquiste” più o meno orgogliose delle diverse età della vita, quanto implichi un perenne e inesauribile rimettersi in discussione; proprio perché il futuro è di Dio.

 

– Le inquietudini del cammino

Nonostante tutti i comfort di cui il pellegrinaggio oggi si premunisce, niente di meglio ci si offre per descrivere le inquietudini proprie di un cammino esistenziale e antropologico. Anche nel pellegrinaggio moderno riecheggia il senso del cammino dell’uomo di fede di tutti i tempi, un cammino che oggi si avverte più urgente che mai: in gioco c’è quel tratto di strada da una terra senza Dio alla terra secondo il cuore di Dio; da un’umanità che si autoprogetta ad un’umanità che ascolta; da un pianeta succube del capriccio dell’uomo ad una natura finalmente riconciliata con l’intenzione originaria del Creatore.

Sono, queste, tematiche almeno implicitamente vocazionali. Intelligenza vuole che le si sappia portare alla luce, e che si colga l’occasione di quanto già normalmente viene vissuto nella Chiesa locale per un annuncio e una proposta vocazionale. Non è però da escludere, in un secondo momento, che un organismo vocazionale arrivi a progettare e a gestire direttamente un’occasione come quella del pellegrinaggio vocazionale.

 

 

 

Pellegrinaggio, ma all’interno di un progetto

Cogliere l’occasione di un pellegrinaggio e viverlo in dimensione vocazionale non corrisponde però ad un’operazione di colore. Qui più che altrove è indispensabile non ridurre il discorso vocazionale ad una preghiera di inizio e fine pellegrinaggio, o ad un ricordare qua e là alcune tematiche specificamente inerenti la chiamata.

A mio parere, criterio discriminante per organizzare un pellegrinaggio vocazionale dovrebbe essere la qualità e consistenza di un certo cammino percorso durante l’anno. Se si sono avute a cuore alcune attenzioni (ad esempio l’educazione al silenzio, la preghiera, la ricerca del volto di Dio, il distacco, la libertà, il contatto con la natura, la gradualità del cammino, ecc.) il pellegrinaggio “vocazionale” ha la sua ragion d’essere e soprattutto le sue prospettive di riuscita.

Visto così, il pellegrinaggio vocazionale è narrazione per simboli e coinvolgimento vitale di ciò che si è maturato durante l’anno, magari intorno ad un tema di volta in volta diverso, come quello della Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Ne consegue che il pellegrinaggio vocazionale dovrebbe distinguersi da quello semplicemente giovanile per la sua specifica selettività. In effetti dovrebbe prendervi parte chi desidera sperimentare per simboli ciò che durante l’anno si è cercato di proporre per via sacramentale o catechetica. Anche poche persone possono fare “pellegrinaggio” e il loro sarà “vocazionale” nella misura in cui saranno messe in condizione di maturare queste dimensioni.

 

– Il recupero del mistero

Camminare nel silenzio, marciare cantando, una sosta al contatto con la natura o in un eremo: sono tutti strumenti che il pellegrinaggio vocazionale può e deve offrire, e che – sapientemente organizzati – aiutano a ridimensionare il potere seduttivo delle cose e delle vicende di ogni giorno, e ad aprire all’Altro per eccellenza, Dio.

 

– Una decisione personale

È quanto mai opportuno che ogni pellegrinaggio vocazionale sia collegato alla vita concreta dei singoli partecipanti e che porti con sé una decisione da prendere. Questa decisione sia “vocazionale”, faccia capo cioè al contatto col mistero, sia parabola della propria sequela Christi, ma sia aperta anche al dono di sé agli altri. Non necessariamente deve essere la decisione-svolta, ma un impegno di volta in volta concreto sulla strada del servizio e dell’inserimento nella Chiesa, questo lo si dovrebbe esigere.

 

– Un mandato

Ogni pellegrinaggio vocazionale dovrebbe concludersi con un invio missionario, collegato proprio alla decisione e alla disponibilità personale. Attraverso questo gesto si sottolinea non solo la gradualità del cammino, ma la tensione verso questo “oltre”, proprio del pellegrinare.

 

 

 

Nella proposta di un CDV

Valorizzato in tutta la sua carica propositiva, il pellegrinaggio vocazionale può essere dotato anche in proprio e in maniera permanente dai centri di Pastorale Vocazionale. A questo proposito, la Chiesa Italiana ha opportunità preziose di cui usufruire. Si può dire che non c’è regione, se non diocesi, in cui non sorga un Santuario, un luogo storico per la fede, una casa di spiritualità, un’oasi a cui fare riferimento per un pellegrinaggio vocazionale. Questi luoghi dello spirito – in buona parte gestiti da religiosi e religiose – possono addirittura fungere, come spesso già accade, da asse di comunione per un’intera Chiesa locale e per le vocazioni che la animano. In ogni caso un CDV, un CRV non possono non mettere fra i loro obiettivi una permanente sinergia con queste mete di pellegrinaggio.

Ad esempio una Mostra Vocazionale dovrebbe essere una componente stabile di un qualsiasi Santuario: laddove il concetto di Mostra Vocazionale si dovrebbe allargare anche a un luogo in cui i giovani pellegrini possano incontrare una proposta di catechesi, uno spazio per il silenzio e la preghiera, un’occasione per conoscere meglio la vocazione di Maria di Nazareth o del santo che si venera in quel luogo. E questo ambito dovrebbe a sua volta godere della collaborazione del CDV e dei suoi componenti.

Quanto al pellegrinaggio vero e proprio, anche in esso la compresenza delle varie categorie vocazionali dovrebbe testimoniare quanto stia a cuore di una Chiesa locale l’attenzione per tutte le vocazioni. Spero non sia utopico pensare ad un pellegrinaggio dove il presbitero garantisca il ministero sacramentale, il consacrato e la consacrata si rendano disponibili al discernimento vocazionale, il laico si preoccupi degli aspetti organizzativi e dell’animazione in genere. Parimenti, considerando lo spessore della posta in gioco, e quindi l’urgenza dei vari approfondimenti, non è da escludere un pellegrinaggio a tappe, con delle soste prolungate di riflessione o addirittura un pellegrinaggio che di anno in anno approfondisca un solo aspetto della tematica vocazionale: la ricerca, l’incontro col Cristo, la sequela, ecc.

Anche il pellegrinaggio si rivela dunque una risorsa preziosa della pastorale ordinaria a servizio di quella vocazionale. Coglierne il valore e soprattutto metterlo in opera, da parte di un qualsiasi discepolo di Cristo, sarà un atto d’amore in più verso la Chiesa e verso le vocazioni che la rendono così bella.