N.06
Novembre/Dicembre 1997

Tutto per il Padre. L’obbedienza di Cristo modello e sorgente dell’obbedienza cristiana

Obbediente, obbedientissimo che più non si può e perciò l’obbediente, senza avverbi accrescitivi: ma perché Gesù “si è fatto obbediente fino alla morte” (Fil 2,8)? Perché povero di spirito. Perché mite e umile di cuore. Perché grande d’animo, libero e forte. Perché piccolo come un bambino. Perché sicuro dell’amore del Padre. In una parola, obbediente perché Figlio.. Cioè: radicalmente obbediente nell’agire perché, nel suo essere, radicalmente dipendente dal Padre. Il mistero dell’obbedienza di Gesù è tutto qui: è inutile girarci intorno. Non resta che tentare di penetrarlo più che si può. Proviamo.

 

 

La croce: obbedire al punto da morire

Secondo le fonti del Nuovo Testamento, per capire qualcosa dell’obbedienza di Gesù, bisogna cominciare… dalla fine, cioè dalla morte. Cristo – afferma l’autore della lettera agli Ebrei – “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Abbiamo già citato S. Paolo che scrive ai Filippesi dell’obbedienza di Cristo “fino alla morte” (Fil 2,8).

Per comprendere la natura precisa di questo atto di obbedienza di Cristo, bisogna porlo in rapporto con l’autorità che ha comandato quell’atto, cioè con il Padre. Ci aiuta S. Paolo, il quale esaltando l’incredibile amore di Dio per noi nel celebre passo di Rm 8,32, usa un’espressione a prima vista sconcertante, quasi scandalosa, di cui alcuni purtroppo hanno abusato: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Forse colui che non risparmiò il proprio Figlio ma lo consegnò per tutti noi, come non ci accorderà ogni cosa con lui?”. In che senso il Padre “sacrificò” il Figlio? S. Paolo usa qui di proposito una formula con cui la Bibbia riferisce l’atto di obbedienza di Abramo, lodato da Dio perché “non risparmiò il suo figlio dilettissimo” (Gn 22,12). Come Isacco che restò il figlio “dilettissimo”di Abramo, anzi mai come in quel momento drammatico venne amato così tanto dal padre il quale avrebbe voluto mille volte essere lui a morire anziché sacrificare il figlio unigenito, così Gesù mai come nella passione è stato amato dal suo Abbà, il quale fu ben lungi dal provare qualsiasi sentimento di “collera” contro di lui, anzi lo ha considerato come “il Figlio di cui egli si compiace”, come lui stesso ha proclamato al battesimo (cfr. Mt 3,17) e alla trasfigurazione (cfr. Mt 17,5).

Ma si può andare più oltre e intuire, con l’aiuto di S. Tommaso d’Aquino, la natura esatta dell’atto di obbedienza di Cristo, precisando la natura del correlativo atto di autorità del Padre; questo atto viene espresso con il verbo tipicamente biblico consegnare, usato sia per indicare l’azione di Dio Padre che “consegnò” il Figlio (lo stesso verbo ricorre nella traduzione greca dei Settanta in Is 53,6 nel quarto canto del “servo di JHWH”), sia l’atto del Figlio che “si consegnò” ai suoi uccisori, come leggiamo in S. Paolo: “mi ha amato e si è consegnato per me” (Gal 2,20; cfr. Ef 5,2.25). A proposito di questa “consegna” per obbedienza, già i Padri della Chiesa avevano notato che Dio Padre non “consegnò” (tradidit) suo Figlio come lo “tradidit” Pilato (Mc 15,15), ancora meno come lo “tradì” Giuda. S. Tommaso dedica esplicitamente un articolo della sua Summa Theologica[1] alla questione e spiega così:

1. il Padre non volle la morte di suo Figlio contro la volontà di costui: sarebbe stato “empio e crudele”;

2. il Padre tradidit il Figlio non imponendogli dall’esterno la sua volontà, ma “ispirando al Figlio la volontà di soffrire per noi”; 

3. il Padre non si contentò di ispirare questa volontà al Figlio come potrebbe fare un uomo, cioè dall’esterno, con parole, ma come solo Dio può farlo, cioè dall’interno, “operando nell’intimo del suo essere, della sua libertà, comunicandogli l’amore”.

In un altro passo[2] S. Tommaso completa questa spiegazione:

“Il Padre non forzò il Figlio – cioè dall’esterno, escludendo ogni costrizione non solo di ordine fisico, ma anche morale, come nel caso di un obbligo imposto dal di fuori – ma piacque al Padre la volontà, in virtù della quale Cristo per amore accettò la morte”. San Tommaso precisa che è stato proprio il Padre a “operare nel Figlio questo amore”.

L’obbedienza di Gesù dunque corre sul filo dell’amore, Cristo “divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,9). È stato quindi un atto di obbedienza che ha rovesciato la disobbedienza di Adamo: “Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5,19).

San Francesco d’Assisi afferma che la disobbedienza di Adamo è consistita nell’appropriarsi della sua volontà: “Mangia dell’albero della scienza del bene e del male che si appropria della sua volontà”[3]. Gesù invece, come nuovo Adamo, ha obbedito in quanto si è espropriato della sua volontà, come lui stesso ha detto al Padre nell’agonia al Getsemani: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42), confermando in quell’ora suprema l’indirizzo di tutta la sua vita: “Non sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 6,38). In quanto la morte non è stata da lui subita, ma voluta, Gesù “piacque” al Padre. A chi si scandalizzava come Dio Padre potesse trovare compiacimento nel sacrificio del suo Figlio “dilettissimo”, san Bernardo rispondeva: “Non fu la morte che gli piacque, ma la volontà di colui che spontaneamente moriva”[4].

 

 

L’attività messianica: il filo rosso… sangue

I vangeli sono stati definiti giustamente “storie della passione con ampia introduzione” (M. Kaehler). Per ricostruire questa straordinaria storia di obbedienza quale fu l’esistenza terrena di Gesù dobbiamo risalire dalla croce a quell’“ampia introduzione” che è costituita dalla sua vita pubblica.

La “piega” futura della strada di Gesù s’era già intuita nell’episodio del ritrovamento al tempio. Ai genitori che l’avevano cercato affannosamente per tre giorni, Gesù risponde con una parola tagliente come una spada: “Non sapevate che io devo (gr. dei) stare nella casa del Padre mio?” (Lc 2,49). Qui Gesù rivela il suo rapporto unico con Dio, il Padre. In questa prima parola della sua vita, secondo Luca, si sente già il timbro delle parole che egli dirà nella vita pubblica, quando interpreterà la sua missione riferendosi al progetto divino (cfr. Lc 9,22.24; 24,26). La cosa ancora più sconcertante è che dopo aver appellato al comando del Padre per giustificare la sua “disobbedienza” ai genitori, Gesù sembra voler “rientrare” nei ranghi: “Discese con loro e andò a Nazareth ed era loro sottomesso” (Lc 2,51). La sua autonomia non è frutto di autosufficienza o disprezzo di una condizione umana che si evolva e cresca nei rapporti familiari e affettivi, ma è l’espressione del suo rapporto unico con Dio. Insomma è proprio il legame profondo ed esclusivo con il Padre che spinge il Figlio di Dio a confermare la sua solidarietà con la nostra condizione umana, senza privilegi e senza riserve.

Ma l’evento che mostra in tutta chiarezza da parte di Gesù la decisa volontà di vivere la sua identità messianica in tutta obbedienza al volere del Padre è il battesimo al Giordano. A Giovanni che si rifiuta di procedere al battesimo, l’unico motivo portato da colui che è e vuole vivere come “l’agnello di Dio” è un motivo di obbedienza: “È opportuno che in questa maniera si adempia ogni giustizia” (Mt 3,15). La giustizia è la volontà divina che Gesù vuole compiere in pienezza, ed è questo atteggiamento umile e docile che gli attira il compiacimento del Padre, il quale proclama: “Questi è il Figlio mio diletto, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3,17).

Il seguito della vicenda è tutto ritmato dall’obbedienza alla volontà di Dio attraverso l’attuazione fedele delle parole della Scrittura. Subito dopo il battesimo al Giordano, Gesù conferma la sua scelta radicale di servire la causa del regno di Dio respingendo gli attacchi subdoli di Satana con i suoi ripetuti appelli alla Scrittura: “Sta scritto!”. Commenta padre R. Cantalamessa:

La concordanza perfetta tra le profezie dell’Antico Testamento e gli atti di Gesù, che si nota nella lettura del Nuovo Testamento, non si spiega dicendo che le profezie dipendono dagli atti (cioè che esse sono applicazioni fatte dopo, in seguito ai fatti compiuti da Gesù), ma dicendo che gli atti dipendono dalle profezie. Gesù ha “attuato”, in obbedienza perfetta, le cose scritte di lui, dal Padre[5].

Così si spiega anche l’uso frequente in bocca a Gesù del verbo “si deve, è necessario” (gr. dei) in riferimento alla sua passione.

Quando ad esempio annuncia la sua volontà di andare a Gerusalemme, egli precisa che “era necessario che il Figlio dell’uomo soffrisse molte cose e fosse riprovato dagli anziani…” (Mc 8,31). E dopo la sua resurrezione, non meno di tre volte nel capitolo 24, l’evangelista Luca riporta quel verbo così duro: “Non era necessario che il Cristo patisse…?” (Lc 24,26; cfr. anche 24,7.44).

In che senso era necessario il dolore e la morte di Gesù nella storia della nostra salvezza? Non già nel senso di un destino cieco e crudele, né di una fatalità ineluttabile. Come abbiamo già visto, il Padre ispira una volontà d’amore in Gesù e si compiace della sua scelta di donare la vita; quindi il Padre è “costretto” in forza del suo amore a rendersi impotente perché il Figlio possa dare la prova suprema della sua volontà di autodonazione: “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,17-18).

Possiamo tentare a questo punto una prima sintesi: Gesù è “il Figlio che per obbedienza si fa schiavo d’amore.” L’episodio della lavanda dei piedi ne è l’illustrazione più eloquente: Gesù si alzò da tavola, racconta l’evangelista Giovanni, “depose le vesti”e si mise a lavare i piedi dei discepoli, facendo quello che non si poteva esigere nemmeno da uno schiavo ebreo. Per dire “deporre le vesti”, l’evangelista usa il verbo gr. tithenai, lo stesso usato in 10,11.15.17.18 per il sacrificio della vita, come a voler porre un parallelo intenzionale tra la lavanda dei piedi e la morte del Signore. Lo “spogliarsi” di Gesù che Giovanni illustra in forma di racconto, Paolo lo canta con accento lirico: “Pur essendo di condizione divina, spogliò se stesso assumendo la condizione di servo” (Fil 2,6-8). Il card. Martini ha affermato che, ad essere precisi, quel “pur” non c’è nel testo greco: non è quindi da mettere in contrasto il fatto di essere natura divina con quello di spogliarsi di questa natura[6] quindi l’espressione andrebbe intesa non in modo concessivo (“sebbene fosse di natura divina”), ma in modo causale: “perché era di natura divina”: come a dire che è proprio dell’amore divino abbassarsi fino allo svuotamento totale di sé (kenosi).

 

 

L’incarnazione: “Allora ho detto: lascio tutto, eccomi!”

Possiamo andare ancora più a ritroso e risalire fino all’istante zero dell’esistenza storica di Gesù, insomma fino all’incarnazione? A prima vista l’impresa si presenta impossibile: cosa possiamo dire noi, che a mala pena riusciamo a farfugliare qualcosa sull’origine di una esistenza umana, cosa possiamo dire di quell’evento assolutamente unico qual’è il concepimento del Figlio di Dio “per opera di Spirito Santo”, un evento che in quanto tale sfugge ad ogni possibilità di verifica? Eppure la lettera agli Ebrei interpreta l’inizio della storia umana di Gesù con il linguaggio dell’obbedienza: “Entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,5-7). Fin dal primo istante della sua esistenza terrena, Cristo aderisce al progetto di Dio, al punto da annientare se stesso davanti a lui e condurre i fedeli alla santificazione, per mezzo del sacrificio della sua vita. In questa prospettiva viene riportato il Salmo 40,6-8, un testo che non viene mai citato altrove nel NT e che qui viene riletto con finezza assai originale: in modo sorprendentemente drastico si liquida il sistema ritualistico del culto antico, giudicato radicalmente inefficace al fine di ottenere la comunione con Dio e si sottolinea l’ingresso nel mondo di Cristo come un atto di obbedienza: “Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati” (Eb 10,10).

È come se Cristo, spogliandosi della gloria divina ed entrando nella storia, dicesse: “Lascio tutto: eccomi!”. La nostra obbedienza trova in quella di Gesù la sua prima sorgente e il modello più alto.

 

 

 

 

 

Note

[1] Cfr. S.Th., III, q. 47, a.3.

[2] Cfr. Contr. Gent. IV, 55, 16.

[3] S. FRANCESCO D’ASSISI, Ammonizioni, II, F.F. n. 147. 

[4] PL 182, 1070.

[5] RANIERO CANTALAMESSA, L’Obbedienza, Milano 1995, p. 17.

[6] CARLO MARIA MARTINI, Abramo, Roma 1981, p. 81s.