N.06
Novembre/Dicembre 1997

L’obbedienza cristiana ristabilisce l’uomo alla sua capacità di amore

Sin da quando Ponzio Pilato mostrò a una folla brutale la persona di Gesù dicendo semplicemente: “Ecco l’uomo!”, abbiamo davanti l’immagine quasi simbolica della storia attraversata sempre da feroci conflitti, da scontri di idee e di interessi, magari politico-religiosi. Come quel giorno a Gerusalemme. Un uomo dalla vita e dalla storia innocente, aggredito, violentato da una folla di uomini manipolati, inferociti, violentati a loro volta da altre folle, vittime e carnefici allo stesso tempo, dunque. E sempre di fronte a questa immagine viene da chiedermi: Cosa ne è stato dell’uomo immagine del Dio-Amore, costruttore di civiltà d’amore?

 

 

Così è morto l’amore

E proprio quella folla inferocita e quell’uomo torturato “in un cruento dialogo”, mi aprono lo sguardo sulla perenne Pedagogia divina che, di generazione in generazione, è costretta a richiamarci tutti alla dignità primitiva, ossia, alla libertà, alla coscienza dell’amore. Anche oggi assistiamo a questa storia di deviazione, di odio cieco, di crudeltà impazzita, di infinito disordine. Con la disobbedienza all’ordine dell’amore stabilito dal Creatore, nell’io profondo dell’uomo è morto l’amore. Se potessimo analizzare il disorientamento dell’uomo, del cristiano, oggi (sic!) vedremmo come quasi tutti i mali sono riconducibili alla “disobbedienza” all’ordine del creato e della vita, dell’uomo e della società: dall’ecologia all’aborto, dalle guerre etniche alla droga. Allontanandosi dal suo Creatore, disobbedendogli, l’uomo ha come perso il filo dell’esistenza, ha perso il controllo di sé, e di qui “la più palese infelicità”[1].

Dice Agostino:

“Io posso dire che l’unica virtù di ogni creatura ragionevole operante sotto il governo di Dio è l’obbedienza, mentre la radice di tutti… i mali è la superbia per cui uno usa il proprio potere per la propria rovina e questo vizio si chiama disobbedienza”[2].

E con efficacissimo simbolismo:

“Poiché l’uomo non volle restare obbediente e custodire in se stesso la somiglianza, fu condannato e ricevette in castigo invece dal paradiso che coltivava un campo simile a ciò che era ormai il suo cuore. Dio infatti disse: spine e rovi produrrà la terra per te”[3].

Mi viene alla mente l’episodio dell’idropico guarito da Gesù. Dice Luca: “Lo prese per mano, lo guarì e lo congedò” (14,4). È la dinamica obbedienziale dell’infinito Amore: l’uomo che Egli ha creato vale di più di tutti i sabati che pure sono giorni del Signore. Il Creatore, al suo sabato, preferisce l’uomo, lo prende per mano, senza violenza, chiedendone la collaborazione, ne guarisce le malattie e lo riaffida a se stesso, alla sua risanata autonomia. “Dio non ordina nulla che giovi a lui stesso, ma a colui al quale dà ordini”[4]. Tutto l’obbedire cristiano va in questa direzione: ristabilire l’uomo alla sua capacità di amore. Tutto l’impianto evangelico ecclesiale è in ordine all’obbedire dell’uomo, risposta al suo grido; è invito, chiamata all’obbedienza. Vedremmo rifiorire vita e amore se l’uomo tornasse ad arrendersi al Creatore.

 

 

Per risuscitare l’amore

Come reintrodurre l’uomo dentro tale dinamica obbedienziale, sola equilibratrice e fondante ogni consistenza umana?

Prima di tutto ci ha pensato Gesù, l’uomo ob-audiens per eccellenza. Nella sua obbedienza perfetta, ci ha restituito il profilo dell’uomo-specchio di quella creaturalità e filialità che vivendo in permanente ascolto di Dio, Creatore e Padre, realizza pienamente se stesso e ripropone gli equilibri della storia agli uomini suoi fratelli. L’uomo del resto, proprio perché creatura e figlio di Dio, “nasce” in “stato obbedienziale”, cioè “in attitudine all’ascolto” di Colui che lo ha creato e poi ri-creato; essa è costitutiva del suo essere, potremmo dire che è impressa nel suo essere come “primaria legge di conservazione”. Gesù lo restituisce a questo stato cui il peccato lo aveva sottratto, e gli mostra nella sua Persona la radice della felicità, della pace, della libertà, la beatitudine della pienezza relazionale: “Beato chi ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica” (Lc 11,28). Nel seno della Trinità Egli vive col Padre in piena reciprocità d’amore e di ascolto: l’Uno è per l’Altro Sostanza d’Amore, Vita infinita ed eterna. L’uomo, il fratello, la sorella di Gesù devono riattingere lì, a questo Incendio la loro fiamma vitale. Nella Personalità di Gesù, nella sua esistenza, l’uomo, ogni uomo, può leggere l’indicazione decisiva per la ricostruzione del suo essere e della sua storia personale e relazionale. Chi può descrivere lo stato obbedienziale dell’anima di Gesù cui il Padre può rivelare ogni suo “segreto”?!

Ecco, su queste vie la Chiesa – la Sposa nata dai sentimenti di Cristo – ha l’incarico da parte di Gesù di accompagnare gli uomini, Maestra di fede – speranza – amore, potenze attitudinali d’ascolto e d’obbedienza, le sole capaci di forgiare “gli obbedienti”, ossia gli uomini decisi per la Verità che li renderà liberi. E chi può dire cosa sarà tale “libertà” nata dal cuore divino-umano della “Verità”?

La Chiesa di Gesù è così l’eco, il prolungamento terreno di quella misteriosa Parola sgorgata dall’Impeto dell’Amore Eterno del Padre sul monte Tabor: “Questi è il mio Figlio: in Lui mi sono compiaciuto! Ascoltatelo!” (Mt 17,5). È la fondazione dell’obbedienza! Potete e dovete ascoltarlo, Egli è il depositario, il testimone verace del mio Progetto sugli uomini. Lui solo vi dirà da dove venite, chi siete, dove andare: in Lui è lo Spirito dell’origine e della destinazione. Egli è “la via, la verità, la vita” (Gv 14,4). Se volessimo sintetizzare tutto questo in una immagine, potremmo dire che la vita cristiana, tutta l’esperienza cristiana – e in modo ancor più specifico, tutta la vita della sequela – è un colloquio esistenziale tra “un filo d’erba assetato”[5] e il suo Creatore. Un filo d’erba assetato di vita, di libertà, di amore, assetato dunque del suo stesso Creatore, suo Padre, suo Amico. Un’intesa vitale corre tra le loro due libertà, dunque un reciproco obbedirsi nell’amore, un reciproco ascoltarsi. “Le tue orecchie, o Dio, erano in ascolto dei gemiti del mio cuore” dice Agostino[6]. Questo stupendo, fecondissimo dialogo dobbiamo riaccendere nel cuore e nell’esistenza degli uomini, a fondamento d’ogni pastorale che è sempre vocazionale.

Dobbiamo risuscitare gli obbedienti!

 

 

 

Chi sono gli obbedienti?

Due grandi obbedienti hanno deciso della storia degli uomini proprio con la loro obbedienza: “Ecco io vengo, Padre, per fare la tua volontà” (Eb 10,7), ha detto Gesù. “Si faccia di me secondo la Tua Volontà” (Lc 1,38), ha detto sua Madre. Ed è per la loro obbedienza che abbiamo conosciuto “il mistero nascosto da secoli in Dio” (Ef 1,9). Ossia il mistero della nostra salvezza, il ritorno alla “innocenza dell’amicizia” con Dio, con i fratelli, con la creazione.

Dopo di loro, ogni uomo potrà, obbedendo, conoscere la realtà che sta “oltre” la rovina. E, da Dio Creatore e Padre, dal Figlio, trarre finalmente i principi che regolano la vita eterna della città temporale. È “la vittoria degli obbedienti” sull’“inconsistenza” nella quale annega tragicamente l’uomo d’oggi avendo distrutto ogni punto di riferimento.

Vorrei dire solo per inciso che ogni autentico cristiano – e tanto più ogni chiamato – dovrebbe “questa vittoria” gridare alla storia. Infatti solo l’obbedienza è in grado di manifestare i reali contenuti della sapienza che guidano la storia e ne fanno la storia della salvezza. L’uomo obbediente libera l’iniziativa di Dio sulla storia testimoniando che Dio, a sua volta, intende liberare l’iniziativa dell’uomo. È dunque rivelazione di Dio e dei reali piani della storia.

Solo attraverso gli obbedienti – Maria, i Santi e tanti altri configurati a Cristo -abbiamo conosciuto come si può scrivere una storia nuova. Questo tipo di obbedienza non è più una “virtù”, oggetto di voto, è piuttosto un modo di essere, uno stile di vita, il contrassegno inequivocabile della personalità cristiana. Esige un lungo cammino. Prima di diventare “libertà” è umile rinuncia a visuali troppo soggettive, a sicurezze gratificanti, è fatica. Il mistero dell’obbedienza suppone un coraggioso e perseverante atto di fede, e, non solo un abbandono confidente alle certezze di Dio, alla sua Volontà, ma come ho detto sopra, alle mediazioni d’obbedienza.

Vorrei affidarmi ad H.U. Von Balthasar per una profonda sintesi di quanto detto, perché tale sintesi mi sembra aprire ulteriori profondità che non mi è dato di esplorare. Scrive dunque Von Balthasar:

In Maria, “nucleo santo” della Chiesa, questo atteggiamento ecclesiale fatto di disponibilità a lasciarsi configurare a Cristo si concretizza in modo tipicamente personale; …come immacolata risposta umana alla parola dell’amore di Dio… Intorno a questo “nucleo santo” stanno poi quegli “stampi” dell’esistenza    cristiana che appartengono all’originaria “costellazione cristologica”:… i Dodici, (seguono il Maestro abbandonando tutto) Pietro, Giovanni, Paolo, i Santi della Chiesa. In questa forma primordiale di sequela deve immettersi ciascun uomo credente, e quanto più in essa gli riesce l’espropriazione obbedienziale di sé… tanto più si fa Chiesa. Che è soltanto una mediazione per giungere all’immediatezza di Cristo…, trasparente nei confronti della sua origine fontale, Cristo, così come Cristo è perfettamente trasparente rispetto al padre. La Chiesa è dunque “il luogo” in cui si avvia l’assimilazione dell’umanità alla persona e alla vicenda di Cristo; dove gli uomini si donano a questo evento personale con fede obbediente vengono da esso conformati coi sacramenti e questa loro esperienza partecipano al mondo con la loro esistenza[7].

 

 

L’obbedienza libera l’amore

Da quanto ho cercato di dire, vorrei trarre alcune considerazioni di carattere più pratico che mi sembrano tuttavia opportune.

 

L’obbedienza è una questione di amore

Solo chi ama ha – per così dire – diritto ad essere obbedito. E può obbedire solo chi ama. L’obbedienza della quale abbiamo parlato afferra l’uomo dal di dentro, “avviene” nella parte più intima e quindi più vera della persona. Comando e obbedienza non hanno altro spazio d’incontro se non l’interiorità. La chiave di questa porta la possiede l’amore. La mediazione, secondo Agostino, dà voce al Maestro interiore, parla dunque dal di dentro e all’interno dell’altro. Troppo spesso registriamo l’inefficacia, l’inincidenza di metodi pedagogico-pastorali, di piani con tanta fatica elaborati. Nella Chiesa di Dio si cammina per vie d’amore. Forse c’è da reimparare a mediare – a qualsiasi livello – secondo il costoso metodo dell’incarnazione. “Non potrai insegnarmi ad amare se non mi ami – diceva un giorno un giovane religioso al suo maestro – non potrai conoscermi”. “Non si conosce nessuno se non attraverso l’amicizia”, ha scritto Agostino[8]. E questo amore è “obbedienza”. Obbedienza a Dio autore del progetto sull’uomo e obbedienza all’uomo nella sua identità, nella sua libertà. In ordine a questa libertà si prende l’uomo per mano, sottomettendosi a lui, “lavando i suoi piedi” come Gesù, per “aver parte” con Lui. E ciò che vale per l’uomo-mediazione, vale per tutta la Chiesa: è necessario reimparare ad amare la Chiesa come Chiesa, la sposa – vergine – madre nata dal folle amore crocifisso. Mediare è “dare la vita” allora.

 

Le “ricadute” dell’obbedienza

L’atto dell’obbedire fondamentale nel cammino cristiano per una sua duplice ricaduta. Una ricaduta sull’uomo stesso che chiamerei antropologica. Obbedendo a Dio, Creatore-Padre tenerissimo-redentore misericordioso e Sposo dell’anima, in questa ricchissima gamma di relazioni con Dio, concretizzata dall’esperienza sacramentale, la persona cresce in trasparenza, conoscenza e coscienza di sé, delle sue chiamate interiori, delle sue possibilità ed è “costretta” a liberarsi progressivamente, a guarire dalle sue paure, ansie, depressioni, dai suoi miopi narcisismi: li domina e li possiede, li evangelizza. Questo le permette di proiettarsi verso la sua autentica “misura” di uomo “capax Dei”, aperto dunque costitutivamente alla “dismisura” divina di figlio di Dio. Questa chiamerei la “potenza ascetica” dell’obbedienza.

La seconda ricaduta – che chiamerei teologica – è sul mistero stesso di Dio, sempre relativa all’uomo, perché, di obbedienza in obbedienza, esso si rivela sempre di più alla persona che appunto dalla sua docile obbedienza è resa sempre più trasparente: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Questa chiamerei la “potenza mistica” dell’obbedienza.

In ogni caso “potenza liberatrice” a livello teologico, antropologico e spirituale. A questo mira tutta la pedagogia della Chiesa. S. Tommaso da Villanova – un Santo agostiniano contemporaneo di Teresa d’Avila – ha detto della vita monastica “Et finis vitae monasticae est sola puritas cordis”[9]. Io direi che la purezza del cuore è il fine della vita cristiana.

 

 

La docibilitas: lettura sapienziale dell’amore

Questi occhi però capaci di lettura obbedienziale vanno allenati verso una disposizione che è atteggiamento basilare, condizione fondamentale: la “docibilitas”.

È molto di più, mi sembra, della docilità. La docibilitas è di tutto l’uomo, in tutte le sue potenzialità attitudinali e operative; è delle sue facoltà superiori e inferiori, è attitudine esperienziale: è come l’aspetto dinamico dell’obbedienza. Soltanto “i docibili” possono essere degli autentici “obbedienti”, personalità estremamente, docilmente attente a tutte le provocazioni, quindi capaci di totale coinvolgimento; personalità “in ascolto” in stato esistenziale di formazione permanente. Il Padre Amedeo Cencini così descrive la “docibilitas”:

libertà interiore e vigilanza personale che consentono di lasciarsi toccare dalla vita di ogni giorno, di leggere in profondità eventi e incontri, d’imparare dall’esistenza quotidiana per lasciarsi… da essa formare[10].

Quanto è importante allora la “docibilitas”! Essa decide della qualità e della maturità della vita cristiana; è apertura quasi costitutiva dell’essere cri stiano, tanto più se chiamato ad essere “segno profetico” in mezzo ai suoi fratelli e nella Chiesa. È abile insomma a trarre da tutto sapienza. La “docibilitas” è consenso oltre che apertura, “consenso credente” all’opera di Dio, è “intelligenza” del fine intrinseco d’ogni accadere.

Solo una “docibilitas” consumata può cantare l’aforisma audace di Agostino: “Ama et quod vis fac”[11] che è il traguardo, la “vittoria dell’obbedienza cristiana”, il punto d’approdo dell’obbedienza cristiana. Questa espressione sembrerebbe stare al polo negativo dell’obbedienza, ma c’è quell’AMA: Fai – dice Agostino – fai pure quel che ti pare, ma, prima, ama. Cosa significa quell’“ama”? Cosa c’è dentro questo imperativo che ha la profondità dell’abisso e l’estensione dell’orizzonte? Esso suppone tutta una consistenza creaturale restaurata; una ontologica filialità conosciuta e vissuta; un equilibrio umano, spirituale ed etico ritrovato e fondato, dunque ancorato alle origini e orientato ai destini voluti dal Creatore, quindi un equilibrio stabilito nell’ordine pneumatico dell’Amore.

D’altronde, questo è l’uomo del “disegno eterno”, l’uomo che l’Eterno ha disegnato sulla palma delle Sue mani (cfr. Is 49,16), il cristiano. L’uomo “beato che non segue il consiglio degli empi…, non si siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore” (Sal 1).

 

 

 

 

 

 

Note

[1] S. AGOSTINO, Città di Dio, 14,24,2.

[2] S. AGOSTINO, Genesi alla lettera, 8,6,12.

[3] Ivi, 8,10,20.

[4] S. AGOSTINO, Lettera 138, 1,6. 

[5] S. AGOSTINO, Confessioni, 12,3. 

[6] Ivi, 7,7.

[7] H.U. VON BALTHASAR, Nella pienezza della fede, pp. 59-60.

[8] S. AGOSTINO, Le 83 Diverse Questioni, 9.71,5.

[9] S. TOMMASO DA VILLANOVA, In Die Circumcisionis, C. 3, F. 6, p. 313   

[10] A. CENCINI, Nell’amore, p. 143.

[11] S. AGOSTINO, Commento all’Epistola di Giovanni, 7,8.