N.06
Novembre/Dicembre 2024

Col passo del pellegrino

In cammino verso il Giubileo 2025

Che cos’è il Giubileo? Da dove viene e come mai la Chiesa continua a celebrarlo? E come lo celebrerà durante il 2025? Tale anno infatti sarà la ricorrenza di un Giubileo ordinario che il Papa Francesco ha indetto il 9 maggio scorso con la Bolla di indizione, dal titolo Spes non confundit e che comincerà il 24 dicembre prossimo con l’apertura della Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano.

“Giubileo” sarà quantomeno una parola che accompagnerà i discorsi dei cristiani durante il 2025 e sarà declinata dalla tonalità particolare della speranza. Entriamo, dunque, in quello che a tutti gli effetti è uno “strumento pastorale” di cui la Chiesa si è dotata dal 1300 e vediamone il contenuto dell’anno prossimo, dedicato alla speranza.

 

Giubileo: evento di Popolo tra indulgenza e pellegrinaggio

Il Giubileo è un evento di popolo, ed è un evento di fede, già fin dal primo Giubileo del 1300. Infatti, quel primo Anno Santo nacque per volontà del Popolo di Dio. Le cronache dell’epoca raccontano che, in un clima di cambio secolo e di fine del mondo, con il fascino anche delle date che segnano un passaggio – dal 1299 al 1300 –, il popolo di Roma accorse dal Papa Bonifacio VIII per chiedere il dono dell’indulgenza. Il Papa corrispose a quella richiesta così insistente, concedendo «un’indulgenza di tutti i peccati, non solo piena e più abbondante, ma pienissima», così recita la Bolla di indizione, Antiquorum habet. «Pienissima»!

Era il 22 febbraio del 1300 e Bonifacio VIII scrive che l’indulgenza è retroattiva: essa valeva anche per quanti avevano già compiuto il pellegrinaggio verso la Basilica Lateranense fin dal Natale precedente. Un fatto simpatico che, però, rivela l’insistenza del Popolo di Dio nel voler fare l’esperienza del perdono dei peccati.

Di per sé, il Giubileo era un’istituzione già presente nell’Antico Testamento. Il libro del Levitico (Lv 25) lo presenta come il “sabato dei sabati”. Dopo sette settimane di anni, vale a dire dopo quarantanove anni, il cinquantesimo doveva essere dedicato al riposo, inteso come recupero di ogni disarmonia così da riconoscere il Signore Dio come sovrano del tempo e della storia. Allora era un’istituzione socio-politica e religiosa insieme: era un anno di riposo della terra, di condono dei debiti, di rilascio degli schiavi.

Il Giubileo biblico, dunque, puntava a una capillarità pervasiva di ricomposizione delle fratture, nel riconoscimento della regalità di Dio. Il Signore Gesù assume su di sé l’anno di grazia (Lc 4,19): lo dice di sé, leggendo il profeta Isaia all’inizio del proprio ministero e lo allarga a un cammino di riconciliazione con il Padre, che passa attraverso di lui, che è la Porta (cf. Gv 10, 7), e che vuole innestarsi in ogni dimensione dell’uomo. La Chiesa, dunque, recupera questo strumento pastorale di un anno speciale, facendo convogliare in esso la dimensione di riconciliazione pervasiva, che nasce da una profonda riconciliazione con il Signore.

La cadenza biblica di cinquanta anni, legata al tempo del riposo, nei secoli è accorciata a venticinque: è il tempo di una generazione, affinché ogni età possa godere di questa possibilità di perdono smisurato e capillare.

Questo perdono pienissimo nella storia dei Giubilei assume il nome di indulgenza; è la nota originaria di ogni Giubileo, fin dal 1300. Questa pratica permette di scoprire quanto sia «illimitata la misericordia di Dio» (Spes non confundit, 23): illimitata nel tempo e capillare nella vita delle persone. Nella forma pratica che conosciamo, l’indulgenza reinterpreta il desiderio di riconciliazione trasversale del Giubileo biblico. Benché la storia del “dispositivo” pastorale dell’indulgenza sia piuttosto articolata e complessa, pare utile non abbandonarla; bisogna invece interrogarla per l’oggi e raccogliere, se ci sono, alcuni spunti significativi.

«Come sappiamo per esperienza personale, il peccato “lascia il segno”, porta con sé delle conseguenze: non solo esteriori, in quanto conseguenze del male commesso, ma anche interiori» (Spes non confundit, 23). Così il Santo Padre Francesco descrive il nocciolo della dottrina dell’indulgenza, articolando la classica distinzione tra colpa e pena temporale (cf. CCC 1471-1479): da una parte essa presenta l’offerta della riconciliazione con Dio, dall’altra apre a un cammino di perdono trasversale a tutte le dimensioni della vita. Più profondamente ancora, tuttavia, ci pare importante rilevare come si illumini la qualità incisiva dell’agire dell’uomo. La dottrina dell’indulgenza getta luce rispetto al peso serio e dunque responsabile dell’opera umana, restituendola alla dignità che le compete, che le è stata data da Dio e di cui è importante avere cura.

L’agire dell’uomo, infatti, è incarnato. La libertà non è una nuvola di vapore. Ciò che viene agito provoca una scia. È esperienza comune di come i legami restino feriti, l’ambiente deturpato, i deboli violati e la persona stessa impigliata in legacci difficili da abbandonare. La libertà che compie il male, lascia una scia di male. La riconciliazione con Dio apre la porta affinché si intraprenda un cammino di riparazione: «Perdonare non cambia il passato, non può modificare ciò che è già avvenuto; e, tuttavia, il perdono può permettere di cambiare il futuro» (Spes non confudit, 23). Lo stesso discorso  – forse dovevamo dirlo subito – va fatto in merito al bene e al circolo virtuoso che provoca: il bene costruisce nel bene.

L’indulgenza rivela dunque lo spazio per un processo di maturazione. Non c’è un aut-autesclusivo, bensì un invito concreto a riabilitare la libertà ferita e a rafforzare opere di bene. Gli “esercizi” legati all’indulgenza, quali il pellegrinaggio, la visita di luoghi santi specifici, i sacramenti, le opere di misericordia, sono incisivi, sono concreti, chiedono un impegno e un coinvolgimento, sono a loro volta “incarnati”. Essi lavorano su un progetto di ricostruzione, innestando circoli di bene.

È su questo punto che ci pare possano giocarsi alcune risonanze positive e gli aneliti contemporanei. Se da una parte, infatti, è forte il desiderio di una libertà sconfinata, dall’altra si conoscono molto bene le disarmonie e le fratture che si provocano o si subiscono nei legami.

C’è bisogno di una riabilitazione, come una fisioterapia postoperatoria, che chiede tempi e anche fatiche. Domanda di giocare la propria libertà, non in astratto, ma concretamente, dando responsabilità. La proclamazione del Giubileo intercetta questa ricerca, offre risorse per disinnescare dalla disillusione che affligge e rivela che la Parola del Vangelo è la sorgente e l’approdo significativo.

Ci vuole tempo perché il perdono diventi storia. Ciò che accade, accade, non è acqua sui vetri. L’indulgenza riconosce che è necessario un cammino di conversione affinché la misericordia di Dio inondi capillarmente la storia di ciascuno. Prendere sul serio il tempo e la storia significa anche prendere sul serio la libertà. Non siamo automi, ma la libertà ha i propri tempi, anche nella conversione e nella riconciliazione. Inoltre l’indulgenza propone dei passi: riattiva la libertà perché si alleni a ricucire ciò che è stato strappato, affinché i movimenti interrotti possano recuperare fluidità.

Altra nota caratteristica del Giubileo è il pellegrinaggio a cui accenniamo brevemente, in particolare nella dimensione rituale e temporale che gli è propria. Il Giubileo è un tempo straordinario che si inserisce in un tempo condiviso; ha dei riti e il pellegrinaggio, in un certo senso, li raccoglie insieme.

Rito e tempo rischiano di essere esposti al vuoto del non senso. Ma sono percepiti anche come occasione per ridare unità. Forse è questa l’esperienza che convince i giovani (che tornano ogni volta alla GMG, ad esempio) e su questo c’è bisogno di riflettere per la nostra azione di evangelizzazione. I tempi, che sono i tempi del web, sono nevrotici e scoordinati. I riti, invece, hanno la capacità di raccogliere un senso.

La sfida è quella di ridare voce a tale esigenza di senso e permettere l’incontro con il rito giubilare: lì ci può essere l’ascolto di parole del Vangelo che siano significative nel far passare dalla dispersione all’unificazione che tutti cerchiamo. Questa forse è quella pienezza («plenissima») proclamata fin dalla prima Bolla giubilare, ed è un modo per ridire la totale riconciliazione che il Signore vuole rendere capillare nella vita di ciascuno.

La tentazione del tempo uniforme e indistinto degenera in un tempo vissuto in modo indifferente a quanto accade. La libertà resta in ostaggio dello zapping di chi non decide, e così si lascia decidere. Il tempo del Giubileo, al contrario, non accade sempre. È un tempo diverso, un anno che non torna così di frequente e che nella sua particolarità muove una domanda: “com’è la qualità del tempo che vivi?”. Al pensiero del “tanto è tutto uguale”, il Giubileo ha il sapore di una liberazione che, finalmente, orienta.

Comune all’indulgenza e al pellegrinaggio troviamo una nota squisitamente ecclesiale. La Chiesa, con il suo tesoro, che è Cristo, sorregge il cammino della conversione. Non si è mai da soli nella Chiesa. Il tempo della conversione e del godimento della misericordia è tempo ecclesiale, nel quale la compagnia dei santi e dei fratelli e sorelle nella fede illumina, incoraggia, corregge e sostiene. Il tratto ecclesiale e comunitario nell’esperienza della riconciliazione rimane spesso sbiadito ma, al contrario è molto visibile nel pellegrinaggio giubilare, nelle pratiche di misericordia spirituali e corporali, nel vissuto liturgico e di preghiera, che sono i grandi incroci per godere dell’indulgenza, secondo le Norme emanate dalla Penitenzieria e che, guarda caso, sono esperienze di Chiesa.

 

2025: l’annuncio di una speranza che non delude

Proprio per questa concretezza, la Chiesa si inserisce nel cammino della storia di tutti gli uomini e donne del proprio tempo. Dunque il Giubileo non è fuori dalla storia. Al contrario, si inserisce come un tempo speciale in un tempo preciso.

Leone XIII nel 1900 indiceva il Giubileo con la prospettiva di un superamento del diffuso degrado morale: basti pensare alla questione operaia e alla condizione dei lavoratori; il Giubileo del 1925 sottolineava il tema della fraternità: alle spalle stava l’inutile strage e all’orizzonte i totalitarismi europei; il Giubileo del 1950 aveva la tonalità della ricostruzione, davanti a un’Europa (e a un mondo) pieno di macerie fisiche e morali dopo la II guerra mondiale; nel 1975 Paolo VI sceglie il tema della riconciliazione e della comunione, in un tempo post conciliare teso, ma anche in un clima di guerra fredda, e in Italia di anni di piombo; il 2000 è il grande Giubileo dell’Incarnazione, varco per il III millennio.

Il Papa Francesco ha individuato la necessità di un recupero forte della speranza: pellegrini di speranza, infatti, è il motto. «Per tutti possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù» (Spes non confundit, 1). Il Signore lo si incontra nel segno della speranza. Anzi questo incontro è fonte di speranza.

L’incontro con il Signore crocifisso e risorto dà garanzia: la speranza non delude. La traduzione spagnola riporta la esperanza no defrauda, non froda, non prende in giro, non inganna (cf. anche la traduzione in portoghese, não engana). Il verbo usato da Paolo porta in sé anche la connotazione della vergogna (καταισχύνει): la speranza non lascia svergognati. Non dà di essere per sempre appesantiti dal motivo che ci farebbe arrossire. In sintesi: è motivo di fiducia, è terreno certo. Di quale certezza si tratta?

È un terreno certo calcato dal passo di un pellegrino. Non è la certezza di chi sa già tutto in anticipo, divorato da un’ansia di controllo. Ma la certezza agile di chi si sa sorretto dall’equipaggiamento sufficiente e necessario, quale è l’annuncio del Vangelo, per attraversare ogni tipo di terreno, fosse anche fatto di tribolazioni e sofferenze.

Da dove viene tale certezza? (un attender certo, direbbe Dante in Pd XXV,67). La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5). L’amore di Dio, spalancato e manifestato in Gesù morto e risorto è riversato, come acqua in una brocca, nel cuore di ciascuno (Spes non confundit, 2). È la centralità di Gesù che pone la prospettiva propria della speranza, di cui parliamo. L’amore di Gesù è il luogo di nascita di una speranza fatta secondo la Parola del Vangelo: che non delude e non si sottrae. Il dono del Figlio crocifisso e la sua compagnia inesauribile non vengono  meno. Non sono più sottratte dalla nostra storia e lo Spirito Santo è fiamma che arde e più non si spegne (Spes non confundit, 3).

Una citazione di Eb fa sintesi di questa prospettiva ultima, ma che, proprio perché tale, è decisiva per il cammino quotidiano: «Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’ancora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi» (Eb 6,18-20). L’immagine dell’ancora, incisa pure nel logo del Giubileo, è simbolo cristiano, fin dai tempi antichi, e racconta di un aggancio nella fede, a Gesù Cristo morto e risorto, fonte, compimento e approdo di ogni speranza.

Oggi, proclama la Bolla, è il tempo per la speranza. È la scelta di uno sguardo che va in concreta profondità e insieme uno sguardo a lungo raggio: tra la ferialità e il desiderio di futuro buono che ci abita. Allora la terza parte, Segni di speranza, rende visibile la speranza, indicando dei segni. Il Papa suggerisce tra le righe: “tu puoi essere segno di speranza” ed elenca i luoghi dove la speranza lascia un segno (cf. Spes non confundit, 8-15): la pace, la trasmissione della vita, la cura per i detenuti, per gli ammalati, per i giovani, per i migranti, per gli esuli, per i profughi e i rifugiati, per gli anziani e per i poveri. Questo passaggio offre una prospettiva per leggere la realtà che è propriamente cristiana e non tanto sociologica o psicologica (cf. Spes non confundit, 7).

L’insistenza forte su questi segni da una parte sollecita la speranza come antidoto a una sorta di inazione, a una certa omissione, che è come un tarlo che rinchiude. La speranza, quando viene fatta circolare, scardina il pensiero che dice “non ne vale la pena”, “si salvi chi può”. Sono pensieri che danno voce al nichilismo contemporaneo. Il processo del Giubileo fatto di rimessa in gioco della libertà riconciliata dal Signore e di presa in carico della storia e dei legami feriti riattiva una scoperta vera di se stessi, che inevitabilmente si apre agli altri. Vuole proporre una cultura della speranza, una mentalità di speranza.

 

Quattro coordinate per la speranza

«Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo» (Lc 24,21-23).

La citazione è nota, è la reazione dei due discepoli incamminati verso Emmaus, la sera del giorno di Pasqua, che rispondo al Risorto – non riconosciuto – che li affianca. «Noi speravamo» è il tono mesto di chi non spera più perché ha visto andare in fumo le proprie attese e i propri sogni. Tutto l’episodio di Emmaus è un paziente lavorio del Risorto nel far aprire gli occhi ai due, affinché riconoscano dove attingere una speranza che non li deluda.

Dunque la questione è quali sono le coordinate che permettono di riconoscere la speranza autentica? Quale alfabeto e quale grammatica possono aiutare ad articolare un annuncio di speranza, ma di quella che non delude e che viene dalla compagnia del Cristo? Ne individuiamo quattro, per il momento, recuperandole da quella grande pagina di riabilitazione della speranza che è il cammino del Risorto con i due discepoli verso Emmaus.

 

Prossimità

La compagnia del Risorto è qualcosa che i due non vogliono perdere: si è avvicinato e ha iniziato a rispiegare con forza (stolti e lenti di cuore) le Scritture e il Suo mistero in esse. Al momento del congedo, insistono: «Resta con noi». La compagnia di Gesù è qualcosa che non vogliono perdere. La sua prossimità si rivela attraente.

Qui entra in gioco la mediazione di prossimità, di legami tenaci e leali, ma anche veritieri e seri. Una mediazione che “si fa sentire”. La comunità cristiana esercita speranza laddove intesse legami la cui compagnia è qualcosa di desiderabile, con la consapevolezza tuttavia di essere una mediazione necessaria e relativa allo stesso tempo. Il Vangelo passa di bocca in bocca, e però è il Vangelo che deve passare: “ti racconto il Signore che ho incontrato, ma il Signore, non me stesso!”.

Luoghi dove si esercitano legami (case, parrocchie, oratori, scuole,  comunità religiose, ecc.) come contro-testimonianza alla deriva che dice che non ci sono spazi per questo e che non si offrono più legami di qualità. Legami di tale stoffa si alimentano della speranza del Risorto, legame che non viene mai meno. Lì dove si dà questo, si può iniziare a sentire il profumo della speranza che viene dal Cristo.

 

Il coraggio dell’agire

Gesù, sulla via di Emmaus, si impegna a recuperare i due discepoli. Un impegno che gli costa il cammino e la ripresa da capo delle Scritture. La speranza del Risorto è quella che dà coraggio per agire e perfino per soffrire.

Parlare di agire significa avere a che fare col dramma della libertà e della responsabilità, con la scomodità della scelta e della presa di posizione, con questioni di bene e di male. In una parola è avere a che fare con la vita etica.

In particolare la speranza fa rima con coraggio e con pazienza. Spes non confundit, nel tratteggiare il grande disegno pasquale di Cristo fonte di speranza, introduce un’apertura per certi versi feriale e quotidiana. Parla proprio della pazienza e dice, «siamo abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante. Non si ha più il tempo per incontrarsi e spesso anche nelle famiglie diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura» (Spes non confundit, 4). Continua collegandosi al contesto culturale segnato dall’ambiente del web. La pazienza è la virtù per vivere il tempo. È il passo del pellegrino, che non corre, né sta fermo, ma incede deciso, con costanza e perseveranza. È virtù che entra nella ferialità (le famiglie radunate a tavola!), e media la prospettiva originaria della morte e risurrezione del Signore.

Una coordinata capace di rintracciare speranza dunque è impastata di vita morale lieta e virtuosa, coraggiosa e paziente. Vale per i singoli ma vale pure per le comunità: laddove si hanno esperienze di scelte coraggiose, di opzioni per la pazienza ecco che si illumina una spia di speranza.

 

I luoghi della fine e dell’estremo

Raccolgo a partire da qui una terza coordinata, che in Spes non confundit è sviscerata con abbondanza da Papa Francesco laddove presenta i segni di speranza, o meglio i luoghi nei quali porre o riconoscere segni di speranza, come già ricordato.

Sono segni accomunati dal fatto di essere alle estremità, in posizioni limite. È nei luoghi della fine che la speranza si fa più eloquente. Essa parla laddove chi li abita lo fa con il cuore colmo dello Spirito del Risorto. È alla fine, davanti al Crocifisso che si infrange la speranza dei due di Emmaus. Tuttavia, è proprio nella fine, nella sintesi pasquale della croce, del sepolcro vuoto e della risurrezione, che Gesù svela il senso complessivo della sua vicenda e così di quella dei due.

I luoghi dell’estremo possono essere banco di prova per la speranza, una cartina al tornasole che rivela quelle speranze che deludono, e come un crogiuolo, fa risaltare la luminosità dell’unica speranza che si pone come orizzonte di tutto.

 

L’esercizio della preghiera e dell’adorazione

L’episodio di Emmaus si conclude con un chiaro riferimento all’Eucaristia. Lo sappiamo. L’esercizio liturgico che Gesù Risorto compie con i due è il tassello finale che permette di spalancare definitivamente i loro occhi, di poterlo riconoscere e tornare a Gerusalemme con il cuore in fiamme. Ora sanno in chi hanno posto la loro fiducia (e la loro speranza) (cf. 2Tm, 1,12).

La preghiera più in generale è una coordinata necessaria per riconoscere dove abita la speranza. «Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c’è più nessuno che possa aiutarmi – dove si tratta di una necessità o di un’attesa che supera l’umana capacità di sperare – Egli può aiutarmi» (Spe salvi, 32). Così scriveva Benedetto XVI.

La preghiera, condita di quel particolare atteggiamento che è l’adorazione, sul quale il Santo Padre sta insistendo con decisione negli ultimi mesi, rivela la qualità di speranza di un animo e di una comunità. Diventa un segnale prezioso ma anche una pratica che alimenta la speranza stessa.

 

Conclusione

L’approdo del cammino dei pellegrini lungo l’Anno Santo tanto si avvicina nel desiderio a quello dei due di Emmaus, soprattutto circa l’epilogo: Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture? (Lc, 24,32). Il loro ritorno a Gerusalemme è motivato dalla rinnovata Speranza che non delude e che hanno incontrato sulla via.

Il Giubileo 2025 giunge in un tempo particolarmente affamato di speranza e per questo il cammino della Chiesa potrà godere del dono di Dio non solo per se stessa, ma – come sempre – per il mondo. Sarà un tempo di «movimento spirituale» (C. M. Martini, Entriamo nel movimento spirituale del Giubileo, 1999) capace di ri-orientare verso la Gerusalemme che si tende ad abbandonare. Un movimento che raggiunge e smuove tutta la persona, ma anche ogni livello della vita della Chiesa, così che tutti siano raggiunti.

Entrare in un movimento del genere evidentemente porta con sé anche un «severo e impegnativo cammino di conversione personale ed ecclesiale» – citando ancora Martini. Non è questa la qualità più autentica della vicenda ecclesiale e dunque del Giubileo che si appresta a vivere? Conversione che chiede una libertà impegnata, una presa sul serio della storia letta nella luce della Parola di Dio e una novità di vita che si esprime nella ricerca e nell’abbraccio del progetto di vita che il Signore desidera portare al mondo.