N.01
Gennaio/Febbraio 1996

E noi abbiamo creduto all’amore

“Per ogni uomo grande cosa è l’amore. Lo è già la ‘passione d’amore’; lo è ancor più l’amore in quanto ‘volontà del bene dell’altro’… L’amore-comandamento nuovo è grazia, cioè partecipazione umanamente modulata dalla stessa vita di Dio nell’uomo. Così l’uomo è divinizzato. Lo è perché ormai in Gesù Cristo, Verbo che si è fatto carne, la gloria di Dio, la sua presenza, è tra noi. Tra gli uomini. Senza questa Presenza l’amore sarebbe sì qualcosa di grande, ma non di divino” (G. Grasso).

 

L’incarnazione: un dialogo d’amore

In Cristo Dio e l’uomo entrano in “collisione”, non per un’esplosione ma per un abbraccio e un dialogo: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui” (1Gv 4,9). Il Verbo di Dio entra nella realtà dell’umanità non quale Dio l’aveva originariamente pensata, ma in tutta la fragilità della “carne”, cioè della natura umana confinata nella regione delle tenebre e del peccato. Due estremi, zenit e nadir, si congiungono: la divinità si unisce alla fragilità estrema della carne. È il grande paradosso del cristianesimo. Il cielo scende sulla terra e Dio dimora in mezzo a noi in modo unico e nuovo. La terra – con le sue contraddizioni e i suoi smarrimenti – diventa la culla di Dio, del Dio che in Cristo rivela la potenza e il fascino di un Amore che si fa “debolezza” per l’uomo. “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,10). Dio è impotente e debole nel mondo – scriveva Bonhoeffer – e soltanto così rimane con noi e ci aiuta. Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza che ci sovrasta, ma in virtù della sua sofferenza. La “novità” di Gesù Cristo è la definitiva rivelazione della storia come tempo di abbraccio con la Parola che viene dall’alto, la cui tenda è per sempre inchiodata con noi nella medesima terra …e i suoi solchi custodiscono il nuovo definitivo futuro, affidato a chiunque crede seriamente che “colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo” (1Gv 4,5).

 

La follia dell’amore

Alla luce della rivelazione di Dio in Cristo si coglie come la vita – che per lui noi abbiamo (cfr. 1Gv 4,9) – si gioca nella banale realtà di ogni giorno, nella consapevolezza che essa è preservata dallo svuotarsi nella contingenza e nell’episodicità, proprio perché traduce nella “carne”, cioè nell’umano concreto e storico, l’amore divino. La teologia della vita non è che una variante della teologia dell’Incarnazione: il Verbo si fece carne, l’Amore si fece croce, la Vita di Dio si fece vita umana.

Questa Vita però può essere donata solo perché e in quanto Gesù affronta la passione e la morte e dà la sua stessa vita sull’altare della Croce, mediante la quale la partecipazione della vita divina si rende attuabile nella concreta situazione di peccato in cui l’uomo si trova.

La Croce – affermava Teilhard de Chardin – è sempre stata segno di contraddizione e motivo di divisione tra gli uomini. Tuttavia essa costituisce il paradosso supremo della forza di Dio in Cristo, perché è il vertice della “follia” dell’amore che ama per primo fino a dare la vita e concedere il perdono. “I deboli – infatti – non possono mai perdonare” (Gandhi). Forti della forza crocifissa e viva di Dio, “anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11), certi che “con Dio noi faremo cose grandi” (Sal 60,14). Ma occorre giocare la propria vita nella fiducia che mai, nemmeno nei segmenti più tenebrosi dell’esistenza, verrà meno l’amore di Dio per noi, e rischiarla nella consapevole accettazione che nessun appoggio e nessuna sicurezza troveremo in noi stessi, e che tutto ci dovrà essere donato: questa fiducia e questa consapevolezza nascono dal coraggio e dalla capacità di leggere nella propria povertà e sofferenza la certezza di essere amati da Dio.

 

Conoscere e credere all’Amore

“Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16): l’uomo salvato dall’amore del Padre in Gesù, uscendo da se stesso, dai propri ritegni interiori più profondi, deve riconoscere con gioia che è questo amore che lo fa essere e lo definisce come dono per gli altri; accettandolo, non può non derivarne un atteggiamento di prossimità, un percorrere la vita come cammino verso l’altro. In quanto siamo amati da Dio e facciamo esperienza del suo gratuito amore, possiamo diventare capaci di metterci gli uni verso gli altri in atteggiamento semplice, amorevole e disponibile al servizio: “Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi” (1Gv 4,11-12). Se Dio in Cristo è stato così solidale con noi al punto da farci dono della sua vita, la conseguenza è l’impegno della solidarietà nostra nell’amore perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

Dio è amore e solo chi ama conosce Dio: “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,8). “Conoscere” nella Bibbia indica una relazione intima che arriva al cuore dell’altro, una “conoscenza interiore” che porta a farsi carico dell’altro, a prendere a cuore il cuore dell’altro. I Padri della Chiesa definivano la contemplazione, cioè la “conoscenza interiore” del mistero divino, notitia Dei cum amore: Dio si può incontrare solo nell’esercizio d’amore e per via di amore. Se Dio è Amore, la sua presenza deve essere contrassegnata dall’amore. Anzi, l’amore che Dio ha rivelato nel mandare suo Figlio a morire per noi e a darci la vita raggiunge la perfezione quando ci amiamo gli uni gli altri con quello stesso amore. E così l’amore è portato alla perfezione nel credente quando il credente è portato alla perfezione nell’amore.

 

Appello e compito

“In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio…” (1Gv 4,10): il movimento d’amore della storia parte da Dio; vocazione del credente è fare “suo” il movimento di Dio e mettere in marcia la sua libertà verso l’Amore più grande. Tale “vocazione” non è esteriore dall’uomo, ma si iscrive nelle fibre del suo essere e lo rende capace di dialogo con Dio, per una risposta consapevole e libera di collaborazione e di creatività. Dovuta alla libera iniziativa di Dio – “chiunque ama è generato da Dio” (1Gv 4,7) – la “vocazione” non è innanzitutto la realizzazione di se stessi, ma il modo di donare (personale ed unico) l’amore di Dio che è dentro ciascuno di noi. Vocazione è uscire fuori dal proprio guscio per ascoltare l’appello di Dio che si nasconde nella storia e in ogni uomo. Atteggiamento fondamentale di ogni uomo “in vocazione” è la ricerca. Il cristiano è l’uomo sempre in ricerca, sempre in ascolto della parola di Dio che lo chiama e via via gli si rivela. “Avere la vocazione”, come si usa dire, è soltanto affermare di avere saputo che c’è un appello e un compito al fondo della propria storia e quindi dichiarare la propria disponibilità a cominciare un cammino di ricerca verso la conoscenza di Dio per via di amore. Il cristiano è l’uomo che crede all’amore, ad un amore senza limiti e senza eccezioni, un amore instancabile e mai deluso, perché crede all’amore di Dio che si è fatto uomo per incarnare l’amore nell’esperienza umana di ogni giorno.

 

La sfida dell’Amore

Vocazione è la sfida di Dio all’uomo. Se l’uomo accetta in pienezza di dipendere e di affidarsi a Dio, ritrova se stesso nella pienezza del suo destino; se invece non accetta, cade nella contraddizione esasperante della disperazione di un sogno svanito per sempre. Il cristiano è l’uomo che accetta la sfida di Dio, e perciò accetta una situazione di continua tensione verso la pienezza dell’amore; queste tensioni sono la certezza dell’amore di Dio, della sua presenza, del suo aiuto, che spingono il cristiano a tentare in ogni momento della sua vita la sintesi fra il tempo e l’eternità, fra il limite e l’infinito, fra la morte e la vita, divenendo nella storia epifania dell’Amore più grande. Se con la “vocazione” si coglie come un chiamato e un eletto da Dio, con la sua libera e gratuita risposta a seguire Cristo in modo radicale deve poter orientare l’umanità e la storia in direzione di Dio: è questa la particolare assunzione di responsabilità dalla quale non può prescindere e per la quale gioiosamente riconosce e crede all’amore di Dio. Il “conoscere” e il “credere” nell’Amore diviene in lui “un’originaria forza di iniziare e per questo deve rispondere di ciò che fa in quel modo specifico che è la responsabilità” (R. Guardini).

Forti della forza dell’amore, i credenti – e i giovani in particolare – devono essere capaci di assunzione di responsabilità, a tutti i livelli, trovando il coraggio di osare, di camminare la vita assumendo le responsabilità della vita. “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi”; il coraggio di “credere” nell’Amore trasforma i credenti in uomini e donne propositivi, capaci di superare timidezze e paure, in grado di dialogare con competenza e convinzione con i loro contemporanei e con chiunque domandi ragione della loro speranza. Uomini e donne che possano dire con S. Agostino: “O Signore, io ti amo. Non ho dubbio, sono certo che ti amo. Tu hai percosso il mio cuore con la tua parola e ti ho amato”.