N.01
Gennaio/Febbraio 1996

Educare alla vocazione educando all’amore

Pur convinti che l’animazione vocazionale inizia ben prima dell’età adolescenziale, delimitare l’età di cui si parla diventa una necessità. Per non diventare qualunquisti o talmente generici che non si parla di nessuno.

Alcune scelte si maturano certo molto prima dell’adolescenza, dentro il gruppo, in famiglia, nell’esperienza religiosa, ma è importante che l’animatore/animatrice che accompagna la crescita del giovane e lo guida all’accoglienza della vocazione verifichi con serenità le basi umane che aprono il cuore a una relazione matura con Dio. Perché mai la vocazione è fuga o rifugio. Sempre è ricerca, risposta, dono, impegno. Nell’indicare alcuni spunti terrò presente lo scenario giovanile a partire dal triennio. È forse questa l’età in cui si mettono premesse serie per una ricerca vocazionale che può sfociare nella risposta consapevole.

Una seconda premessa è legata all’aspetto più specifico proposto dal tema della Giornata Mondiale per le Vocazioni del 1996: educare all’amore in un tempo che dell’amore conosce gli aspetti più marginali e che confonde nell’uso quotidiano sessualità, erotismo e amore significa sgombrare per prima cosa il terreno da alcune pericolose ambiguità.

È esperienza comune che in un gruppo giovanile capiti di incontrare sorrisini quando si parla d’amore. E che l’immaginario adolescente sia popolato di miti e immagini a fotocopia dei rotocalchi.

In un tempo che si vanta di aver abolito i tabù, i giovani sono più informati, ma meno educati di una volta. Perché l’educazione all’amore si fa prima dentro la famiglia, in un contesto di affettuosa attenzione alla persona. E la domanda di comunicazione resta uno degli interrogativi più forti: segna la vita di coppia e la vita religiosa, la vita personale e sociale dall’infanzia all’anzianità.

È tenendo conto di questo scenario, per quanto semplificato e appena accennato, che tenterò di tracciare alcuni percorsi educativi che portano verso una dimensione vocazionale della vita. Potrebbe sembrare che l’orizzonte dell’amore sia, a volte, lontano dal sentiero tracciato. Invece sono vie che si intrecciano nell’unità profonda del cuore di chi fa della vita il luogo quotidiano del proprio “sì” gioioso e libero.

I nuclei sono semplici spunti per l’animatore/animatrice vocazionale, che può arricchire i contenuti con la sua esperienza e la sua prassi di riflessione educativa. È importante però che nella verifica di una vocazione siano presenti nel loro insieme questi percorsi che fanno da crocevia per la maturazione umana e cristiana dei giovani.

 

 

Un corpo “tempio”

Sembra un discorso ammuffito, in un tempo in cui dire “corpo” è dire il mito della salute, della bellezza, dell’erotismo, del possesso sull’altro, della libertà senza regole. Oggi tutti si vantano di non avere tabù. Di affrontare il discorso sessuale con disinvoltura. Ma chi poi si avventura in discorsi più seri scopre che ci sono ferite che non guariscono, esperienze che lasciano il segno. Il rapporto sereno con il proprio corpo e l’accettazione della propria sessualità sono il frutto di un’azione educativa che non è delegata solo alla chiesa o al gruppo, ma che si radica nell’esperienza familiare. Tuttavia nessuna “consacrazione del cuore” è possibile se non si raggiunge un rapporto equilibrato con se stessi.

Per questo diventa sempre più importante verificare la consapevolezza del proprio essere uomo o donna in relazione, con uno sviluppo affettivo privo di complessi o sensi di colpa; sentire la sacramentalità del proprio corpo e la sua funzione comunicativa: la cultura della vita guarda con amore ogni espressione dell’amore e anche la rinuncia all’uso della sessualità è in una logica d’amore; avere gli strumenti conoscitivi sufficienti per non drammatizzare i problemi che possono insorgere a livello relazionale, psicologico o sessuale.

La verginità è dentro un mistero di pienezza e di bellezza che, alla fine, va ben oltre le dinamiche umane.

 

 

Un amore “libero”

“La vita fraterna in comunità” è un documento ricco di spunti educativi e spirituali. “Se è necessaria una certa maturità per vivere in comunità, è altrettanto necessaria una cordiale vita fraterna per la maturazione del religioso” (n. 37). Molti problemi che esplodono ad un certo punto hanno radici nella fase dell’adolescenza: in un’affettività repressa o narcisistica. A volte però sono il segno di un disagio comunitario o apostolico. La vita in comune ci chiede di educare il giovane ad un amore forte e libero: libero dalla volontà di possedere l’altro e tuttavia capace di tenerezza, di valorizzazione, d’umanità.

Coscienti che ciascuno di noi è a volte adulto, a volte adolescente o bambino ci si educa ad impegnarsi nella relazione con gli altri (gruppo e poi comunità) portando il carico del limite proprio e altrui; imparare a rispettare l’altrui libertà e ad assumersi la propria responsabilità; amare con tutta l’energia possibile, senza voler possedere l’altro o dominarlo; conoscere, anche con l’aiuto di persone esperte, i dinamismi del proprio cuore e a farli rientrare nel proprio impegno spirituale.

La vita adulta ci richiede di non attendersi sempre tutto dagli altri, ma piuttosto di allenarci a “portare gli uni il peso degli altri”. È questo il senso della “comunità alternativa” di cui parla il card. Martini.

C’è una bella icona di Bose che raffigura un frate giovane che si porta sulle spalle quello anziano: non è solo una “storia” del nostro tempo: è parabola di chi porta il peso della lentezza del cambiamento e la pazienza dell’attesa.

 

 

Un’esistenza aperta

Martin Buber è diventato famoso con un piccolo libro che ormai risale a molti anni fa: “Io e tu”. È un libro che mi ha incantato nel tempo in cui, giovane, riflettevo sul principio del dialogo. Solo più tardi ho scoperto che un’esistenza aperta porta ben oltre la soglia della realtà personale e comunitaria. E mi sembra fondamentale nel processo educativo passare attraverso questo crocicchio.

Significa, tra l’altro, restare innamorati della vita e della propria vocazione nonostante il logorio dei giorni, ed essere felici delle proprie scelte, oltre la fatica apostolica. Diventa importante: educare al dialogo; restare sensibili all’attesa, allo stupore, alla scoperta; guardare al mistero dell’altro con l’intima certezza che mai lo avremo sondato; conservare la disponibilità alle successive chiamate della vita; sentire il mistero della mediazione umana.

Un’esistenza aperta è consapevole di essere parte di “un sistema”, di una rete di relazioni. In un tempo di cambiamento è questo, forse, il “nodo” principale, che costituisce un difficile passaggio del vivere comune.

 

 

Un percorso oltre il groviglio

In occasione della consegna del premio “Diego Fabbri”, nel novembre scorso ho letto un’interessante intervista a Ermanno Olmi. Gli veniva chiesto che cosa teneva nel cassetto. Ha risposto: “Il plico di carte diventerà presto un film. Ma parlerò ancora dello smarrimento dell’uomo, che è in fondo la mia ricerca. Solo che io, pur vivendolo, ho dei punti di riferimento per poter trovare il mio sentiero”.

Credo che questa sia l’avventura di ogni persona, uomo o donna, non solo nell’adolescenza. La sfida è trovare i punti di riferimento che “unificano” la vita. Che raccolgono in esperienza le mille occasioni. Che trasformano i frammenti in un mosaico. Cosa significhi “trovare il proprio sentiero”, oggi, imparano a capirlo con grande sofferenza i giovani che nel supermercato delle offerte fanno molta più fatica degli adulti a trovare la propria immagine, quello che conta. E ci sono cose per cui gli sconti non valgono.

A livello educativo diventa importante conoscere le risorse e i limiti che ci portiamo dentro, con realismo e speranza; essere consapevoli di alcune idee-forza, capaci di esprimere le convinzioni di fondo della propria vita; riuscire a distinguere l’essenziale, a cui non si può rinunciare, dalle piccole cose che si possono tralasciare, su cui transigere; elaborare coscientemente il proprio stile nel vivere una certa vocazione o carisma; trovare il senso delle cose disparate, delle occupazioni a cui ci si dedica; impegnarsi ad andare in profondità, alle ragioni: è questione di fedeltà a sé e a Dio, sapendo che l’amore di Dio è già regalo sovrabbondante di tutti i giorni.

Il proprio sentiero è segnato dal sì che viene ridetto e scoperto quotidianamente. E la gioia è profondamente legata al fatto che non ci sfugge il senso del frammento che abbiamo tra le mani.

 

 

Un sogno di riserva

Una poesia-preghiera di Tonino Bello ha ormai fatto il giro dell’Italia: “Signore, dammi un’ala di riserva”. Un sogno di riserva è invece quella speranza che ci permette di vedere “oltre”. Educare i giovani a non appiattire l’esistenza sull’evidente non è facile. Alimentare lo stupore e la meraviglia in un tempo in cui la poesia e la bellezza sono spesso uccise dalla banalità è altrettanto problematico. Ma educare all’amore è sempre, in un certo senso, educare al mistero: è il mistero della persona, mai del tutto conosciuta, ma è allo stesso tempo, il mistero di Dio mai del tutto posseduto.

Come questo percorso educativo si intrecci con l’amore lo si può intuire facilmente. Significa pacificare il cuore nella certezza che si è fatto del proprio meglio; cercare senza soste la verità che ci trascende; concedersi tempi di riposo e di lavoro che rigenerino le forze del corpo e dello spirito; alimentare il cuore con pensieri “positivi”; conservare la passione per la ricerca, lo studio, la preghiera, la riflessione; non stancarsi di spostare il proprio obiettivo su prospettive di speranza; avere sempre la convinzione di essere “cosa buona” così da sentire che l’altro è un regalo.

Se è vero che avere un’ala di riserva ci permette di restare in volo anche quando ci sentiamo sfiniti, un sogno in più ci permette di essere sicuri che anche la notte, la prova, il dubbio ha un’alba, segnata dall’amore.

 

 

Un confronto sincero

Ho chiesto a un gruppo di giovani religiose cosa le aveva “affascinate” della vita così da farle decidere per uno stile che non è sempre così “all’avanguardia”. “La comunità”, mi hanno risposto. Di fatto la vita di gruppo è per i giovani una delle tavole di salvezza e anche a livello sociale è nelle associazioni e nei gruppi che si è elaborata la cultura giovanile con un suo proprio linguaggio (basti verificare i risultati della ricerca IARD negli ultimi anni). L’impatto tra l’ideale comunitario e la realtà, è, però, a volte, così traumatico da indurre il giovane religioso/a all’abbandono.

Nella fase educativa è cruciale imparare a passare dall’io al noi (Vita fraterna n. 39) proprio in un tempo in cui si esalta l’affermazione di sé, delle proprie aspirazioni; vivere già nel gruppo l’esperienza di avere un “compito” comune, una storia comune; fare esercizio di dialogo sereno, di rispetto dell’altro, di ricerca della volontà di Dio; sperimentare la festa e il perdono reciproco (secondo una felice espressione di Jean Vanier); accettare il confronto con gli educatori/formatori nell’unica direzione del discernimento della propria crescita.

“La mancanza e la povertà di comunicazione genera di solito l’indebolimento della fraternità… oltre che creare vere e proprie situazioni di isolamento e di solitudine” (Vita fraterna n. 32).

 

 

Il tempo per Dio

Fausto Colombo, docente all’Istituto superiore di comunicazione sociale di Milano, parlando del cambiamento culturale ha affermato: “una volta la società stabiliva dei tempi per la preghiera; c’erano le campane delle chiese a segnare il tempo da dedicare a Dio. Oggi chi vuole pregare deve scegliere di ritagliare il proprio tempo. Il ciclo lavorativo non si interrompe. La società non assicura più la coralità dell’invocazione”.

Questa constatazione nel processo di maturazione vocazionale acquista un significato che va molto oltre la pratica settimanale della Messa. Più matura la decisione di mettere Dio al centro della vita, più il giovane deve fare spazio a un dialogo profondo con il Signore che si esprime sia nella preghiera personale che in quella comunitaria.

La vocazione matura e si arricchisce se si riesce a pregare con verità, cioè a trovare il tempo per mettere Dio al primo posto, al cento delle scelte; fare lo sforzo e la ricerca di dare motivazioni non solo “razionali” alle difficoltà e ai problemi dell’esistenza; animare il sacrificio con l’amore apostolico; ritmare la propria giornata insieme a quella degli altri fratelli o sorelle per dire comunitariamente la nostra scelta di Dio; non perdere l’orizzonte dentro cui si colloca il servizio. Darsi un orario significa “imparare a dare tempo a Dio” (Vita fraterna, 13).

 

 

Un “tu” da amare

“Chi sei per me, Cristo?”. Questa domanda di Sant’Agostino diventa cruciale, a un certo punto della vita di un credente. Rispondervi in termini personali significa scoprire una dimensione di amore. Gesù non è un’idea. Né una serie di norme etiche. Gesù è un “tu” da amare. Con cui intessere legami di amicizia, di sponsalità. Con cui intessere un dialogo personale.

Lo spessore della propria vita di fede si misura, ad un certo punto, su una relazione intensa e personale con Gesù; un dialogo interiore alimentato continuamente e coscientemente; un senso della sacramentalità diffusa, che ha il suo culmine nell’Eucaristia e nella Riconciliazione.

Ogni legame d’amore riconosce l’alterità e la compagnia. L’abitudine ad “essere con” permette di superare solitudini e a riconoscere mediazioni e doni. “Non c’è differenza tra amare Cristo e amare l’umile e peccatrice Chiesa di ogni giorno” (Magistero di S. Teresa d’Avila).

 

 

Una fedeltà che dura

La crisi delle giovani coppie sta facendo notizia tanto quanto il quoziente zero delle nascite. E nella vita religiosa colpisce che tanti giovani, dopo anni di entusiasmo, si ritrovino stanchi e delusi. “Cosa manca alle comunità?”, ci si chiede. Se è vero che le comunità vanno attrezzate al cambiamento culturale e a forme più flessibili di organizzazione della vita, con una tolleranza del pluralismo diversa dagli anni passati, tuttavia, anche sul versante dell’educazione alla fedeltà, va avviata una seria riflessione.

Non esiste una vocazione in cui la dimensione del limite non diventi evidente. In cui le difficoltà e le incomprensioni non affiorino, anche in maniera pesante. È solo l’approfondimento dell’amore e della risposta personale di fede che trasforma la scelta iniziale in un consapevole “sì”, che sostiene anche la durezza della prova, che mette la “missione” al di sopra di tutto e che guarda a Dio come l’unica ragione per cui si abbraccia un certo stile di radicalità.

L’amore di una persona matura ha questa dimensione della fedeltà quando sa riprendere il proprio cammino; far fronte alla delusione; perdonare e sperare.

“Non dobbiamo piangere sulle nostre imperfezioni perché non veniamo giudicati per questo. Il nostro Dio sa che, da molti punti di vista, siamo zoppi e a metà ciechi. Non vinceremo mai la corsa alla perfezione nei giochi olimpici dell’umanità! Ma possiamo camminare insieme con speranza e rallegrarci di essere amati nelle nostre spaccature. La comunità Gesù ce la dà come terra nella quale siamo chiamati a crescere e a servire” (Jean Vanier, Il corpo spezzato).

 

 

Cristo al centro della vita

Ci sono tante storie di giovani che ad un certo punto sono passati da una carriera avanzata, dalle aule dell’università, dai laboratori di ricerca alla clausura o al ministero sacerdotale. Così ci sono anche storie di ragazzi e ragazze che dalla devianza sono approdati alla vocazione. Cosa c’è di straordinario per decidere di dare una virata? È scoprire che bisogna mettere Qualcuno al centro della propria esistenza.

Educare a questa prospettiva è determinante nella crescita vocazionale. Pena il perdere il senso di quello che si sta facendo. Vengono i tempi della stanchezza, del buio, della sofferenza. Ma se resta chiaro che Dio è la ragione unica ed ultima delle proprie scelte, non si abbandona il campo perché non si vede crescere nulla.

Questa insistenza su Dio dice che il sentiero educativo è dentro quello spirituale: impossibile scindere. Impossibile crescere come creature senza questo spessore della fede. E si sperimenta che l’essere credenti ci fa più vicini a ogni persona, capaci di tenerezza e compassione.

“Ripartire da Dio” è la proposta del Card. Martini per i cristiani della sua Diocesi. È un discorso che corona il percorso pastorale di molti anni. Egli indica una strada che mi sembra esigente: “Ai credenti, tentati di contrapporre al nichilismo postmoderno, orfano dell’ideologia, un cristianesimo dalle certezze facili vorrei proporre la fede indagante: un abbandonarsi credente al primato di Dio che non rinuncia a porsi le domande cruciali della vita, a vivere la sofferenza, a portare la Croce, ma in compagnia del Dio che soffre”.

È sempre Martini che indica il percorso: non dare per scontato nulla, non cullarci nella presunzione di sapere già ciò che è perennemente avvolto nel mistero mettere i nostri progetti comunitari (anche sociali) sotto la signoria di Dio e misurarli solo sul Vangelo restare sereni rispetto ai frutti del nostro impegno personale o comunitario.

 

 

Conclusione

Quando si delineano percorsi, si capisce bene che oltre l’orizzonte si apre qualcosa. Ho trovato un’affermazione interessante, durante il VI Convegno dei Direttori dei Centri Diocesani Vocazionali dell’autunno scorso. Mi sembra possa essere la prospettiva che si apre per un cammino di convergenza nell’educazione di vocazioni. “È nella comunione che si aiutano i giovani a leggere la vita nell’ottica del dono di sé e quindi di un atteggiamento vocazionale. Le attività educative vanno tolte dalle secche della riflessione astratta e orientate in una dimensione di ascolto, di dialogo, di risposta, a partire dall’esperienza dei giovani”.

La convergenza tra pastorale giovanile, pastorale vocazionale, caritas e impegni di servizio può aprire nuove strade sia per educare il cuore, che per aprire l’esistenza a un dono senza confini.