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Il Trono di Dio

Riportiamo alcuni brevi stralci del discorso tenuto da Timothy Radcliffe al Congresso degli abati benedettini riuniti all’abbazia romana di Sant’Anselmo, il 6 settembre 2000. Il discorso è pubblicato nel libro Testimoni del Vangelo (Qiqajon 2004, pp. 237-259) ed è lì indirizzato a tutti i monaci.

Secondo l’autore, la vita monastica può svelare la presenza di Dio solo perché ha al suo centro uno spazio vuoto, “una sorta di centro cavo, nel quale Dio può vivere e venire intravisto”.

 

La gloria di Dio si mostra sempre in uno spazio vuoto. Quando i figli di Israele uscirono dal deserto, Dio venne con loro seduto nello spazio tra le ali dei cherubini, sopra il seggio della misericordia. Il trono della gloria era quel vuoto. Non era che un piccolo spazio, dell’ampiezza di una mano. A Dio non serve molto spazio per mostrare la sua gloria. […]

Negli ultimi anni, gli astronomi hanno esplorato i cieli in cerca di nuovi pianeti; fino a tempi molto recenti non erano in grado di vedere un pianeta direttamente, potevano però individuarlo grazie a un’oscillazione nell’orbita di una stella. Forse con coloro che seguono la Regola di Benedetto accade qualcosa di simile; solo che voi siete i pianeti che svelano quell’invisibile stella al centro del monastero. L’orbita misurata della vostra vita indica il mistero che non possiamo vedere direttamente. “Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele” (Is 45,15). Mi piacerebbe suggerire, quindi, che l’invisibile centro della vostra vita viene rivelato nel modo in cui vivete. La gloria di Dio si mostra in un vuoto, uno spazio vacante nelle vostre vite. (pp. 239-240)

 

Nel suo discorso, Radcliffe propone poi tre aspetti che “aprono questo vuoto e creano uno spazio per Dio”: le vite dei monaci non hanno uno scopo particolare, sono vite che non conducono da nessuna parte, e infine sono vite di umiltà.

 

Esserci

Il fatto più evidente, riguardo ai monaci, è che non fate nulla in particolare. Coltivate, ma non siete agricoltori. Insegnate, ma non siete docenti di scuola. Potete anche gestire ospedali, o missioni, ma non siete principalmente medici o missionari. Siete monaci, che seguono la Regola di Benedetto. Non fate nulla in particolare. I monaci sono di solito persone molto indaffarate, ma gli affari che vi occupano non costituiscono il centro e lo scopo delle vostre vite. Il cardinale Hume ebbe a scrivere una volta: “Noi non ci consideriamo dotati di una particolare missione o funzione nella chiesa. Non ci proponiamo di cambiare il corso della storia. Ci siamo, semplicemente, quasi per caso, da un punto di vista umano. E, per fortuna, continuiamo a esserci semplicemente”[1]

È questa assenza di uno scopo esplicito a svelare Dio quale scopo segreto, nascosto, delle vostre vite. Dio è svelato come invisibile centro della nostra vita, quando non cerchiamo di dare altra giustificazione per chi noi siamo. Il nucleo della vita cristiana è semplicemente essere con Dio. Gesù dice ai discepoli: “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). I monaci sono chiamati a rimanere nel suo amore. (pp. 240-241)

 

Non andare da nessuna parte

Le vite dei monaci risultano enigmatiche per chi ne è al di fuori, non solo perché voi non fate nulla in particolare, ma anche perché la vostra vita non porta da nessuna parte. Come per ogni membro di un ordine religioso, le vostre vite non assumono forma e significato ascendendo una scala di successive promozioni. Noi non siamo che fratelli e sorelle, frati, monaci e monache. Non possiamo mai aspirare a essere più di questo. Un soldato, un accademico di successo, si elevano di rango in rango. La loro vita dimostra di avere valore poiché vengono promossi professore, o generale. Per noi, però, non è così. […]  

Per la maggioranza delle persone, nella nostra società, una vita senza promozione non ha senso, perché vivere è essere in competizione per il successo, avanzare o perire. E così le nostre vite rappresentano un enigma, un punto interrogativo. In apparenza, non conducono da nessuna parte. Uno diventa monaco o frate, e non ha più bisogno di essere altro. […] Le nostre vite hanno significato proprio grazie a un’assenza di progressione, che indica Dio quale fine e meta delle nostre vite. (pp. 247-249)

 

Lo spazio all’interno

Infine, arriviamo a quello che vi è di più fondamentale nella vita monastica, la cosa più bella e la più difficile a descriversi, cioè l’umiltà. È quanto risulta meno immediatamente visibile alle persone che vengono a visitare i vostri monasteri, eppure costituisce la base di tutto. È l’umiltà a creare uno spazio vuoto per Dio, in cui egli può dimorare e in cui si può vedere la sua gloria. È l’umiltà, in definitiva, a rendere le nostre comunità il trono di Dio. […]

Quando pensiamo all’umiltà, il nostro può essere un pensare intensamente personale e privato: io che guardo a me stesso e vedo quanto sono privo di valore, ispeziono la mia interiorità, contemplo le mie qualità di verme. Si tratta, a dir poco, di una prospettiva deprimente. Forse ciò a cui Benedetto ci invita è qualcosa di molto più liberante: costruire una comunità in cui veniamo liberati dalla rivalità, dalla competizione e dalla lotta per il potere. E un nuovo genere di comunità, strutturata sul reciproco rispetto, sulla mutua obbedienza. E una comunità al cui centro non sta nessuno, ma vi è lo spazio vacante, il vuoto che è riempito della gloria di Dio. Tutto ciò implica una sfida profonda all’immagine moderna dell’io, che è quella di un io solitario, assorbito in se stesso, centro del mondo, fulcro attorno a cui tutto gravita. Al cuore della sua identità c’è la coscienza di sé: “Penso, dunque sono”. La vita monastica ci invita ad abbandonare il centro, e a cedere all’attrazione gravitazionale della grazia. Ci invita a essere decentrati. Ancora una volta troviamo che Dio si svela in uno svuotarsi, in un vuoto, e stavolta nel centro della comunità, quello spazio cavo che è riservato a Dio. Dobbiamo creare una casa in cui la Parola venga e dimori tra di noi, uno spazio in cui Dio possa essere. Fino a quando saremo in competizione per il centro, non vi sarà spazio per Dio. Umiltà, perciò, non significa disprezzare me stesso, pensare che sono qualcosa di orribile. Significa svuotare il cuore della comunità per creare uno spazio in cui la Parola possa piantare la sua tenda. (pp. 253-255)

 

Conclusione

La gloria di Dio necessita sempre di uno spazio, un vuoto, se intende mostrarsi: il vuoto tra le ali dei cherubini nel tempio; la tomba vuota; Gesù che scompare a Emmaus. Quando voi lasciate che simili spazi vuoti vengano scavati nelle vostre vite, grazie all’essere persone che non sono lì per un motivo particolare, le cui vite non portano da nessuna parte, e che affrontano la propria creaturalità senza paura, allora le vostre comunità saranno troni per la gloria di Dio. Ciò che speriamo di scorgere nei monasteri è più di quanto sappiamo dire. La gloria di Dio sfugge alle nostre parole. Il mistero infrange le nostre piccole ideologie. Come Tommaso d’Aquino, comprendiamo che tutto ciò che possiamo dire è soltanto paglia. Questo significa che ci è dato solo di tacere? No, perché i monasteri non sono soltanto luoghi di silenzio, ma di canto. Dobbiamo trovare modi di cantare, ai limiti del linguaggio, sul margine del senso. Questo è ciò che Agostino chiama il canto del giubilo (Cfr. Agostino, Esp. sul Salmo 32,11,1,8).(p. 258)

 

(Timothy Racliffe, Testimoni del Vangelo, Qiqajon 2004, pp. 237-259)

 

 

[1] B. Hume, In Praise of Benedict, Hodder and Stoughton, London 1981, p. 23.