N.04
Luglio/Agosto 1996

Accompagnare i giovani oggi: possibilità e rischi

Le riflessioni che seguono sono il tentativo di una lettura sapienziale della condizione giovanile. Intendono mettere a fuoco qualche idea complessiva che sia, a un tempo, radicata nel vissuto, illuminata dalla Parola di Dio e in grado di fornire spunti per l’accompagnamento[1]. I contenuti sono stati raccolti intorno a tre immagini evangeliche riguardanti, a diverso titolo, l’“essere giovane”: il giovane ricco (Mt 19,16-22), il giovane muto e sordo (Mc 9,14-29), la “giovinezza” di Pietro (Gv 21,15-23). Queste tre “figure” hanno fatto da catalizzatore di spunti diversi riferiti alla cultura di cui i giovani sono parte (l’orizzonte delle relazioni), alla percezione che hanno della loro persona (l’orizzonte dell’identità) e al loro atteggiamento nei confronti di ideali di vita trascendenti (l’orizzonte dei valori). Ad ognuno dei tre punti è associato qualche suggerimento per ben “accompagnare”.

 

Il giovane ricco: l’orizzonte delle relazioni

Come per tutte le persone i giovani non possono essere compresi prescindendo dall’ambiente in cui sono inseriti, dalla cultura di cui sono figli. Chi sono dunque i nostri giovani se li consideriamo all’interno dello scenario che li circonda? In riferimento all’episodio evangelico, la figura del “giovane ricco” (Mt 19,22) può adeguatamente venirci in aiuto. Essa ci aiuta a mettere in evidenza due tratti salienti dell’“aria culturale” che respiriamo. 

Un primo dato che contraddistingue la nostra società è senza dubbio la sua ricchezza economica. Come nazione stiamo attraversando una stagione abbastanza burrascosa; ciò non toglie che in gran parte le nostre città siano segnate dal benessere, siano “ricche”: di soldi, di beni, di occasioni. Tutto ciò può avere un significato positivo, dischiude infatti un raggio di esperienze davvero unico. In questo senso i giovani di oggi sono dei privilegiati. Due esempi per rendere l’idea: il ventaglio di possibilità di studio che si trovano a disposizione è decisamente ampio ed è abbastanza esteso, pur con tragiche differenze tra le diverse zone del paese, anche l’accesso ai beni economici. Per molti, anche se non certo per tutti, la ricchezza in termini di cultura e di guadagno è un fatto a portata di mano.

La ricchezza e le possibilità che essa offre non sono però solo “occasione per”, spesso sono ritenute un fine ultimo di cui saziarsi. La ricchezza, da opportunità per un più alto compimento delle nostre città, cioè, non sono solo città ricche, sono anche città “borghesi”. Non vivono la loro ricchezza con la magnanimità di chi è consapevole della natura relativa e gratuita di ciò che possiede. I soldi e le possibilità sociali che essi dischiudono tendono ad essere gestiti nella logica concupiscente dell’accumulo e dell’immagine.

Un secondo tratto della cultura che incide notevolmente sui giovani è la ricerca del benessere. Una volta soddisfatti i bisogni urgenti della sopravvivenza, le nostre città propongono di vivere piacevolmente. Il desiderio di vivere bene non è certo un male e lo stimolo per una vita più eccellente rispetto al semplice sopravvivere può essere di grande utilità in sintonia con l’esortazione paolina: “Fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8).

Anche per questo secondo elemento non si può però dimenticare la forte ambiguità con cui tende ad essere vissuto. La ricerca del benessere si incanala spesso più verso il piacere che verso la gioia: dà “piacere” tutto ciò che gratifica me, soddisfacendo i miei istinti; dà gioia tutto ciò che mi apre a un tu, svelandomi un valore. Il primo dinamismo rinchiude nella logica del bisogno, il secondo apre a quella del desiderio e mentre nell’orizzonte della vera gioia il piacere ben ordinato viene valorizzato, la prospettiva del piacere ridotta a se stessa è dialetticamente opposta alla scoperta della gioia del cuore. Va interpretato secondo tale criterio il culto esagerato della bellezza fisica, della prestanza atletica, ecc. Sono deviazioni tendenzialmente narcisistiche del desiderio umano che è rivolto a ciò che è bene, vero e bello.

In conclusione si può dunque dire che ricchezza economica e ricerca del benessere sono tratti di cui tanti giovani sono imbevuti. Si trovano nella condizione di gestire molti beni, il problema è investirli correttamente; esiste infatti la possibilità che percorsi sbagliati contribuiscano a un esito simile a quello dell’episodio evangelico che dà il titolo a questo primo punto: “Gli disse Gesù: Se vuoi essere perfetto, va vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze” (Mt 19, 21-22).

Propongo qui due attenzioni da avere presenti affinché il risultato delle possibilità sopra descritte non sia la tristezza evocata dal brano del Vangelo di Matteo.

In primo luogo è bene aver chiaro che tutto ciò che ricchezza economica e ricerca del benessere portano con sé si iscrive nell’ambito dei “valori naturali”. Tale ordine di valori non conduce per natura sua a quello dei “valori trascendenti”. Con ciò non si intende formulare un giudizio negativo sui beni di cui i giovani possono godere, la critica riguarda l’orizzonte in cui vengono inseriti, che rischia di essere decisamente troppo stretto. Può cioè succedere che ai giovani si proponga tanto a livello di gratificazioni superficiali mantenendo nello stesso tempo un tremendo silenzio su ciò che è essenziale per vivere da persone umane. Occorre riequilibrare la situazione imparando a criticare la cultura “ricca” di provenienza nella misura in cui si autopropone come un idolo e intraprendendo esperienze in cui i valori trascendenti del Vangelo siano annunciati e vissuti in modo oggettivo, continuato, concreto.

In secondo luogo è utile ricordare che non ci si rende conto della relatività di un bene e della schiavitù che ad esso ci lega finché non si decide di farne a meno. Allora si tocca con mano quanto sia difficile il distacco anche dalle cose più banali. Accettata questa fatica è però più facile aprirsi a ciò che relativo non è e che tocca davvero il cuore. Questa dinamica è fortemente necessaria, per questo occorre riscoprire l’importanza di esperienze di sacrificio e di privazione. Se in tempi di povertà la nostra pastorale proponeva occasioni di “abbondanza” (prime forme di utilizzo dei mass-media, strutture sportive e ricreative uniche nel loro genere, possibilità di gite turistiche popolari, ecc.), oggi dall’ambito ecclesiale dovrebbero venire proposte di sobrietà e di rinuncia nei confronti di tutto ciò che è inutile e superfluo. È infatti necessario essere toccati nel vivo, nei propri bisogni immaturamente gratificati, per essere realmente coinvolti anche emotivamente, non solo con la testa. C’è il rischio che qualcuno scelga di andarsene – le cipolle d’Egitto sono sempre appetitose – ma il Vangelo dona e chiama alla fatica della libertà.

 

Il giovane muto e sordo: l’orizzonte dell’identità personale

C’è un secondo mondo con il quale dobbiamo fare i conti nella fatica di capire chi siano i giovani d’oggi. È un continente di più difficile esplorazione rispetto al precedente: si tratta dell’ambito dell’identità personale. Esso, visto dalla parte del soggetto che si interroga, corrisponde all’oggetto di domande del tipo: “Chi sono io? Quali sono le mie reali capacità? Sono degno di stima? Quanto è forte la mia volontà? Sono davvero in grado di vivere in modo autonomo?”. Si tratta qui di riflettere su come si colgono i nostri giovani quando fissano la loro attenzione sulla percezione che ognuno ha di se stesso. Non è certo un compito facile, qualche elemento può però essere raccolto intorno all’immagine evangelica del giovane che viene liberato da uno “spirito muto e sordo” (Mc 9,25)[2]. Anche in questo caso saranno evidenziati due elementi.

Quando vengono descritti, con ricordi o documenti, i giovani di qualche anno fa (si pensi alla generazione del ‘68) risulta chiara la diversità dei giovani di oggi nei loro confronti. Per sottolineare la differenza qualcuno trova efficace parlare di un certo mutismo intendendo con ciò una difficoltà a parlare, a prendere posizione, ad esporre le proprie idee. Se da una parte è vero che le urla e i cortei di rivendicazione non sono un simbolo ben calzante per i giovani di oggi, d’altra parte non è vero che non ci sia in essi desiderio di parlare, bisogno di confrontarsi e voglia di prendere posizione. La diagnosi di “mutismo” pare invece più azzeccata se con essa si intende fare riferimento non tanto al “prendere la parola”, quanto al “tenere il discorso”: il problema per i giovani non è tanto il dire qualcosa, ma il tradurlo in progetti efficaci e duraturi.

Non mancano loro le buone intuizioni, sono invece più in difficoltà nel farle diventare vita concreta, nel sostenere la fatica della loro mediazione attraverso le trame complesse e ordinarie della quotidianità. Sono del resto poco sollecitati e stimolati dalla cultura che li circonda a gestire in proprio qualche cosa, poco viene affidato con autentica fiducia alla loro piena responsabilità.

In questa particolare forma di “mutismo” si coglie un aspetto preoccupante, cioè il rischio di un effettivo blocco dell’espressività. La non effettiva assunzione di responsabilità è insieme causa ed effetto del fatto che i giovani sono in gran parte “sconosciuti a se stessi”. Spesso non hanno la capacità di introspezione sufficiente per cogliere i loro talenti al fine di esprimerli e investirli per ideali realmente significativi. Si trovano in gran parte soli in questa impresa di discernimento intimo, terribilmente soli nel tentativo di darsi una “struttura” interiore e di mettere ordine nella loro vita. Questo dato di fatto può condurre i giovani in vicoli ciechi e pericolosi. Uno di questi, il più diffuso, è l’abitudine a vivere in una grande indisciplina di sentimenti ed emozioni. È abituale per molti il lasciarsi guidare in maniera selvaggia da “ciò che sento” o dal “mi piace/non mi piace”. Si pensi, ad esempio, alla sfera delle relazioni di innamoramento e di intimità. C’è anche un altro vicolo cieco in cui diversi si vengono a trovare: è la strada dell’autolesionismo di cui le dipendenze da droghe e da alcool, o gli atti di violenza, sono un segno drammatico.

Il “mutismo” dei giovani racchiude però anche delle potenzialità, sintetizzabili in uno spiccato interesse per le questioni che riguardano l’interiorità. Se non si esprimono all’esterno attraverso impegni consistenti e duraturi, è anche perché intendono capire meglio ciò che succede all’interno di loro stessi. Questa possibile “svolta verso l’interiorità” viene spesso etichettata come “intimismo”, può darsi che sia così, ma è tuttavia vero che le battaglie più decisive, quelle che determinano anche gli esiti e gli scenari sociali, si giocano sempre nel silenzio di una mente che pensa e di una coscienza che discerne.

Oltre al mutismo le ricerche indicano che è tipica dei giovani una certa sordità intesa come distacco da ideali di lunga gittata e da un’adesione religiosa che non sia parziale e oscillante. Non pare ingiustificata l’applicazione alla attuale generazione giovanile del detto evangelico: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto” (Mt 11,17). Tante proposte valide si infrangono spesso sul muro di gomma di un’indifferenza diffusa e paralizzante nei confronti della quale la capacità di reagire implicherebbe una buona dose di eroismo. Anche su questo è però necessario andare più in profondità per coglierne le valenze regressive e gli aspetti promettenti.

È senz’altro negativa e preoccupante la scarsa reattività di tanti giovani di fronte a quelle che sono prospettive esigenti e profonde. Non c’è adesione, ma nemmeno opposizione decisa, spesso tutto si risolve nell’ironia e nella banalizzazione dei valori trascendenti. L’esito soggettivo di questa non adesione a nulla è un’esistenza priva di progettualità globale e preda del disorientamento. Alla radice ci sta l’atteggiamento messo in rilievo nell’Apocalisse circa la Chiesa di Laodicea: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3,15-17).

La sordità che è qui in questione, però, nasconde anche qualcosa di positivo, mi riferisco alla radice di disincanto da cui prende le mosse. Troppe proposte ideologiche, troppi falsi idoli, troppi inganni hanno preteso di essere ascoltati come fonti di sapienza senza averne reale merito. Da qui può essere nata una certa riluttanza a prestare fede a chi si propone come “maestro”. Se ciò significa che i giovani sanno essere critici di fronte alle proposte che vengono loro fatte, è un segno positivo da accogliere e valorizzare. In ogni caso è certo che qualsiasi proposta deve accettare di essere passata al vaglio della coerenza sia circa lo spessore oggettivo del messaggio che la anima sia a riguardo della testimonianza di vita di chi la annuncia.

Concludendo il secondo punto è bene chiedersi quali attenzioni avere per aiutare a vivere le dinamiche di mutismo e di sordità sopra descritte nei loro elementi maturi anziché in quelli improduttivi. Suggerisco due piste che mi paiono utili affinché ogni giovane possa “rimettersi in piedi”, cioè acquistare la capacità di esprimere tutto se stesso a servizio di una Parola ascoltata e accolta per l’autorità e la potenza che porta con Sé. È stata questa l’esperienza che ha dato il titolo al secondo punto della riflessione: “Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: Spirito muto e sordo, io te l’ordino, esci da lui e non vi rientrare più. E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: È morto. Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi” (Mc 9,25-27).

Ecco dunque le due attenzioni che propongo.

Una prima scelta indispensabile è quella di insegnare l’arte del dirsi e dell’ascoltare. L’una e l’altra cosa sono operazioni assai difficili e per niente spontanee, eppure necessarie per crescere interiormente. Ciò significa, in primo luogo, che occorre cercare e scovare adulti maturi davanti e insieme ai quali i giovani possano mettere in parole i tumulti del proprio cuore, per poterli oggettivare e prendere in mano con più chiarezza. Finché una cosa non è “detta”, significa che non è né “conosciuta” né tantomeno “accolta”, di conseguenza non se ne è padroni e la si teme. Così è spesso dei vari “spiriti” che muovono il nostro animo. Secondariamente occorre creare luoghi e occasioni di reciproco e amichevole ascolto. Ascoltare richiede anzitutto tempo e calma; si fonda, inoltre, su atteggiamenti profondi: empatia, accoglienza, conoscenza di sé (per non scaricare addosso ad altri problemi che sono personali); tutto ciò trae origine da uno sguardo di fede che permetta di vedere in ognuno un figlio di Dio, qualcuno per cui Cristo Gesù è morto in croce.

Necessario mi pare anche un secondo elemento: grande rispetto della libertà. Il mutismo e la sordità sopra richiamati, nella misura in cui esprimono debolezza e fragilità, rendono i giovani facile oggetto di dinamiche di manipolazione e questo accade a tutt’oggi, sia dentro che fuori la Chiesa. È infatti forte la tentazione di dare le dimissioni dalla fatica di pensare e decidere con la propria testa per affidarsi alle cure di qualche “guru” che colpisce per la sua presunta autorevolezza, ma che non rispetta la singolarità e l’autonomia di ognuno. Chiunque, più o meno coscientemente, utilizza tali dinamiche, non si pone certo al servizio delle persone e del Vangelo; se lega a sé le persone, non le indirizza alla sequela di Cristo Gesù, unica Verità che rende liberi.

 

La “giovinezza” di Pietro: l’orizzonte dei valori trascendenti

Rimane un ultimo mondo da esplorare, quello dei valori trascendenti. Il riferimento esplicito è qui alla persona di Gesù Cristo e alla vita che la grazia del Vangelo dischiude. Qual’è l’atteggiamento dei giovani di oggi nei confronti di tale orizzonte? Molte sono le risposte date dagli studiosi (secolarizzazione, religiosità post-cristiana, ecc.) e ognuna di esse meriterebbe attenzione. Propongo qui solo due spunti, volti a mostrare che l’attuale situazione giovanile è per alcuni aspetti paragonabile alla “giovinezza di Pietro” evocata dal Risorto nel dialogo conclusivo con l’apostolo: “In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18).

Un primo tratto della “religiosità” che caratterizza i giovani è la tendenza al sincretismo. È presente infatti la tendenza ad acquisire atteggiamenti religiosi vaghi e diversificati quanto a provenienza e a significato. Essi vengono assunti anche quando non sono logicamente riconducibili ad un sistema organico e coerente al suo interno. Può così capitare che essi si trovino a sostenere l’ideale ecologista, l’utilità del volontariato, l’importanza della pace, la bellezza di esperienze mistico-sacrali, ecc. senza preoccuparsi gran che del significato che ciascuno attribuisce a questi diversi elementi e senza chiedersi se e come essi siano tra loro ragionevolmente correlabili.

In positivo tutto ciò significa che non c’è una chiusura preconcetta nei confronti di prospettive di valore e nemmeno un rifiuto di visioni che trascendano il semplice qui ed ora. Il bisogno di religiosità è forte e, a saperlo leggere, è manifestato con sufficiente chiarezza. Non mi pare che la nozione di “secolarizzazione” corrisponda effettivamente alla sensibilità giovanile attuale, mi sembra invece più evidente la spinta verso una “sacralità” bisognosa di essere educata ed evangelizzata. È diffusa una grande fame d’assoluto, di qualcosa di stabile che dia senso alla vita.

Va tuttavia rilevato che la religiosità sopra descritta si muove spesso nella logica del bisogno soggettivo, nella sfera dell’irrazionale e nell’ambito dell’emotività. Non si può dire che i giovani non credano in niente; tuttavia è vero che spesso loro stessi non riescono ad identificare con chiarezza in che cosa o in chi credono. La fede di tanti appare quasi senza oggetto, senza un “Tu”; è una religiosità dell’io che rischia di incanalarsi verso strade egocentriche e difensive. L’adesione a movimenti esoterici tipici della “New Age” è un segno di tale forte rischio.

Un secondo tratto contraddistingue il rapporto dei giovani con i valori trascendenti, è l’ignoranza su Gesù Cristo. Con ciò non intendo dire che non abbiano mai sentito parlare di Lui, anche se questa possibilità diventa sempre meno remota. Mi riferisco piuttosto al fatto che di Lui molti hanno spesso una percezione gnostica. Gesù Cristo, cioè, non è colto anzitutto come una persona; è piuttosto inteso come una cifra, un termine simbolico, l’espressione di un insieme di buone idee o di proposte morali, un’ideologia tra le tante a cui accedere per gestire e amministrare autonomamente la propria salvezza.

Tale situazione ha in sé il risvolto positivo che la novità del Vangelo può essere accolta nella sua purezza. Le generazioni precedenti dovevano fare i conti, forse, con una conoscenza “eccessiva” di Gesù che necessitava di essere purificata dalle incrostazioni di una pietà datata e ridondante rispetto al centro dell’annuncio pasquale. Oggi non è più così, per molti giovani si tratta proprio di primo annuncio della “carne” di Gesù e della sua presenza di Risorto.

Evidentemente la situazione non è rosea e non ci si può illudere. Da una parte c’è la tendenza verso una religiosità “sacrale”, dall’altra di Cristo Gesù si ha spesso una visione ridotta ed intellettualistica. Ma è precisamente tra questi due poli che si ripete la sfida che da sempre il Vangelo rivolge all’umanità: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1,22-24). Ciò che pare in crisi è la fede specificamente cristiana.

In conclusione si può dire che il sincretismo e l’ignoranza sulla “carne” di Gesù tendono a chiudere in una situazione in parte simile alla “giovinezza” di Pietro evocata dal Risorto: “cingersi la veste da soli”, muoversi cioè in una prospettiva di autosalvezza. L’annuncio che siamo “figli nel Figlio” comporta invece abbandono e fiducia; riguardo alla salvezza significa lasciare che “un Altro ci cinga la veste” e ci conduca. È per Grazia che si produce tale cambiamento, non è certo il frutto di strategie umane. I suggerimenti che seguono intendono sorreggere l’accoglienza di tale dono.

Una prima nota importante è la necessaria ripresa dell’annuncio evangelico. La pastorale giovanile è fatta di tanti momenti ed è necessariamente graduale. Tra questi momenti ci stanno senz’altro bene le feste da organizzare, le attività da programmare, ecc. Ma una cosa pare a me certa: della fede cristiana occorre parlare, con ampiezza, in ascolto del testo biblico, iniziando alla preghiera. Non bastano momenti di incontro e fraternità se manca l’occasione di un annuncio esplicito e la guida verso una sua interiorizzazione.

La seconda osservazione riguarda il metodo dell’annuncio, il più adeguato è quello dell’“intrinsecismo”[3]. Tale metodo si oppone a quello dell’“estrinsecismo” in base al quale l’oggettività della fede viene presentata come qualcosa che sta al di sopra della persona e alla quale si aderisce mediante un impegno volontaristico. Secondo questo modello il Vangelo si intromette nell’umanità della persona, quasi come un corpo estraneo che chiede di essere accettato e alle cui regole conformarsi. L’“intrinsecismo” si muove su una linea ben diversa. Anche secondo questo modello l’oggettività della fede è un “oltre”, ma nel senso che si propone come dono; tale dono ha la prerogativa di rispondere alle attese più profonde di ogni persona, creata “in Cristo”: incontrarlo significa dunque diventare più pienamente persone umane. Concretamente, ciò che occorre mettere in moto non è primariamente la volontà, ma il desiderio: suscitando domande profonde, facendo emergere la nostalgia di assoluto che ognuno porta nel cuore, criticando ogni risposta superficiale.

 

Note

[1] I contenuti sono il frutto di una prolungata riflessione condotta insieme con parecchi giovani della Diocesi di Parma. Essendo nati “in situazione” hanno il pregio di fare riferimento a giovani concreti, in carne ed ossa, ma hanno pure il limite di non essere attribuibili immediatamente a tutto l’universo giovanile. Ciò vale in particolare, mi pare, per il punto 1: “Il giovane ricco”.

[2] L’immagine e alcuni criteri di lettura sono suggeriti in: C.M. MARTINI, Tu mi scruti e mi conosci, Ancora, Milano 1986, pp. 29-40. 

[3] Cfr. A. MANENTI, Vivere gli ideali: tra paura e desiderio, EDB, Bologna 1988.