Ricco solo del Padre: la povertà secondo Gesù
Povero, poverissimo, ma certamente non il più povero nel contesto socio-economico del suo ambiente; predica la beatitudine della povertà ma ha al seguito alcune donne benestanti che lo assistono con i propri beni (cfr. Lc 8,3) e il suo gruppo dispone di una cassa (cfr. Gv 12,6): davvero Gesù non finisce di sconcertare… Giovanni Battista viveva in modo più radicale e austero di lui: vestiva di peli di cammello e mangiava locuste e miele selvatico (cfr. Mc 1,6). Lui no; anzi si farà bollare come “un mangione e un beone” (cfr. Mt 11,18-19). A Diogene bastava una botte, ma era pieno di sé: poverissimo e superbissimo. Rispetto a lui, il rabbi di Nazaret era senz’altro, almeno materialmente, meno povero. Socrate insegnava gratuitamente, ma morirà sicuro di sé e disprezzando la morte (“A me non importa un fico della morte”: Apol. 20); Gesù muore povero non solo di cose e di prestigio, ma anche povero dell’appoggio del Padre. Socrate muore come un eroe, muore come vorremmo morire; Francesco d’Assisi morirà cantando; Cristo muore gridando: chi è più povero?
La situazione del suo tempo
Che Gesù non appartenesse alla classe dei più poveri, lo si desume dal fatto che al suo tempo la situazione socio-economica comprendeva tre categorie: i ricchi, il ceto medio, i poveri. I ricchi erano una minoranza costituita dagli alti funzionari che gravitavano attorno al governo centrale del tetrarca o del governatore; dai grossi commercianti che controllavano il traffico delle merci tra i grandi centri urbani; dai latifondisti che sfruttavano la manodopera locale nelle fertili pianure della Galilea e della Transgiordania; infine dagli alti funzionari del tempio che ne gestivano il tesoro, dove affluivano non solo dalla Palestina, ma da tutta la diaspora ebraica le offerte, le tasse e le decime religiose.
All’estremo opposto si trovava una massa di poveri costituita da braccianti, salariati, schiavi e mendicanti: un salariato giornaliero o stagionale riceveva una paga che si aggirava su una media di un denaro al giorno (cfr. Mt 20,2), ma un lavoro saltuario e per giunta senza tutele giuridiche rendeva precaria la vita di gran parte dei lavoratori in Palestina. Tra questi due estremi si collocava la classe media costituita per lo più da artigiani che avevano una bottega e da piccoli commercianti che gestivano in proprio un negozio. Per estrazione sociale e tenore di vita, Gesù e i suoi discepoli appartenevano a questa categoria: infatti è conosciuto come il falegname o il figlio del falegname (cfr. Mc 6,3; Mt 13,55). Durante la sua attività pubblica ha condiviso lo status sociale dei rabbi, i quali vivevano dell’ospitalità e delle offerte dei benefattori (cfr. Lc 9,4; 10,7-8).
In tutto il NT si parla esplicitamente della povertà di Gesù solo in 2Cor 8,9: parlando ai fedeli della comunità, Paolo afferma: “Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”. In che senso Gesù si è fatto povero? Consideriamo le situazioni che hanno caratterizzato la sua vita.
Nazaret e il ministero pubblico
Secondo Mc 6,3, Gesù a Nazaret aveva lavorato come tekton, cioè come artigiano che lavora il legno, quindi come falegname, carpentiere. Si trattava di un mestiere normale, ma rispettabile e onorato nel mondo giudaico, che comunque non collocava Gesù nella classe degli ptochoi (i proletari). È però difficile farsi un’idea precisa della situazione economica di questi artigiani; quello che sappiamo dalla situazione generale autorizza a pensare che si doveva trattare di un mestiere con uno statuto sociale decoroso, ma con risorse modeste.
Nella sua attività pubblica è certo che Gesù è stato un rabbi, quindi ipso facto appartiene al ceto dirigente, ed è appunto questo che fa scandalo: è inaudito che un rabbi frequenti i paria della società ebraica, proprio perché non è uno di loro. “Il suo modo di fare a meno delle barriere sociali è sovversivo. E lo è soltanto perché il suo statuto lo colloca dalla parte giusta della barriera. Si comporta da transfuga”[1].
L’unico testo che allude con maggiore chiarezza alla situazione di povertà di Gesù è Mt 8,20 (par. Lc 9,58): “Le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo hanno nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Sembra che per lui la povertà sia costituita non tanto dalla penuria dei beni o dalla fatica di una vita pellegrinante, ma dalla insicurezza, dalla provvisorietà, dall’assenza di un rifugio stabile e tranquillo. Anche se non è un appartenente alla classe degli ptochoi, Gesù vive però l’insicurezza di uno sradicato, è come Abramo che – afferma Stefano in At 7,4s. – “Dio fece emigrare in questo paese, ma non gli diede alcuna proprietà in esso, neppure dove posare il piede”. Dunque Gesù, che pure non dà l’impressione di un indigente, non ha fissa dimora. Non ha dove posare il capo perché non è venuto solo per alcuni, come per esempio la gente di Cafarnao (cfr. Mc 1,36-38); non si ferma in nessun posto, deve andare sempre “oltre” (cfr. Mt 8,18), perché è venuto per tutti. Ma il suo continuo pellegrinare è determinato anche dal rifiuto, come avviene dopo la liberazione di due indemoniati (cfr. Mt 8,29-34): gli abitanti del posto, venuti a conoscenza dell’accaduto, anziché ringraziarlo, “lo pregarono di allontanarsi dal loro territorio”. Gesù se ne deve andare perché rifiutato, perché portatore di una verità che inquieta e di una novità che disturba. Egli condivide il destino della verità, che non trova dimora presso gli uomini perché respinta.
Ma la ragione più vera di questa esistenza povera e nomade di Gesù è ancora più alta: è la totale appartenenza al regno di Dio. È questa appartenenza che lo rende straniero e pellegrino, alternativo al mondo. Gesù può e deve andare dovunque perché vuol essere il segno di Dio che non fa differenze; non ha dove posare il capo perché la sua vita poggia sull’incondizionata fiducia nel Padre che nutre i fiori e i passeri.
Questo rabbi è proprio diverso dagli altri: non gli importa niente di passare per un mangione e un beone (cfr. Mt 11,19) e di farsela con pubblicani (che certo non erano proprio poveri) e peccatrici: è libero anche di fronte alla povertà. Come rabbi, avrebbe diritto di essere servito dai suoi discepoli, che normalmente sostentavano il maestro con i loro beni e si prendevano cura della sua persona e della sua casa prestandosi nei vari servizi: Gesù invece si mette lui a servire i suoi (cfr. Lc 22,27).
La croce e il presepe
La totale fiducia nel Padre porta Gesù anche ad affrontare la violenza e la morte in croce. Il regno che egli ha annunciato è regno di Dio a tutti gli effetti, cioè non è la signoria di una sorta di padre-padrone, magari più potente di altri, ma la condivisione delle stesse sconfitte dell’uomo; non è una grandezza compiuta, ma un seme nascosto nella terra; non è la forza della potenza che impedisce il rifiuto, ma la debolezza dell’amore che promuove la libertà. Non c’è quindi da meravigliarsi più di tanto che Gesù sia andato incontro alla croce: ci sarebbe da meravigliarsi del contrario.
E però non è il dolore in quanto tale che Gesù cerca, ma l’amore che lo motiva.Nel passo citato di 2Cor 8,9 Paolo afferma che Gesù “si è fatto povero per voi”. Il Signore ha rinunciato alla sua condizione originaria di “ricchezza”, ma non si può pensare a una rinuncia abbracciata per se stessa o a un mistico amore per “madonna povertà”. In realtà, egli lo ha fatto per i credenti, per arricchirli. “Il passaggio è stato precisamente questo: dall’essere ‘ricco’ lui solo all’essere ‘ricco’ insieme con i credenti, passando attraverso la condivisione della loro ‘povertà’. In breve, la ‘grazia’ del Signore Gesù è stata un gesto di profonda solidarietà”[2]. È quanto si desume dal passo parallelo di Fil 2,6-11: Gesù si è “svuotato”, si è “abbassato”, per poter condividere la nostra condizione umana. È la storia dell’incarnazione come evento d’amore, che raggiunge il suo culmine sulla croce: “Se è vero che una teologia della povertà non può essere che una teologia della croce, è altrettanto vero che una teologia della croce non può essere che una teologia dell’amore, di un Dio che è amore”[3] . Questo è anche il messaggio del natale. Luca è l’unico evangelista a parlare della nascita di Gesù in un contesto di totale povertà. Per tre volte (cfr. Lc 2,7a. 12.16) parla della mangiatoia, e proprio questa costituisce il segno di riconoscimento del nato Messia. Viene da domandarsi: che rapporto ci può essere tra la descrizione dell’estrema debolezza e la grande miseria di questo bambino e i titoli gloriosi che gli vengono attribuiti (“Salvatore”, “Messia”, “Signore”)? La risposta l’evangelista la lascia intuire più avanti, quando afferma che Maria “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Il verbo “serbare-conservare” appartiene al linguaggio apocalittico, e indica un “mettere da parte per il futuro” (cfr. Gn 37,11; Dn 7,28; Ap 22,7). Si tratta quindi di una formula classica con cui si vuol dire: la portata degli eventi verrà manifestata nel seguito del racconto. La mangiatoia è il segno paradossale perché rimanda alla croce! Così si desume anche dal parallelismo delle espressioni del natale e del calvario: come Maria fa per il corpo del bambino, anche Giuseppe d’Arimatea avvolge il corpo morto di Gesù e lo depone nella tomba (cfr. Lc 2,7 e 23,53).
Il vangelo della povertà
Prima ancora che con le sue parole, è con la sua stessa vita che Gesù si pone come il primo vangelo della povertà. Di questo vangelo proviamo a declinare alcune caratteristiche fondamentali. Innanzitutto va tenuto presente che si tratta della povertà di un Dio, che si è rivelato nella storia di un uomo, la cui esistenza dall’inizio alla fine è stata una storia di povertà sempre più totale: da Betlemme alla croce Gesù ha camminato su una strada di abbassamento e di svuotamento radicale. Non soltanto in senso materiale, ma anche in spirito egli è il povero per eccellenza: dolce e umile di cuore, si affida completamente al Padre e muore come il giusto che dà la vita per gli altri e si offre per la salvezza di tutti. In lui Dio si schiera dalla parte dei poveri, perché non soltanto assume in se stesso la situazione del povero in spirito, ma anche si rivolge con preferenza ai poveri, come i mendicanti, gli infermi, le vedove, i pubblicani… Gesù si rivolge soprattutto ai diseredati e agli infelici, al punto da dichiararli sacramento della sua presenza (cfr. Mt 26,11).
L’altra caratteristica della povertà di Gesù è che si tratta di una povertà volontaria: non si tratta di una situazione subita, come per i poveri dell’AT, ma di una scelta cosciente e libera. Gesù è una persona interiormente libera, fino in fondo: è libero dalle ambiziose aspettative messianiche che tutti, intorno a lui, avrebbero voluto imporgli. Così si ritrova tutto solo, sulla strada di un ideale nuovo e frainteso, quello di morire per amore, come il seme che dona la vita marcendo nella terra (cfr. Gv 12,24). L’abbandono amoroso nelle mani del Padre lo rende capace di conquistare la libertà dall’ultima schiavitù umana, che è la morte. È l’amore del Padre la forza della sua libertà.
Vanno sottolineate anche due altre caratteristiche della povertà di Gesù: la spiritualità e la radicalità. La sua povertà non è di ordine sociologico, ma religioso: la ricchezza chiude il cuore a Dio, mentre l’unico valore assoluto è e deve rimanere il regno di Dio; è questa l’unica realtà che vale in senso assoluto, e per aspirarvi occorre liberarsi di tutto, almeno interiormente, meglio ancora anche esteriormente.
Dal primato assoluto del regno di Dio scaturisce la conseguenza che la povertà di Gesù è radicale, e tale deve essere quella del discepolo. Poiché siamo ormai all’ultimo capitolo della storia (cfr. Eb 1,2), non sono consentiti al cristiano né indugi né compromessi. Cristo ha dato l’esempio: nessun bene, neanche i beni di Dio, possono oscurare Dio come unico bene. Aver fede in Cristo significa conformarsi a lui, che fu povero in spirito ed anche materialmente. Sul suo esempio i discepoli vivranno “tutti per i poveri, molti con i poveri, alcuni come poveri” (P. Miranda).
Note
[1] J. DUPONT, Gesù messia dei poveri, messia povero, in AAVV., Seguire Gesù povero, Bose 1984, p. 45.
[2] G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, I, Torino 1980, p. 677.
[3] J. DUPONT, o.c., p. 61.