N.06
Novembre/Dicembre 1996

Riflessioni preliminari per un itinerario di educazione alla povertà

Le riflessioni che tenterò di sviluppare in questo articolo traggono la loro origine da una constatazione molto semplice: non ci capiamo quando usiamo il termine povertà. Ho provato, infatti, a parlarne con persone giovani e meno giovani, per avere da loro consigli, stimolazioni, idee… e ci siamo fermati al concetto sociologico od economico, visto anzitutto come dato fortemente negativo. Anche se l’inchiesta è stata condotta in ambito strettamente ecclesiale, tra persone credenti e praticanti, la suggestione evangelica di povertà non è emersa e, quindi, non è potuta scattare la molla del desiderio. Come si può educare qualcuno verso ciò che non desidera? Si tratta allora di cambiare la terminologia?

Può essere utile, ma non sufficiente. Forse è il punto di vista che va mutato. Affrontare il tema della povertà, infatti, non significa tracciare un profilo della società odierna, degli usi e costumi dei figli della cultura dei bisogni indotti… È più radicale la sfida, più profonda. È la natura stessa dell’uomo ad essere scandagliata. Povero, infatti non è colui che non ha beni se la sua vita è tutta una corsa per raggiungere i beni che non possiede. Bisogna porsi fuori da questa logica se vogliamo tentare un approccio corretto ad un’educazione evangelica alla povertà.

Ci accostiamo perciò al tema non da economisti né da sociologi, ma da credenti. Ciò non significa misconoscere gli apporti delle scienze umane, bensì, accettandone i contributi, porsi su un altro piano, quello teologico. Questo non per smussare i problemi, ma per mettere in luce l’interrogativo essenziale che soggiace alla tematica della povertà e che si può formulare così: Cosa la povertà ci dice dell’uomo? Parlare di povertà, quindi, è porsi in ascolto dell’annuncio che Dio fa circa la verità dell’uomo e scoprirlo essenzialmente incompiuto, aperto, appello a venir determinato da un Altro…

L’impostazione di questo articolo cerca di coniugare alcuni dati teorici con quella che è l’esperienza concreta, quotidiana, vissuta a contatto con decine e decine di giovani che usano un linguaggio tutto loro per esprimersi, fatto di immagini e di codici visivi, musicali, gestuali, che, a volte, lasciano muti noi adulti e ci trovano impreparati al dialogo.

Tentiamo un approccio visivo al tema usando cioè immagini e metafore, intendendo il termine pedagogia come cammino fatto insieme con il giovane, come quotidiano andare, per le vie delle nostre città, con chi è più giovane di noi, più abile nel digitare, più sensibile nel cogliere le modificazioni, più esposto alle ambivalenze della nostra cultura dei bisogni indotti… ma anche più forte nelle potenzialità di libertà che non vanno assolutamente lasciate dormire, ma vanno poste in contatto con l’Unica Voce capace di destare il profondo anelito di vivere che è celato in ciascuno…

 

Icaro: dal labirinto al cielo

Partiamo da un antico mito per dirci, con parole intessute di sentimenti, ciò che sta nascosto nel cuore dei giovani. Il mito parla alla globalità della nostra esperienza umana e per questo ci interpella. Icaro è un giovane prigioniero, col padre Dedalo, di una stupenda e geniale realtà che, il padre appunto, cioè la cultura che lo ha preceduto, gli ha regalato.

Altissima espressione di abilità architettonica, il labirinto di Creta è divenuto prigione per colui che lo aveva ideato. Icaro si è trovato a condividere una situazione “ereditata”: figlio della libertà che sa creare e del potere che attanaglia. Ci sono innumerevoli labirinti nella nostra cultura in cui rinchiudiamo i giovani che, pure, vorremmo liberi e intraprendenti. A tal punto diamo loro tutto con i prodigi della tecnologia più raffinata, da indurre in loro sempre nuovi bisogni fino a prosciugare la radice del desiderio stesso o da banalizzarla, facendola coincidere con i bisogni. Desiderare è proprio dell’uomo col cuore libero. Lasciarsi possedere dai bisogni immediati, lasciarsene schiavizzare è la fine del desiderio.

Icaro, spinto dal padre, non cessa di desiderare la libertà. Si lascia coinvolgere nell’avventura del volo. La tenta senza tuttavia aver maturato in sé quel tanto di saggezza da conoscere i propri limiti. Si può descrivere la vicenda di Icaro con un movimento a spirale che, partendo dal limite, passa attraverso il rischio e giunge al volo per ritornare al limite e così via.

 

Limite

Situazione esistenziale che può essere conosciuta o misconosciuta, accettata o rifiutata. La nostra cultura spinge maggiormente ad accentuare il secondo termine dei binomi, per cui il limite tende a divenire una prigione, un muro invalicabile contro cui si infrangono i miti dell’autoaffermazione. Molte fragilità dei giovani (e non solo) con cui viviamo sembrano generate da questa frustrazione da successo che viene pompata nelle vene fin da ragazzini quando, come pacchi ben confezionati, vengono scarrozzati da una palestra ad un’altra, da una lezione di danza ad una di musica… Non poter diventare tutti campioni non è affatto una sconfitta, ma uno stimolo a conoscere i lati più nascosti di noi e della realtà che ci circonda.

 

Rischio

Sentirsi stretti dentro un labirinto è normale, ma si può anche preferire la gabbia al rischio inevitabile che comporta ogni tentativo di uscirne. Fra tanti il rischio dell’esporsi, del divenire diversi, e, soprattutto, del formulare ipotesi innovative che nascono dall’attenzione al reale e dalla penetrazione di ciò che, di più vero, è nascosto in ciascuno. Il rischio di essere se stessi appare il rischio invalicabile di fronte al quale molti preferiscono accettare un sé confezionato in serie, disponibile nei supermercati della cultura dominante.

 

Volo

È la capacità sintetica con cui ciascuno percepisce se stesso e formula una valutazione della propria esperienza. È il saper prendere le distanze, osservando il tracciato della propria esistenza: gli intrecci, i punti morti, le valli d’ombra e gli sprazzi di luce… Volare è espressione della tensione continua alla libertà, anelito insopprimibile, spia del trascendente che è racchiuso in ciascuno oppure trappola mortale perché può nascondere una sopravvalutazione di sé, una mitizzazione delle proprie capacità, una divinizzazione delle proprie potenzialità. E ricomincia il vortice della spirale in cui ogni Icaro è coinvolto e di cui ciascuno è responsabile. L’esito non è scontato. Il punto di partenza è comune: il labirinto costruito dal padre, dalla mente fertile e feconda di Dedalo, reso pericoloso dall’intervento di quel Minosse che ha distorto il fine vero per cui era stato costruito. Il labirinto infatti, doveva essere un espediente per liberare i cretesi dal mostro che divorava gli uomini e finì per divenire prigione del più geniale fra loro…

Osservando questo volo con ali precarie, impastate di cera e di desiderio, emerge una domanda che può apparire banale a tal punto è scontata.

Icaro, chi sei? Cosa dici di te stesso?

Sei un giovane prigioniero di ciò che altri hanno costruito per te?

Sei uno che accoglie il rischio di uscirne ma passando per una non conoscenza di sé?

Sei l’irresponsabile che si autodetermina e si avventura per vie non praticabili?

Sei il mito del superuomo che non vuol sottostare a nulla o sei piuttosto il Peter Pan che non vuol crescere?

Portiamo avanti la domanda, rendiamola dinamica, non chiediamo ad Icaro solo “Chi sei?”, ma incalziamo: “Chi vuoi essere?”.

 

Davide: nel conflitto con pane e formaggio

La domanda posta ci spinge a cercare il confronto con un altro giovane i cui lineamenti sono tratteggiati nel Libro sotto il quale ogni umana esperienza va posta. Icaro ci appare come il volto del giovane che descrive se stesso, Davide come quello di chi si lascia descrivere da Colui che conosce il cuore. Come abbiamo ascoltato l’esperienza umana narrarsi così ci apriamo ad ascoltare l’esperienza di quell’umanità che si lascia plasmare da Dio.

Lo facciamo perché, in effetti, il discorso sulla povertà (e non paiano troppo lontane le considerazioni che abbiamo fatte) tocca le radici stesse dell’uomo. Non si tratta di porsi a livelli sociologici, ma esistenziali, non sono comportamenti marginali quelli che andiamo cercando, ma piuttosto l’autenticità del nostro essere persone nella totalità di una relazione unica e personale col Maestro. Ci rifacciamo ai capitoli 16 e 17 del primo Libro di Samuele per evidenziare solo alcuni tratti[1].

Davide, il figlio di Jesse, è continuamente posto in relazione con i fratelli maggiori. Essi sono quelli che contano, che il padre invita al banchetto con Samuele, che prendono parte alla guerra a fianco di Saul. Lui, il piccolo, no. L’unica cosa che fa è fermarsi al pascolo, è intrufolarsi nella guerra non come un eroe, ma come uno che porta pane e formaggio per sostenere i combattenti.

È così piccolo e indifeso da suscitare le ire di Golia che desiderava una risposta alla pari alle continue offese, lanciate per quaranta giorni all’esercito di Saul. Davide si definisce in relazione al Dio di Israele, non in rapporto alla propria abilità.

Rifiuta la logica della forza, dell’armatura, dell’imponenza. Quello che ha: pane e formaggio, una fionda; quello che è: “biondo e gentile di aspetto” mette al servizio degli altri perché da tutto si lascia espropriare dal Signore. Ritorniamo alla dinamica limite – rischio – volo per enucleare attorno a tali punti quanto desideriamo sottolineare.

 

Limite

Davide è il povero, perché è semplicemente se stesso, cosciente del proprio limite, non infatuato del proprio successo (anch’egli ha vinto l’orso e il lupo), ma fiducioso in un Altro che è direttamente chiamato in causa dalla tracotanza dell’uomo-Golia, l’uomo che sente tra le sue mani le sorti degli altri, il super-uomo che schiaccia tutti con la propria forza, sfida perfino Dio!

 

Rischio

Il figlio di Jesse appare disponibile ad ascoltare le richieste del padre, i bisogni dei fratelli maggiori cui porta pane e formaggio, i bisogni dell’esercito di Saul cui non ricusa di offrire il contributo del proprio coraggio. Proprio perché così piccolo e povero Davide può interessarsi dei suoi fratelli, prendersi cura della loro salute, introdurre nello stridore delle armi il sapore semplice del pane e del formaggio.

 

Volo

Non è un pusillanime, è libero poiché conosce i propri limiti e ciò lo rende pronto per il volo. Il rischio non lo spaventa, poiché un Altro è stato chiamato in causa, un Altro è stato sfidato. Nel brano sono posti a confronto due modelli d’umanità. La ricchezza di Saul, lo sfarzo della sua armatura, la tracotante autosufficienza di Golia: tutti questi elementi acuiscono lo stridente contrasto con l’insufficienza di mezzi che contraddistinguono Davide.  La vicenda è costruita in modo tale da costituire una rivelazione dell’agire stesso di Dio, del suo modo di intervenire nella storia e di valutare l’uomo. Golia stava davanti ad Israele come colui che si autodefiniva il liberatore del suo popolo, arbitro della vita e della morte. In realtà era di fronte al Dio delle schiere di Israele che egli esprimeva tutto ciò, poiché era JHWH che egli sfidava. Consapevole di questo il figlio di Jesse non si pone come centro di questo mondo in subbuglio e in rivolta, ma riporta all’unico Arbitro della storia il giudizio sulla situazione.

 

Ricchi per darsi via

Icaro e Davide: due giovani che vivono in una realtà ricca di messaggi nuovi e stimolanti, realtà conflittuale e dura, veicolo di spinte verso l’affermazione, il potere, la violenza. Si pongono, nei confronti di questa realtà, con dinamiche diverse. Nessuna appare però totalmente chiusa a quella dinamica con cui Paolo descrive la vicenda di Gesù: “Si fece povero per arricchirci con la sua povertà” (2Cor 8,9).

Molto efficacemente e plasticamente Moioli traduce così l’atteggiamento di Cristo: “ricco per darsi via”[2]. La povertà, prima di essere un atteggiamento, un comportamento, è un modo di essere nei confronti di Dio e degli altri.

La povertà di Cristo lo qualifica come Figlio e, nel profondo, a tal punto s’identifica con il suo mistero da rivelarne la carità redentrice. Come condurre Icaro e Davide a formulare un progetto di vita che, plasmandosi su Cristo, li conduca a dire: “Siccome io sto davanti a Dio come colui che non si afferma il centro del mondo e che si apre interamente a Dio, io sono anche colui che può mettersi a servizio degli altri”?[3]. Ripercorriamo ancora lo schema precedente.

 

Limite

Accogliere da Dio la parola decisiva sulla propria vita è possibile solo con cuore orante, intriso di preghiera fatta di richiesta e di supplica. L’educazione alla preghiera di domanda non è scontata, non contraddice la lode o il ringraziamento, ma ne costituisce il fertile terreno. Con le mani aperte, nude, si percepisce la propria impotenza ad essere i salvatori di se stessi e degli altri.

 

Rischio

Ci si fa poveri per annunciare il regno, ci si fa poveri in una situazione che storicamente evolve. Il discernimento che fa individuare sempre nuove espressioni per annunciare l’assoluto del regno è il rischio che bisogna educare a correre. Non si può sfuggire a questa salutare dialettica che consente di non assolutizzare nessuna forma, nessuna espressione storica di povertà. La povertà di Cristo sta sempre oltre.

 

Volo

Gratuità ed essenzialità possono essere le due ali per volare, due scelte cui pazientemente educarci per poter educare. Essenzialità è più che sobrietà, è ricerca instancabile non solo di quanto può bastare, ma di ciò che vale in ragione del fine che ci si prefigge. La gratuità consente di non cercare ritorni, di darsi senza aspettare applausi e senza erigersi a salvatori degli altri.

 

Si può sinteticamente affermare che educare alla povertà equivale ad andare al cuore della proposta evangelica. L’educazione alla povertà si presenta, dunque, così complessa perché abbraccia il modo, credente o no, di comprendere se stessi. Per questo, lo ribadiamo, la preghiera è l’humus nel quale possono essere gettati i desideri di pienezza che abitano nei giovani. In tale terreno essi possono germogliare, non per uno sforzo ascetico che li isoli dal loro oggi e li ponga in una lacerante tensione con le abitudini dei loro coetanei, ma per un’appropriazione della sapienza che sa discernere e plasma il cuore fino a fargli esclamare, serenamente: “Come Gesù voglio impoverirmi per arricchire, perché il ‘darsi via’ è il senso della mia vita”[4].

 

 

 

Note

[1] Per approfondire: B. COSTACURTA, Con la cetra e con la fionda, Dehoniane, Roma 1994.

[2] G. MOIOLI, Beati i poveri, Viboldone 1987. 

[3] MOIOLI, o.c., p. 20.

[4] Ivi, p. 21.