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Dio è una persona

La vocazione è sempre risposta a una chiamata. Risposta a una Parola che ha rotto il silenzio assordante e fragoroso della nostra vita. La vocazione monastica, in particolare, si fa grido che risponde a questa voce, continua ricerca e ascolto per udire nuovamente la voce di Colui che chiama e che ha segnato indelebilmente il nostro cuore.
Riportiamo qui un testo di Louis Bouyer.

 

L’apostolato, la scienza, la cultura intellettuale di alto livello, la liturgia, la vita di penitenza e la vita contemplativa in sé presa, per quanto siano tutte realtà degne di suscitare l’abnegazione e accendere l’entusiasmo, non possono orientare e definire la vita del monaco. Ciò che egli cerca, se è veramente monaco, non può essere un qualcosa, ma Qualcuno. […] La ricerca, la ricerca vera, nella quale è coinvolta tutta la persona, e non di qualcosa, ma di Qualcuno, di Dio: è questo l’essenziale del monachesimo. Perché sia veramente Dio quello che si cerca, bisogna cercarlo come persona. Ora Martin Buber, filosofo ebreo interamente nutrito della mistica dei chassidim – che può essere considerata il prolungamento fino ai nostri giorni dell’ultimo filone vivente della tradizione profetica -, l’ha espresso in modo eccellente: la persona viene ricercata in quanto tale solo nel dialogo. È soltanto nel rapporto dall’io al tu che la persona resta per noi una realtà personale, mentre qualcuno di cui abitualmente si parla in terza persona non è più per noi una persona: che ce ne rendiamo conto o no, di fatto è nient’altro che una cosa[1]. La vocazione monastica (si noti che il significato della parola vocazione è quello di “chiamata”) suppone dunque che Dio sia qualcuno che si è rivelato a noi tramite una parola, che ci ha “chiamati”. E rispondere alla vocazione monastica significa rispondere a questo Qualcuno. Una parola ha rotto il silenzio e ci ha ridestato dalla grigia solitudine nella quale il nostro essere, perso in mezzo alle cose, si era assopito. Questa parola esige una risposta, una risposta che è sforzo incessante di rimettersi in ascolto, di comprendere meglio la chiamata, di continuare a tendere l’orecchio per ascoltarla e rispondere costantemente. […] La vocazione monastica o è questo o non sussiste. Una parola di Dio, la parola che annuncia il vangelo, un giorno è penetrata nel nostro cuore. Improvvisamente abbiamo compreso di essere noi i chiamati. E siamo partiti alla ricerca di colui che chiamava, invocandolo a nostra volta, invocandolo con un grido in cui mettevamo tutto il nostro cuore, tutta la nostra vita nella nostra voce. […] Monaco è colui per il quale Dio è una persona, una persona che si può e si vuole incontrare, e per incontrarla si abbandona tutto il resto. “I tuoi occhi vedranno un re nel suo splendore” (Is 33,17): questa promessa, che aveva indotto il postulante ad abbandonare tutte le cose della terra che affascinano gli altri, è ciò che motiva le fatiche del monaco maturo. La vocazione al monachesimo sarebbe come privata del suo centro se si trascurasse questo elemento mistico. La vita monastica, priva di questa molla, sarebbe nient’altro che una serie di gesti senz’anima. E anche se dotato della piena perfezione delle virtù cenobitiche, il monaco non avrebbe neanche cominciato a essere monaco se non sentisse dentro di sé un’attrazione invincibile che lo porta a essere finalmente “solo con il Solo”, solus cum Solo.

 

(L. Bouyer, Il senso della vita monastica, Qiqajon, pp. 26-29.100)

 

[1] Cf. M. Buber, Io e tu, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, Cinisello Balsamo 1993, pp. 57-157.