N.06
Novembre/Dicembre 1996

I consacrati, testimoni credibili di povertà

La persistente “crisi delle vocazioni” alla vita religiosa, specialmente apostolica, in Italia, è stata a lungo vissuta all’interno degli istituti religiosi con atteggiamenti che oscillavano tra la sostanziale rimozione del problema e il diffuso senso di colpa, specialmente tra quanti operavano più direttamente nel campo. Ormai siamo consapevoli che la difficoltà non è congiunturale e transitoria, ma è strutturale. Essa si manifesta come sintomo della più vasta crisi di un modello di vita religiosa che, dunque, ha nel suo complesso bisogno di una totale revisione. Detto diversamente, la vita religiosa apostolica esplosa nell’Ottocento, molto esposta sul fronte dell’apostolato di servizio, ma con scarso supporto spirituale, patisce oggi una vera e propria crisi di identità, dovuta alla genericità della sua proposta e alla marginalità della sua posizione. Di qui anche la fiacchezza del suo richiamo vocazionale.

 

Crisi strutturale

Ma andiamo con ordine. Perché si deve ormai parlare di crisi di un modello, di proposta apostolica generica? Perché, a partire dagli anni ‘60, tutta una serie di interventi statali ha prodotto una serie di leggi e un’offerta di servizi (si pensi alla riforma della scuola dell’obbligo, alla riforma sanitaria, alle leggi sull’handicap, sull’affido e l’adozione, sul volontariato…) tali da rendere obsolete molte opere tradizionalmente tenute dai religiosi (per es. gli orfanotrofi) e da ricollocare le altre all’interno della normativa pubblica.

Questo ha prodotto due effetti di impatto rilevante sull’apostolato dei religiosi: la professionalizzazione della vocazione apostolica e la standardizzazione dei loro servizi. Per poter continuare a operare, anche all’interno delle proprie opere, i religiosi hanno dovuto procurarsi i titoli (maestro, educatore, infermiere…) che lo stato richiede ai laici. In qualche modo i religiosi hanno dovuto laicizzarsi per poter continuare a fare ciò che già facevano. Anche le opere hanno subito un destino analogo. Una normativa sempre più dettagliata e fiscale le ha riconfigurate secondo modelli standard che rispondono a requisiti validi sia per le istituzioni pubbliche che per quelle private. Lo stesso servizio che si svolge è stato codificato attraverso una legislazione attenta ad assicurare agli utenti un’omogeneità di trattamento. L’effetto finale di questa trasformazione è stato che le opere dei religiosi sono state progressivamente sottratte alla loro libera iniziativa e alla loro autonomia per essere ridefinite essenzialmente come servizi pubblici gestiti da privati.

Ora, mentre purtroppo i religiosi che vivono all’interno delle opere non sono ancora abbastanza consapevoli dell’esproprio del loro apostolato prodotto da questa “mano invisibile”, la consapevolezza è più chiara in chi vede le opere dal di fuori, con occhio disincantato. In realtà quale giovane può sentirsi attratta dalla prospettiva di farsi suora per poi diventare maestra d’asilo o preside di una scuola, o caposala in un ospedale? Tutto ciò si può vivere anche nella vita laicale; anzi, più propriamente nella vita laicale.

Ma anche il rinnovamento postconciliare ha contribuito alla marginalizzazione (e alla purificazione) della vita religiosa apostolica. In effetti, fino alla metà del nostro secolo, ai religiosi erano state affidate più o meno esplicitamente alcune deleghe da parte della comunità cristiana. Si pensi al loro primato in campo culturale (i grandi teologi del concilio vengono dalle file dei gesuiti, dei domenicani, dei francescani…), alla loro intraprendenza nella missione “ad gentes”, all’iniziativa nel campo della povertà e dell’emarginazione, alla forza trainante delle loro spiritualità (benedettina, francescana, carmelitana, gesuitica…). Con il concilio si richiama il laicato ad una crescita verso la maturità: tutti sono chiamati alla santità (si affermano spiritualità laicali ed esplodono i movimenti ecclesiali); la carità viene ripresa come compito proprio della comunità ecclesiale (nascono le caritas e i gruppi di volontariato moderno) e i religiosi stessi vengono invitati a rientrare nei ranghi e ad inserire organicamente la loro presenza nella pastorale della chiesa locale.

Lo Spirito suscita molteplici forme di vocazione e di apostolato tra i laici (movimenti ecclesiali, gruppi di volontariato, nuove comunità di vita…) che in parte vanno a ricoprire ambiti una volta occupati dai religiosi e in parte esplorano nuove stimolanti possibilità. Tutto ciò, è evidente, produce un effetto di spiazzamento nei singoli religiosi e negli istituti.

 

Tentativi di risposta

I primi tentativi di rinnovamento postconciliare si prospettano essenzialmente come aggiornamento. I benefici sono per la verità superficiali, perché non giungono a toccare l’impianto tradizionale degli istituti. Lo conferma, per esempio, la crisi di perseveranza, specialmente nei giovani religiosi.

Una lettura “difensiva” del disagio nella vita religiosa tenderebbe tuttora ad addebitare ai singoli religiosi la responsabilità (o la colpa) del loro cedimento. Gli argomenti a cui si ricorre solitamente riguardano la mancanza di spirito di preghiera e di sacrificio, la ricerca di risultati apostolici o di compensazioni affettive. E non è difficile suffragare questa posizione con la casistica e l’aneddoto (del resto può anche essere ovvio che cedono i più fragili), ma di questo passo non si è mai sfiorati dal dubbio che sia il sistema, nel suo complesso, a non funzionare più: un sistema che non solo non attrae nuovi giovani, ma respinge (o sovraccarica di responsabilità) i pochi che ha al proprio interno.

Consapevoli che il riformismo non basta, alcune congregazioni, poche per ora, hanno tentato una radicale riorganizzazione (“nell’acqua e nello Spirito”, cioè attraverso un processo di morte e risurrezione). I passaggi sono stati i seguenti.

– Consapevolezza che “il sistema delle opere” va ad estinguersi; dunque conseguente decisione di non investire le giovani leve nel mantenimento di un sistema al collasso. Sarebbe stato altrimenti, secondo l’espressione di un giovane religioso, “come mangiarsi le sementi”.

– Rovesciamento dunque della prospettiva: non i giovani in funzione dell’esistente (cioè del vecchio) ma i giovani in nuove forme di presenza. Questo ha comportato naturalmente dei costi elevati: per gli anziani l’accettazione della conclusione di un ciclo glorioso; per i giovani il rischio di avventurarsi in strade senza uscita o in sperimentalismi sterili e frustranti; per tutti la necessità di una comunicazione corrente e di un’autentica formazione permanente.

– Si potano i rami vecchi e si punta sui nuovi germogli. Il corpo congregazionale pensa dunque il proprio futuro a partire dai giovani e affida la propria vitalità alle nuove comunità. Di conseguenza struttura anche la formazione iniziale in questa prospettiva.

– Le nuove comunità si caratterizzano per alcuni elementi comuni. La collocazione in ambienti poveri. E dall’ambiente stesso si assumono i riferimenti per la povertà dei religiosi (abitazione, tenore di vita, vestire, uso dei beni, mezzi di trasporto…). Un apostolato di ascolto, presenza e condivisione. Un approccio non invadente alla realtà, al fine di coglierne bisogni e potenzialità. La comunità così comincia da proposte semplici (sostegno scolastico, aggregazione giovanile, visita alle famiglie…) per promuovere l’incontro e il collegamento tra la gente. Pedagogicamente: perché loro crescano e noi diminuiamo. Un forte impegno alla vita comunitaria, come prima testimonianza efficace della presenza del Risorto, come esperienza visibile della fraternità evangelica, come luogo proprio del discernimento e del progetto apostolico.

– Le comunità tradizionali, cioè le comunità con opere, sono invitate a investire i laici delle responsabilità loro proprie, in maniera tale che la transizione da una gestione dei religiosi ad una gestione laicale avvenga senza eccessivi squilibri e senza cadute dello spirito originario. Questo passaggio, per altro inevitabile, sta avvenendo con difficoltà sia per il timore dei laici di investirsi in un ruolo diverso da quello sostenuto finora, sia perché i religiosi tendono a lasciare le opere solo quando queste sono al collasso, dunque di fatto ingestibili.

 

Nuove vie

Se i religiosi riescono a ritrovare un’identità forte, centrata sui due capisaldi di una rinnovata vita comunitaria (che supera cioè la sterilità della tradizionale comunità centrata sulla disciplina e sull’osservanza) e di un rilancio della propria capacità di profezia, soprattutto in ambienti “missionari”, ovvero tra i poveri (e qui c’è anche la fatica del discernimento delle povertà oggi), la loro proposta di vita avrà anche un’indubbia risonanza vocazionale. E questo si sta verificando.

Occorre però essere consapevoli che, anche a motivo della diversificazione dei ministeri nella chiesa e della crescita delle responsabilità del laicato, non si può più far riferimento, per l’Italia, a quell’afflusso di vocazioni che ha alimentato gli istituti fino agli anni ‘60. Così come occorre pensare a un modello di formazione dei religiosi meno specialistico e più flessibile, con caratteristiche adatte alle nuove forme di comunità e di apostolato, poco protette. L’attuale carenza di vocazioni può essere letta dunque come il criterio di verifica per valutare il rinnovamento degli istituti. È in corso una specie di braccio di ferro tra noi e il Signore. Mentre noi sembriamo insistere: “Mandaci tante e sante vocazioni, così miglioreremo la qualità del nostro apostolato e della nostra vita comunitaria”; il Signore sembra ribatterci: “Vivete una vita veramente fraterna nelle vostre comunità e impegnatevi in un apostolato davvero profetico, e vi manderò vocazioni”.