Il paradosso perfetto
La beatitudine e i suoi mille significati
La beatitudine, recita il dizionario, è una felicità perfetta; ma questo ci dice poco, perché la felicità chi mai l’ha saputa definire? Forse potremmo dire, così alla grossa, che la felicità è la somma di tutti i suoi sinonimi. Ha l’intensità della gioia e la costanza della serenità, la leggerezza dell’allegria e la profondità della letizia. È soddisfazione nella vita, come la contentezza, ma insieme è ricca di promesse; felicitas significava infatti originariamente «fertilità»[1]. La beatitudine è tutto questo, e qualcosa di più. Strettamente parlando, si tratta di una felicità piena ed eterna, per citare Boezio: è uno stato perfetto in cui tutti i beni sono assommati[2]. Uno stato divino, insomma. Già Aristotele, infatti, distingueva la beatitudine (makaria) dalla felicità (eudaimonia), considerando la prima pressoché esclusiva degli dei[3].
Per i cristiani la faccenda è un po’ diversa. Scrive San Tommaso: «La perfetta beatitudine è naturale soltanto per Dio, per il quale essere ed essere beato sono la stessa cosa. Per tutte le creature invece essere beate non rientra nella loro natura, ma è il loro ultimo fine»[4]. Gli uomini possono raggiungere la comunione con Dio, il Sommo Bene in cui tutti i beni si riassumono; ergo tutti possono essere beati, in paradiso e parzialmente già sulla terra. Non solo: se in Dio tutti i beni sono compresenti, ne consegue che in ognuno di essi c’è una traccia di Lui, anche indipendentemente dalla consapevolezza di chi ne gode. Come la grazia stessa, dunque, la beatitudine può nascondersi in tutto ciò che facciamo, come il seme nella terra.
Facendo un balzo dalla teologia alla psicologia, vediamo ora più da vicino quali sono i beni che formano la felicità e, se raggiunti in pienezza, la beatitudine. A farci da guida sarà Maslow, autore di un celebre modello psicologico: la piramide dei bisogni[5]. Maslow divide i bisogni umani in categorie gerarchicamente ordinate, da quelli più elementari e pressanti a quelli più complessi, che richiedono più tempo per essere realizzati. Percorriamo insieme questi gradini, ognuno dei quali ci porterà a conoscere diverse forme della beatitudine.
Anzitutto incontriamo i bisogni fisiologici e con essi le forme più semplici di felicità: il piacere e il benessere. Per la verità nell’immaginario collettivo la beatitudine è spesso slegata da questi concetti, evocando piuttosto immagini di mortificazione della carne e astratte contemplazioni. Tuttavia la resurrezione della carne ci racconta una storia diversa. Se la beatitudine può compiersi veramente solo in presenza di un corpo ‒ seppure trasfigurato ‒ i piaceri dei sensi devono esserne parte integrante. Anche la statua di santa Teresa del Bernini, che potrebbe raffigurare un rapimento tanto mistico quanto erotico, ci suggerisce che la beatitudine potrebbe non essere poi così eterea come la si immagina.
Sul secondo gradino troviamo la sicurezza. La beatitudine infatti non sarebbe completa senza la certezza che «neppure un capello del [nostro] capo andrà perduto» (Lc 21, 19). Una promessa che potremmo anche intendere in questo modo: visto che, come teorizza sant’Agostino, in Dio tutti i tempi sono compresenti[6], in Lui ogni cosa è per sempre salvata, dalla galassia di Andromeda fino alla palla di vetro con la neve che la signora Maria tiene sul comodino. In quest’ottica dunque nulla può veramente nuocerci: siamo, per citare il salmo 131, «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre».
E arriviamo al terzo livello: il bisogno di amare ed essere amati, talmente potente da permeare ogni istante della nostra vita. Forse persino quando guardiamo un tramonto, come scrive Buzzati, in realtà ciò che sentiamo è un presentimento d’amore, l’attesa di qualcuno che possa farci felici[7]. La beatitudine è dunque necessariamente comunione, con gli altri e con Dio: da soli si può essere tranquilli, ma felici mai.
Il bisogno di appartenenza si unisce ‒ e siamo al quarto gradino ‒ alla necessità di essere stimati e riconosciuti nel proprio specifico valore. In questo senso la beatitudine è un ritorno in patria, un essere finalmente «al proprio posto», precisi come il pezzo di un puzzle: l’esistenza di ognuno trova significato in quanto parte necessaria di un tutto.
Infine la punta della piramide: l’autorealizzazione, la piena attuazione di tutte le proprie potenzialità. Mi ha sempre colpito un passaggio dell’Apocalisse (2,17), secondo cui i salvati riceveranno «un sassolino bianco, sul quale c’è scritto un nome nuovo, che nessuno conosce se non chi lo riceve». Il beato quindi è colui che finalmente capisce chi è, trovando quel nome che ha cercato per tutta la vita.
A questo punto però sorge una domanda: uno stato in cui non resti nulla da desiderare può dirsi davvero felice? Forse allora il desiderio stesso è parte della beatitudine: come sostiene von Balthasar, il «riposo in Dio» sarebbe in realtà «un’infinita mozione da parte di Lui e verso di Lui»[8]. Anche le etimologie ci ripropongono questo paradosso. Beatus infatti è propriamente un participio passato: si è felici perché si «è resi beati» da qualcuno o qualcosa[9]. D’altro canto la radice di ashrè, “beatitudine” in ebraico, è connessa all’immagine del cammino[10]; dunque la beatitudine si caratterizza come un dono da ricevere, ma anche come un percorso da compiere.
Più in generale, potremmo dire che la beatitudine ha una connotazione sia attiva che passiva: da un lato implica la piena espressione della libertà individuale, dall’altro comporta un senso di pace e fiducioso abbandono. È un paradosso che Dante esplora nel terzo canto del Paradiso, spiegando che la beatitudine consiste nel coronamento della propria libertà e insieme nel perfetto allineamento con la volontà divina. In termini più terreni possiamo averne un’idea in quelle che Maslow chiama peak experiences: il rapimento estetico, l’amplesso erotico, la realizzazione intellettuale o creativa. In questi momenti la persona si sente trascesa da una forza superiore, ma al contempo si percepisce come il centro responsabile e creativo delle proprie attività.
È tuttavia il Vangelo a presentarci il paradosso più grande: una felicità che si nutre del suo contrario, «beati coloro che piangono» (Mt 5,4). L’interpretazione più semplice è di tipo compensatorio: le sofferenze terrene saranno riscattate in paradiso. Ma è davvero tutto qui? Facciamo una piccola digressione. In Giappone esiste una tecnica di riparazione del vasellame, il kintsugi, che consiste nel saldare i pezzi con un materiale dorato, cosicché le crepe si trasformano da difetti in pregi. Le beatitudini evangeliche presuppongono un processo simile: il dolore, se vissuto in comunione con Dio, affina e salva l’anima. Questo genera una felicità peculiare, che scompiglia l’ordinata gerarchia di Maslow. Perciò Etty Hillesum può scrivere nel suo diario, pur essendo a un passo dall’internamento in lager: «In me c’è una felicità perfetta e piena […] come se ogni mio respiro fosse eterno, e la più piccola azione o parola avesse un vasto sfondo e un profondo significato»[11].
Potremmo dire che la beatitudine è l’unione degli opposti: libertà e necessità, appagamento e desiderio, gioia e dolore, valore individuale e significato d’insieme. Per citare Dante, significa vedere «legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII).
[1] Cf. «Felice» in Il vocabolario Treccani, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1997, vol. II, 418.
[2] S. Boezio, Consolazione della filosofia, III, 2.
[3] Cf. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 11. Per l’interpretazione di questo passo cfr. R. Crisp, The Oxford Handbook of the History of Ethics, OUP, Oxford 2013, 133.
[4] Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I, q. 62, a. 4.
[5] Cf. A. H. Maslow, Verso una psicologia dell’essere, Ubaldini Editore, Imola 1971.
[6] Cf. Agostino, Le confessioni, XI, 13.
[7] D. Buzzati, Un amore, in Opere scelte, Mondadori (Meridiani), Milano 1998, 445.
[8] H. Urs Von Balthasar, Sperare per tutti, Jaca Book, Milano 1989, 94.
[9] Cf. «Beato» in Il Vocabolario Treccani, I, 438.
[10] Cf. J. Strong, Strong’s Exhaustive Concordance of the Bible, Hendrickson, Peabody (Massachusetts) 2009, voce 833, 1473.
[11] E. Hillesum, Diario 1941-1942, Adelphi, Milano 2013, 756.