Gesù Cristo: l’amore nel celibato per il Regno
Se si prende in esame la testimonianza evangelica sul celibato per il Regno, appare subito che tale realtà non fa parte di un annuncio o di una predicazione particolare di Gesù[1]. Settorializzare questa tematica, sganciandola dal complesso dell’annuncio e della testimonianza evangelica, significherebbe sradicarla dall’alveo che la rende possibile e vivibile, dalla realtà che la può suscitare e motivare.
Quando Gesù, difendendo se stesso e il suo gruppo dalle denigrazioni di chi li accusava per la pratica del celibato – decisamente controcorrente nel mondo giudaico e rabbinico – afferma la possibilità di un’eunuchia “per il Regno” (cioè motivata dal e finalizzata al Regno: Mt 19,12), dichiara che tale realtà non ha una sussistenza in sé, ma è realtà “relativa a”.
In questa relatività a risiede anche la sua qualità di segno. Ma “Regno” è simbolo che esprime la totalità dell’annuncio e della testimonianza di Gesù, simbolo equivalente a “Evangelo” (cfr. Mc 10,29: “a causa dell’evangelo”,- si pensi ai testi che parlano dell’“evangelo del Regno”: Mt 4,23; 9,35; 24,14; Lc 4,43; 8,1 ecc.) e riassumibile anche sotto il titolo “Cristo” (cfr. Mc 8,35; Mt 16,25; Lc 9,24: “a causa mia” si pensi all’espressione “evangelo di Gesù Cristo” di Mc 1,1 e alla teologia marciana .che fa di Gesù il Regno personificato).
La decisione alla sequela Christi nel celibato si situa di fronte all’urgenza escatologica manifestata da Gesù, alla predicazione del primato del Regno sulle altre realtà, compresa quella famigliare (cfr. Mt 10,37-39; Lc 14,26-27), alla testimonianza data da Gesù con la carità e i segni di potenza, con il perdono e la parola autorevole, di fronte alla potenza dell’azione di Dio manifestata nella carne dell’uomo Gesù di Nazaret, nelle sue parole e nei suoi gesti; insomma, in una parola, di fronte all’“evento Evangelo”.
Mi pare cioè che riflettere sul celibato per il Regno[2] comporti oggi una riflessione critica sul tipo di annuncio e di testimonianza che la Chiesa propone, sul viso che essa presenta, sulla sua azione pastorale e apostolica, sulla sua trasparenza evangelica, sulla radicalità che essa vive, su ciò che essa propone e chiede, ai giovani in particolare. Lo spazio alla scelta del celibato per il Regno si apre in relazione alla radicalità evangelica vissuta e testimoniata. Non mi pare cioè che serva a molto lamentarsi del fatto che oggi, nella nostra società erotizzata, la castità nel celibato non sia certo un dato culturalmente evidente. Paradossalmente questo può far risaltare la libertà e la gratuità insita in una scelta del genere. In ogni caso, anche al tempo di Gesù e nella società in cui lui viveva, il celibato casto non rappresentava certo un’evidenza, anzi! Per di più, anche la “teologia” giudaica non solo non sosteneva né prevedeva, ma contestava apertamente tale prassi come un sottrarsi al comando creazionale di moltiplicarsi spandendo così la benedizione[3].
All’aspetto di relatività si aggiunge quello di relazionalità. Gesù ha vissuto il celibato e questo fatto – su cui gli evangeli conservano il silenzio – va certamente inserito all’interno del particolare ministero di predicazione itinerante, caratterizzato dunque da estrema precarietà, a cui Gesù si è consacrato (egli non aveva “dove posare il capo”: Lc 9,58), ma più in profondità va colto alla luce della speciale relazione da lui vissuta con il Padre, l’Abbà. Relazione che traspare dalla sua preghiera (cfr. Mt 11,25-27; Mc 14,26; Lc 11,2), ma che investe tutte le altre sue relazioni e tutto il suo ministero, la profondità della sua persona, facendo di lui uno spossessato di sé per essere segno e trasparenza di Colui che l’ha inviato (cfr. la prospettiva del IV vangelo: ciò che il Figlio opera e dice è ciò che ha visto fare e ascoltato dal Padre sicché chi vede il Figlio vede il Padre). Ed è in questa relazione con il Padre che risiede il mistero della particolarissima vocazione di Gesù. Vocazione che lo porta ad un netto distacco nei confronti dell’alveo famigliare per testimoniare l’assoluto del Regno! Il brano di Mc 3,20-21 (“un antico frammento di tradizione”: R. Pesch) mostra bene la radicalità vissuta da Gesù e sottolinea un aspetto troppo spesso dimenticato quando oggi si parla di celibato per il Regno. E cioè che questo non è solo rinuncia al matrimonio, ma comporta la netta presa di distanza dalla famiglia di provenienza. Significative, in questo senso, le richieste radicali di Gesù che prospettano la possibilità di lasciare (“odiare” è il semitismo lucano) moglie e figli (cioè, forse, la prospettiva di avere moglie e figli) e anche padre e madre (Lc 8,25). La radicalità esigita da Gesù, che per qualcuno può aver comportato una scelta celibataria, non è volta a realizzare una perfezione individuale, ma all’inserimento in una comunità di vita con il Maestro e con gli altri discepoli che lo accompagnano nel ministero itinerante. Ostacolo all’integrazione nella nuova famiglia di Gesù, di cui criterio di appartenenza determinante non sono i legami di sangue, ma l’obbedienza alla volontà di Dio (cfr. Mc 3,31-35), è la mancata “rottura” nei confronti dell’alveo famigliare (cfr. la redazione matteana dell’episodio della “domanda dei figli di Zebedeo”: Mt 20,20-23). Una visione integrale, non monca, del celibato casto per il Regno esige che si sottolinei come esso implica anche il radicale distacco dalla famiglia di provenienza. Solo allora il celibato sarà vissuto nella libertà e potrà dispiegare le sue potenzialità e le sue energie. La castità, intesa nel suo senso più profondo, è il rifiuto radicale dell’incesto: il casto (castus) tende alla relazione nella libertà accettando l’alterità; l’incestuoso (in-castus) non discerne l’alterità e la differenza. Il discrimen tra purezza e impurità passa qui. Ma questo esige “il taglio del cordone ombelicale”[4]. La libertà, la maturità; la creatività e la dilatazione di relazioni e di amore che il celibato può (e sottolineo il può) permettere è connesso all’assunzione in toto delle esigenze richieste.
Questo implica anche che si comprenda bene il “per il Regno” che motiva il celibato. Quest’espressione “non significa: per lavorare più liberamente per il Regno”[5]. Gesù non afferma la possibilità del celibato per essere più liberi per la missione. Questo però significa dichiarare assolutamente insufficiente e financo gravemente illusoria la motivazione “funzionale” del celibato, spesso ancora oggi ripetuta.
Questo elemento fondamentale di relazione con il Signore (cfr. Mc 3,15) è essenziale al celibato e in esso rientrano anche gli aspetti dell’assiduità con il Signore e della non distrazione ricordati da Paolo in 1Cor 7.
Ma accanto ad esso il NT pone anche la relazione fraterna con altri discepoli nella comunità riunita attorno al suo Signore: “Lasciare la famiglia per mettersi con Gesù coincideva con l’intraprendere una vita comunitaria… Gesù ha puntato fin dall’inizio alla costituzione di una comunità di intimi discepoli”[6]. Anche questo mostra come il celibato per il regno sia motivato dall’amore e finalizzato all’amore. E significa anche, come giustamente annota B. Maggioni, che il celibato si giustifica e diventa praticabile all’interno di determinate coordinate esistenziali e apostoliche: la comunione-comunità e la missione (cfr. ancora Mc 3,15)[7].
Il celibato è la modalità di attuazione dell’amore di Dio con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta l’anima, con tutta la mente, e del prossimo come se stessi (cfr. Mc 12,30-31) che si dischiude ad alcuni nell’incontro con il Cristo, nell’impatto che la radicalità e la bellezza dell’evangelo hanno su di lui. Sì, radicalità e bellezza! L’evangelo predicato e vissuto da Gesù mostra compresenti questi due aspetti di radicalità, esigenza, rottura e di gratuità, bellezza, senso. Il celibato è l’evento (nel senso forte di evento pneumatico: il celibato, infatti, è dono, carisma; esso può solo essere accolto con gratitudine e stupore e ad esso si può solo fare obbedienza) che emerge dall’incontro di una libertà personale con “l’Evangelo”, cioè con tutta la radicalità di richieste che è propria dell’Evangelo, ma anche con la carica di promessa che gli è connessa (cfr. Mt 19,29), dunque con l’apertura di senso e di orizzonte che esso provoca. In questo senso il celibato per il Regno sta all’interno del dinamismo delle beatitudini, della logica pasquale, della morte-resurrezione del Cristo. Ed è questo che deve annunciare e testimoniare.
Ma per essere veramente evangelico, esso deve accompagnarsi a quelle dimensioni cristiane (è Gesù, infatti, l’uomo delle beatitudini)[8] che completano la configurazione evangelica di un’esistenza che si apra alla signoria di Dio su di sé, la povertà, l’obbedienza, l’accettazione dell’altro, la misericordia, il confessarsi peccatore, il non giudicare…[9]. È questa la novità cristiana, sintetizzata nel Cristo che “portò ogni novità portando se stesso” (Ireneo di Lione), che consente a qualcuno il celibato per il Regno come via di realizzazione della propria verità personale, della propria creaturalità, della propria “unicità” (cfr. l’espressione jechidati in Sal 22,21 e 35,17), della propria umanità.
Tale dinamismo di vita può essere scelto solo come risposta all’amore del Signore su di sé (Mc 10,21: “Gesù, fissando il suo sguardo su di lui, lo amò”), e può essere vissuto solo come spazio di unificazione del cuore nell’amore di Dio e del prossimo, un amore che ha come limite la croce. E che è mosso dalla fede e dalla speranza nella resurrezione. Lì la novità cristiana, lì lo spazio al celibato per il Regno. Assunto in quest’ottica esso può veramente essere “gioioso annuncio”, trasparenza dell’Evangelo, avventura di amore, vita filiale sotto l’impulso dello Spirito, creatività di amore che inventa altri linguaggi comunicativi al di là di quello sessuale-genitale. La libertà che Gesù mostra nelle relazioni che intrattiene con peccatori, con donne, con persone giudicate impure, con prostitute, con pubblicani, con malati, arrivando perfino a consentire che nel gruppo di coloro che lo seguivano ci fossero alcune donne (cfr. Lc 8,1-3) – cosa inaudita all’epoca – mostra la possibilità di un celibato casto che si apre ad una dilatazione umano spirituale di amore. E questa dilatazione e creatività è segno del Regno.
Note
[1] Scrive I. GUILLET: “Gesù non parla della castità. La parola stessa non figura negli evangeli e non fa parte del linguaggio di Gesù. Il Cristo ha proposto ai suoi la mitezza, la povertà, il perdono, la fede, ma non sembra averli chiamati direttamente alla castità, né aver proposto loro come esempio la propria castità… Gesù non ha bisogno di predicare la castità, perché egli stesso si trova in una castità radicale… Gesù non ha scelto di essere casto per principio, in nome di un ideale o come mezzo di realizzare qualcosa: egli ha semplicemente scelto di essere se stesso” (La chasteté de Jésus Christ, in Christus 154 [1992], 193-194; l’articolo apparve originariamente nel 1970).
[2] Ho perfettamente coscienza del problema terminologico che affligge la vita religiosa. E non data certo da oggi. “Mai come nel nostro caso è possibile rendersi conto del fatto che le parole, veicolo delle nostre idee, spesso sono inadeguate ad esprimere il quanto di realtà desiderato. Dei vari termini a nostra disposizione: celibato, continenza, castità, verginità, ognuno ha un suo preciso spazio semantico e un suo limite espressivo” (B. PROIETTI, La scelta celibataria alla luce della S. Scrittura, in AA.VV., Il celibato per il Regno, Ancora, Milano 1977, 10). Non mi addentro nella discussione, ma trovo condivisibile la posizione di Lozano per cui “il termine celibato sembra da preferire agli altri” (cfr. J.M. LOZANO. La sequela di Cristo, Ancora, Milano 1981, 162-164). Soprattutto attenendomi alla testimonianza evangelica, assolutamente discreta su questo tema, mi pare che il termine celibato sia quello, quantomeno, meno improprio. Cfr. anche E. BIANCHI, Celibato e verginità, in Nuovo Dizionario di spiritualità, Paoline, Roma 1979, 176.
[3] Secondo R. Eliezer il celibe “è come uno che sparge sangue” (b. Jebamot 63b). Il caso di R. Shimon ben Azzaj (11 sec. d.C.), celibe per amore della Torah (Tosefta Jebamot 8,4), non intacca la posizione generalizzata del giudaismo rabbinico su questo tema. Più fecondo è il rimando al celibato vissuto dagli Esseni e a Qumran, gruppi con i quali Gesù stesso ha probabilmente avuto contatti. In questo ambito si colloca anche lo stretto rapporto (forse di discepolato) vissuto da Gesù con Giovanni Battista, probabilmente anch’egli celibe e che svolgeva il suo ministero e la sua predicazione escatologica nella zona adiacente il sito di Qumran.
[4] P. MIQUEL, Risques et grandeur de la virginité chrétienne, in Lettre de Ligugé 218 (1983), 5.
[5] L. LEGRAND, La virginité dans la Bible, Cerf, Paris 1964, 40.
[6] D. MARZOTTO, Il celibato nel Nuovo Testamento, in La Scuola Cattolica, 110 (1982), 342.
[7] B. MAGGIONI, Eunuchi per il Regno, in Parole di vita, 4 (1987), 46.
[8] B. MAGGIONI, La lieta notizia della castità evangelica, in La rivista del clero italiano 7-8 (1991), 499-507.
[9] Rimando all’articolo di T. CITRINI, La vita consacrata come figura ecclesiale, in Via, Verità e vita, 148 (1994), 49-54.