N.04
Luglio/Agosto 2010

Discernimento spirituale e gusto di Dio

 

 

 

 

  1. La memoria

Un discorso su gusto di Dio e discernimento vocazionale non può prescindere dalla questione della memoria, elemento sostanziale di ogni religione e tanto più per la fede cristiana che talmente valorizza la memoria da arrivare al sacramento, all’anamnesis perenne. Dunque uno dei punti essenziali se vogliamo parlare della vocazione, è certamente la memoria.

Per trovare qualche teologo che abbia affrontato seriamente la questione nella Chiesa latina dobbiamo tornare indietro quasi fino a Sant’Agostino. Il vuoto che si è creato ha fatto sì che la nostra teologia sia facilmente scivolata verso l’astrazione perché la memoria è legata alla persona, perciò è concreta. Non avendo sviluppato una vera dimensione della memoria la nostra teologia pian piano è diventata – mi sia permesso dirlo e in estrema sintesi – un’appendice della filosofia, innescando una sorta di pendolo, con conseguenze molto drammatiche per la Chiesa e per il nostro annuncio nel mondo, con un astrattismo idealista che poi ha legato la teologia alle prassi, alle metodologie molto immediate, come la sociologia e poi la psicologia.

In pratica si è progressivamente chiuso tutto il mondo spirituale nel soggetto, nella sua psicologia e all’interno della sua esperienza personale senza una vera considerazione dello Spirito, relegando nell’al di qua anche il lavoro sulla memoria, non giungendo ad una vera e reale apertura, ad una intelligenza del simbolo dove i due mondi sono compenetrati. È l’assenza del mondo dello Spirito a impedire che la memoria sia quel fertile slancio spirituale e religioso che sbocca nell’anamnesis, nella memoria di Dio.

Se non c’è la memoria, la teologia è facilmente lanciata in un mondo astratto e idealista e poi sbanda nella prassi, producendo quel moralismo che non porta alcun frutto perché è totalmente legato solo alla mia capacità di capire cosa devo fare e di realizzarlo. Ma il passaggio dal Verbo alla carne, alla storia, è la sinergia tra lo Spirito Santo e la persona umana e questo passaggio è il contenuto principale della nostra religione, dunque della nostra memoria. La vocazione è la storia di come in me il Verbo prende forma, corpo, carne, e come io divento cristoforme e questo non è possibile senza l’opera dello Spirito Santo.

Dunque è questa la prima questione da ricordare per non parlare idealisticamente. Se non si toccano la pneumatologia e la memoria non credo troppo che possa succedere qualcosa.

 

  1. Il soggetto e la sua redenzione

Ignazio di Loyola appare nel mondo all’esplosione della modernità e, come il suo contemporaneo Lutero, è convinto dell’importanza del soggetto. La conditio sine qua non è la persona, il soggetto come tale, con la sua esperienza diretta, con la sua conoscenza intima (tutte parole che si trovano nell’uno e nell’altro autore). Ma, nonostante si trovino a vivere in un tempo in cui tutta la cultura si comincia ad ubriacare della scoperta del soggetto, entrambi hanno il coraggio di dire apertamente che il soggetto esiste solo in comunione con Dio, non esiste nessun soggetto come tale, senza Dio.

Ignazio dice che l’uomo senza la comunione con Dio è morto, è un’ulcera, una cosa putrefatta. Se scordasse pur per un solo istante la comunione con Dio, dovrebbe bastare anche il solo timore delle pene che lo aspettano per non staccarsi da lui. L’uomo è redento e salvato da Cristo e se scorda questo è morto di nuovo. Per Ignazio, nella prima settimana di esercizi è molto forte questa presa di coscienza di sé, della possibilità di esistere solo in quanto redenti. Lo vediamo quando cerca di immaginare come è l’umanità senza Dio, quando descrive l’inferno, quando fa vedere che se non sei redento non sei nulla. Senza Dio, per Ignazio, non esiste per l’uomo alcuna possibilità di vita, non ci sono mezzi termini. Il cammino che lui traccia nella presa di coscienza di sé come peccatore spinge ipso facto la persona a stringersi e a invocare Dio. Sono due dinamiche inseparabili: non esiste nessuna presa di coscienza di sé che allo stesso tempo non spinga l’uomo ad una gratitudine per la misericordia di Dio e alla meraviglia per essere ancora vivo. Più è forte la presa di coscienza di sé come peccatore, più Ignazio apre le vie allo stupore che spinge l’anima alla gratitudine per la misericordia di Dio, una gratitudine a Dio, agli angeli, ai santi, alla Chiesa e persino alle creature, ai frutti, agli animali, ai pesci, a tutta la terra.

Siamo lontani da ogni moralismo e da ogni psicologismo: a causa del peccato l’uomo dovrebbe morire e infatti, in un certo senso, è morto, ma una partecipazione universale, cioè di tutto l’universo fa sì che lui possa abbandonarsi a quel movimento nobile che è il pentimento e che lo riporta all’abbraccio del Signore misericordioso. Un’esperienza, dunque, da un lato radicalmente personale e dall’altro universale.

Ora questa dinamica della presa di coscienza del peccato, della bontà del Signore che mi salva, della mia adesione a lui, non porta semplicemente ad una razionalizzazione, ad una specie di autoaccettazione della mia storia, di come è andata e di me stesso. Per Ignazio questo confluisce nella riconciliazione sacramentale, che infatti – cosa molto interessante – è di nuovo un’esperienza personale e universale. Nella presa di coscienza di me come peccatore io passo questa dinamica, personale e universale, e la riconciliazione è un sacramento che io vivo totalmente personalmente, però non è una cosa intimista, ma è un evento liturgico e dunque ecclesiale e universale. È su questo evento personale ed ecclesiale che si fonda la mia personale memoria ed è questo che avrà un’importanza decisiva sul mio cammino in futuro. Nella riconciliazione la mia memoria si sprigiona da me come soggetto e diventa una memoria spirituale e liturgica. Così come nella preparazione alla riconciliazione la mia memoria era continuamente stuzzicata, provocata ad aprirsi a tutto l’universo con cui Dio mi sta raggiungendo, così nella riconciliazione la mia memoria definitivamente sfonda il muro della separazione e si compenetra nella memoria di Dio, diventa una memoria liturgica.

Se la nostra memoria non sfonda nell’anamnesi, nella liturgia, nella memoria di Dio, rimane prigioniera di quelle dinamiche che ben conosciamo. O si farà di tutto per dimenticare, per sfuggire ai ricordi, oppure si cadrà nell’altra patologia che è la nostalgia, lo sforzo di far presente ciò che è passato. Entrambe sono malattie e non è da meno la terza variante, una memoria talmente pressante, dolente e sofferente che la persona identifica tutta se stessa in quella memoria e viene da essa bloccata senza riuscire a passare oltre.

Quando invece la memoria umana si apre a quella di Dio – e questo avviene nel sacramento della riconciliazione – si passa dalla memoria all’anamnesis: è Dio che si ricorda e le cose esistono così come le ricorda Dio. Qui subentra il grande capitolo della pneumatologia, dell’opera dello Spirito Santo. Non esiste nessun accesso alla memoria di Dio senza lo Spirito Santo ed è lui che fa entrare nella nostra memoria l’opera della redenzione di Cristo (cf Gv 14,26).

 

  1. Il fondamento della vocazione

La vera memoria di me stesso, la mia vera immagine è soltanto quella che Dio, che Cristo ha di me perché lui mi ha redento, io sono stato creato e redento da lui. Non è un idealismo astratto, ma un evento allo stesso tempo storico e ontologico. Questo avviene nel sacramento del battesimo: lì Cristo ha avuto di me una visione, un’immagine di me redento ed è questa ora la vera base della mia memoria, questo è il mio fondamento, quello che Cristo si ricorda di me. Nella riconciliazione io recupero questa memoria, mi riapproprio di questa visione. La vocazione è questa memoria, questa visione di me stesso come redento, dell’immagine mia che è quella che ha Cristo di me, o meglio, l’immagine di me stesso come parte di Cristo, del suo Corpo. È la verità della mia memoria da redento. La memoria di Cristo non è statica, è dinamica perché agapica e la vocazione è un processo, un movimento che ha le sue origini nell’esperienza della redenzione, dove io conosco Dio come amore perché faccio esperienza della salvezza. Se manca l’esperienza di essere salvati, non ci può essere vocazione.

Per Ignazio non c’è nessun dubbio che questa sia l’esperienza base, fondamentale per qualsiasi cammino futuro ed è una conoscenza esperienziale razionale. San Massimo il Confessore dice che chi non ha esperienza di Dio come amore non conosce Dio, perché l’amore non si conosce astrattamente, teoricamente, questa è la soglia della verifica del cristiano credente o dell’ateo religioso, perché l’amore non si scopre studiando un libro, riflettendo, considerando: l’amore si conosce esperienzialmente, per conoscere l’amore è necessario uno che ti ama.

Se la conoscenza è astratta, tutto diventa un dovere, un compito e i compiti si scordano, tranne se diventano un’abitudine. Ma essere amati per abitudine non è bello. Abbiamo rinchiuso l’amore nel mondo etico o morale, non ontologico. E poi possiamo dire cose molto giuste su Dio, ma, come dice Macario il Grande, chi parla del miele e non l’ha mai mangiato non convince nessuno.

 

  1. Il gusto di Dio

La conoscenza esperienziale razionale autenticamente spirituale è il perdono dei peccati, perché solo Dio perdona il peccato. Questo è il punto di partenza per impostare un serio cammino vocazionale.

Qui nasce quell’esperienza di Dio che lascia un gusto che non dimentichi più e che diventa quel continuo esame di coscienza che è contemplazione di me stesso in Dio e che continuamente nutre la memoria della redenzione e la rende perciò viva, operante e custodita dalla Chiesa. In questa contemplazione della memoria è come se io dovessi cercare un libro che ho perso. In molti mi aiutano a cercarlo e mi chiedono: è questo libro? No. Questo? No. Questo? Sì. Dice Sant’Agostino che posso riconoscere quel libro perché ho fatto segni, ho piegato una pagina, me ne ricordo molto bene. Ecco, te ne ricordi molto bene perché l’hai già visto. E se ho una giusta immagine di me io posso riconoscere molto bene ciò che fa e ciò che non fa parte della mia vita.

Si dischiude qui una questione della vocazione abbastanza seria. Cioè, se nella redenzione esiste una memoria di Dio di me redento e salvato, quando faccio l’esame di coscienza, quando contemplo la mia storia e la mia vita posso sapere quello che è di Dio e quello che non lo è se ho custodito questa memoria, questo gusto di Dio che ho imparato a conoscere. E Cristo ha questa memoria di me che è custodita nella Chiesa. Non si può accedere alla memoria senza lo Spirito Santo e senza la Chiesa. Allora per Ignazio è così.

Usiamo una citazione da Diadoco di Fotica che su questa linea è ancora più esplicito di Ignazio, che peraltro ha attinto molto da lui. Diadoco dice: «Per senso spirituale (nous) si intende un gusto preciso di ciò che si discerne. Infatti, allo stesso modo in cui, mediante il nostro senso corporeo del gusto, quando godiamo di buona salute, discerniamo senza errore le cose buone dalle cattive e ci indirizziamo verso quelle che ci fanno bene, così anche il nostro spirito, quando comincia a muoversi sanamente in piena libertà da affanni, può sentire abbondantemente la consolazione divina senza mai farsi prendere da quella opposta. Come il corpo, infatti, per gustare le dolcezze della terra possiede l’infallibile esperienza del senso, così anche la mente, quando esulta al di sopra dei consigli della carne, può gustare senza errore la consolazione dello Spirito Santo (“Gustate – dice infatti la Scrittura – e vedete che buono è il Signore”) e conservare intatto, per effetto dell’amore, il ricordo del gusto, per cui distinguiamo con sicurezza ciò che più importa, secondo ciò che dice San Paolo: “È per questo prego: che il vostro amore più e più ancora abbondi in conoscenza e in pienezza di senso, perché possiate distinguere ciò che più importa”» (D. 30).

 

  1. La creatività e la perfezione cristiana

Questo è il fondamento per la spiritualità cristiana sul discernimento, un gusto memorizzato per sempre. Noi non possiamo rischiare di sbagliare il gusto e siccome solo Dio perdona i peccati, il gusto del perdono e della redenzione è appunto “senza errore” e “infallibile”. Perciò, come commenta H. Rahner, si può vivere a Babilonia e a Gerusalemme, città del Signore e città di satana, perché sai che cosa va e che cosa non va, quando tu hai visto bene il tuo libro anche tra mille lo ritroverai sempre. Per Ignazio questo è tanto vero che lui conclude la fase purificativa della prima settimana con una meditazione sull’inferno e apre la seconda con la chiamata del re, per far esplicitamente notare che la vocazione è la chiamata dalla morte, la vocazione coincide con la redenzione e più è forte l’esperienza della redenzione più forte è la chiamata, l’offerta di se stesso.

D’ora in poi Ignazio verificherà solo la maturità dell’amore, l’adesione libera. La sua radicalità consisterà nella concretezza integra dell’adesione dell’offerta. Dopodiché si apre la fase della creatività.

Anche qui ci troviamo nella perfetta scia della tradizione che per arrivare alla salvezza ci vuole l’obbedienza, la penitenza e la sottomissione alla legge per giungere al Salvatore. Ma, una volta aderito al suo amore redentore, ci vuole coraggio e libertà per poter creare.

Coraggio e libertà sono due dimensioni dell’amore che per Ignazio porta il nome di umiltà. Chi non è nell’amore o chi non è umile non è coraggioso, è testardo e chi non è umile e nell’amore vuole essere libero, vuole la libertà senza amore o anche l’amore senza libertà. La libertà, come dimostra molto bene nei suoi scritti Berdjaev, è una dimensione costante dell’amore. L’amore esiste solo se è libero e la libertà esiste solo in quanto parte dell’amore, altrimenti è un idolo che uccide le persone.

Oggi è interessante che si vuole essere liberi però non amare, oppure si esige l’amore però non libero, un imperativo categorico. Perché non c’è la creatività, di cui sono capaci quelli che sono coraggiosi e liberi.

In questo cammino della creatività ci saranno tante tentazioni e tante seduzioni. La creatività in senso teologico significa rendere già oggi presente qui la vita che verrà, cioè fare un vero ponte tra eschaton e oggi, tra la storia e l’ottavo giorno. Perciò creatività significa lavorare sulla perfezione. Ma la perfezione per noi cristiani significa giungere a una qualità di vita capace di superare la morte. E questo l’abbiamo trattato proprio come inizio del cammino spirituale perché è ciò che avviene con il battesimo e la riconciliazione.

Se prendiamo un esempio dall’arte, vediamo che nelle più grandi epoche dell’arte cristiana – romanico, gotico, bizantino – le figure non sono belle. L’arte dei cristiani non cerca la perfezione formale. Loro sanno che non esistono le forme perfette, tutto è corruttibile e distruggibile, tutto è destinato alla morte. La perfezione sta nella nostra fragilità insieme all’azione di Dio in noi. L’uomo è perfetto solo in quanto accoglie in se stesso l’azione di Dio: questa è la perfezione.

 

  1. La tentazione della perfezione secondo il mondo

Se invece manca questa fede, torna la tentazione di preferire una perfezione delle forme elaborata dall’uomo stesso. Da questo scaturisce la mentalità che ci si può perfezionare da soli, si può arrivare alla perfezione stabilita da noi, ci si può salvare da soli. Questo comporta un’ulteriore complicazione. Una conoscenza astratta, moralista di Dio non aiuta a chiarire la questione della salvezza dell’uomo contemporaneo e di conseguenza l’uomo considera se stesso esistenzialmente solo come entità psico-somatica. Questo vuol dire che anche i suoi limiti, le sue imperfezioni, i suoi drammi li comprende solo a livello psicosomatico, perciò la salvezza stessa è circoscritta a questi due mondi. E in questi due mondi l’uomo si redime da solo, con diverse tecniche e diverse scienze. Dio può essere visto come un optional. Allora escono le vocazioni pulite, a livello pedagogico e psicologico ordinate, ma quasi senza nessuna conoscenza di Dio e dunque neanche di se stessi. Dio rimane lontano, astratto, per cui io per la mia buona volontà faccio qualcosa, ma certamente non perché sto bruciando del suo amore. Questo modo di procedere è certamente quello che tra altri elementi ha fatto sì che l’Europa si sia spopolata dalla fede cristiana e che la Chiesa venga sempre più intesa come un’organizzazione dedita ai valori socialmente utili, ma non indispensabili, perciò ricambiabili, o alle volte addirittura eliminabili.

Qui c’è il bivio della tentazione nella nostra creatività. Quando i nostri fondatori creavano le opere apostoliche lo facevano nell’ottica della creatività cristiana, nell’ottica della perfezione cristiana. Ma la tentazione di assumere le forme del mondo importate come perfezione è tremenda e la conseguenza tragica che fa bruciare le vocazioni. Una vocazione che sorge sulla scia dell’esperienza della salvezza vuole offrire la propria vita per quella perfezione affinché l’uomo unito a Dio viva in eterno. Quando poi vede che sta spendendo i suoi anni per un’opera che semplicemente insegue una norma del mondo, della società intorno a noi, o che altri riescono perfino a farlo meglio, la vocazione si spegne, si curva su se stessa e le persone divengono impiegati, di scuola, di ospedali, di vari centri. E dove questo si vede di più è la vita comunitaria che è possibile solo da uomini nuovi. Opere buone può capitare che le facciano anche i pagani. La libera comunione con le persone è propria solo della Chiesa, dei battezzati, della vita nuova.

Una conoscenza solo teorica e astratta è molto vulnerabile alla seduzione delle forme perfette elaborate dal mondo, perché il nostro idealismo, il moralismo, i nostri valori sociali, culturali, psicologici ci lasciano prosciugati. Il moralismo ci può far sentire riusciti, grandi, importanti, protagonisti, ma certamente non può riempire il cuore umano del sapore della vita e della felicità. Pian piano si diventa stanchi e le nostre azioni diventano sterili. Non suscitano la vita negli altri. Allora, per sentire un po’ di vibrazioni della vita, si è tentati dalla sensualità e il mondo ha sempre molte offerte cariche di potere, di successo, di realizzarsi per sentirsi qualcuno. E questo è molto attraente per chi è molto asciutto. Per chi da molto tempo non ha mangiato niente, anche una scatoletta di carne è buona, ma se uno ha mangiato una fiorentina almeno una volta nella vita la scatoletta non gliela fa mangiare nessuno! La questione è molto seria. Siamo tremendamente tentati di gareggiare con il mondo, continuamente.

Quando ci siamo resi conto che i nostri ideali non sono più quelli della maggioranza abbiamo cominciato a correre dietro agli altri. E la teologia che una volta era la visione dell’insieme, adesso è diventata teologia di… teologia di… Tutto è frantumato. Ma rincorrendo questi modelli si finisce per crearsi una vocazione con una perfetta immaginazione sensuale di se stessi: chi vuole essere sacerdote, chi vuole sposarsi lo fa con una immaginazione totalmente sensuale, cioè con l’immagine della perfezione mondana: mai ammalato, mai contrastato, mai ripudiato, mai a terra, sempre con successo, applausi, tutto secondo un andamento facile che finisce per rendere la persona asciutta dentro e aggrappata ai moduli di successo, di autorealizzazione, pensati, proposti dalla cultura maggioritaria.

 

  1. Alla fonte della vita

Per essere immuni alle seduzioni dei modelli di perfezione che cercano di essere trapiantati dal mondo nella Chiesa bisogna essere radicati nella fonte della vita e avere un continuo nutrimento, razionale ed esperienziale di Dio come amore che redime e trasfigura.

Questa unione con Dio va vissuta in modo così integrale che i nostri sensi spirituali illuminano, purificano e trasfigurano con il loro sapore e gusto anche i sensi che sono più direttamente aperti ed esposti alla seduzione mondana. Sant’Ignazio nella sua Autobiografia fa vedere con chiarezza come si può evitare la seduzione delle perfezioni mondane e della sensualità, di avere di se stessi sempre un’immaginazione sensuale. Invece, quando il cuore umano assaggia una vera felicità spirituale, un vero sapore di Dio, questo diventa quel criterio forte che mette in ombra tutto il resto, addirittura lo elimina e orienta i nostri sensi verso il cibo che dà la vita, verso il Signore, allontanandoci dal paese della schiavitù e delle false consolazioni.

«Ormai i pensieri di prima stavano scomparendo, grazie ai santi desideri che aveva e che gli furono confermati da una visione in questo modo: Una notte, mentre era ancora sveglio, vide chiaramente un’immagine di Nostra Signora con il santo Bambino Gesù. A tale vista, durata un notevole spazio di tempo, ricevette una consolazione molto intensa e rimase con tale schifo di tutta la sua vita passata, specialmente delle cose carnali, da sembrargli che fossero scomparse dall’anima tutte le immaginazioni che vi teneva prima impresse e vivamente raffigurate. E così, da quel momento fino all’agosto 1553 in cui si scrive questo, non diede mai neppure il più piccolo consenso alle sollecitazioni della carne; e proprio da questo effetto si può giudicare che la cosa veniva da Dio, anche se egli non osava sentenziarlo con tutta certezza e non diceva nulla di più che affermare quanto detto sopra. Però, sia il fratello che tutte le altre persone di casa capirono dal comportamento esterno il cambiamento che si era prodotto nella sua anima interiormente» (A. 10).