Pedagogia delle scelte di vita: conoscersi, discernere, decidersi per Cristo occuparsi specialmente del progresso delle anime
Il tema che mi è stato proposto tocca la dimensione antropologica del processo del discernimento e della formazione. Qualche settimana fa abbiamo chiesto a un gruppo di persone vicine a noi gesuiti di commentare alcuni aspetti della Charitas in Veritatae, l’ultima Enciclica del Papa. Credo che il focus, l’attenzione dell’Enciclica, in cui la tesi fondamentale sembra essere il tema economico,antropologico, biologico, politico… – però questo non basta – vada ricondotto a ciò che la persona è in tutta la sua realtà, e questo è cruciale.
Anche la cultura attuale ci porta verso un approfondimento in cui la visione antropologica è importante.
- L’uomo mistero
Vorrei introdurmi con la preghiera paolina della Lettera agli Efesini (cf Ef 3,14-19) in cui San Paolo invita a contemplare le dimensioni del mistero di Cristo, ma anche del mistero della persona umana. Paolo chiede al Signore che possiamo aprirci a tutte le dimensioni di questo mistero: l’altezza, la profondità, la larghezza e l’ampiezza.
Non è solo una dimensione da considerare, non è solo l’altezza ad elevarci al divino, non è solo uno scendere nel profondo dei vari inconsci, o rivolgersi alla cultura o alle relazioni sociali, cioè all’ampiezza e alla larghezza che oggi, lo vogliamo o no, ci viene imposta. È l’insieme di tutte queste dimensioni che ci aprono al mistero.
I Sinottici, presentandoci l’invio in missione dei discepoli, sottolineano due aspetti importanti. Gesù, come riferisce Matteo in modo sintetico e chiaro, dice: «E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7). Quella che Gesù affida è una missione di trascendenza, di religiosità, di spiritualità. Ma Gesù dice pure: «Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni» (Mt 10,8). Quasi a dire che non basta questo annuncio formidabile, meraviglioso… bisogna disporre gli animi, preparare le vite anche con una guarigione. Quindi non è solo un guarire fisicamente, ma è dare l’udito ai sordi, la vista ai ciechi, la parola ai muti, cioè, simbolicamente, permettere alla persona di essere, nella sua realtà antropologica, ciò che è chiamata ad essere.
- Il mistero minacciato
Ho raccolto una sintesi tratta dal romanzo di Umberto Eco, Baudolino, che, parlando del passato, del Medioevo, indica tre aspetti in cui possiamo dire che questo mistero è minacciato.
La prima grande minaccia è credere che la verità non esiste per se stessa, cioè è soggettiva, esiste solo nella nostra mente, siamo noi ad inventarla. È una grande minaccia alla pienezza antropologica del mistero: «Tu la pensi così, io la penso così: io ti rispetto – se riesco a rispettarti – ma non chiedermi di fare un cammino verso una verità oggettiva». Siamo tutti un po’ rinchiusi in questo soggettivismo.
La seconda minaccia sottolineata nel romanzo è che la politica è fondata sul potere. Non solo il pensiero quindi, ma anche l’azione. Se la politica è fondata sul potere, il potente può usare il potere per fare del bene, ma per conservare il potere deve fare il male. Famosa la frase: «Tu non sei imperatore perché hai le idee giuste, ma le idee sono giuste perché vengono dall’imperatore».
Terza considerazione è che la vita è un gioco di passioni, di amori, di credenze fasulle, di falsificazioni, di inganni; non c’è di meglio che immaginare altri mondi per dimenticare quanto doloroso sia quello in cui viviamo. Ma la fuga non è sempre una soluzione.
Ognuno di noi potrebbe, a tal proposito, fare riferimento alla propria esperienza o ai tanti esempi di persone che abbiamo incontrato.
Ho rilevato questo aspetto tratto dalla letteratura perché mi sembra interessante trovare la corrispondenza tra questa visione letteraria e una riflessione che trova d’accordo da un lato un filosofo, Paul Ricoeur, e dall’altro uno psicologo psicanalista di scuola più recente, Heinz Kohut. Ricoeur, scrivendo un articolo su Kohut, si incontra in un certo senso da filosofo con l’analisi del mondo, anche psicologico, in cui vive oggi la persona.
Egli presenta tre minacce:
– la frammentazione, che corrisponde al conoscere. Il giovane sa molte più cose di quante ne sapevamo noi, ma sono molto spesso dei flash, delle informazioni che non sempre trovano una coerenza. Non c’è un fine e ciò che è minacciato è il senso, il significato. Un ragazzo al secondo anno di Economia, molto intelligente, l’altro giorno si chiedeva: «Perché fare tutto questo, cosa ci serve, dove andiamo?». Ed era una domanda sentita, profonda, un senso di non significato.
– Nell’ambito dell’azione vi è un senso di depressione dovuta a una mancanza, a una minaccia alla fermezza della volontà e quindi di una libertà che possa impegnarsi. Quindi oggi l’impegno è difficile. Molte volte lo sentiamo dire nei confronti del matrimonio, ma anche della vita religiosa, della vita missionaria, del sacerdozio.
– La disarmonia, che dovrebbe invece essere una certa forma di armonia, di consistenza interiore: quali amori ci abitano? E come siamo riusciti a integrarli? Questa è oggi area minacciata. C’è da una parte il grande slancio mistico, dall’altra il tentativo di droga, di sessualità confusa.
- L’orizzonte della persona mistero
Qual è l’orizzonte antropologico della persona concepita non come un meccanismo, come un insieme di qualche istinto, di qualche pulsione o di qualche capacità, ma – come diceva San Paolo – come mistero?
Sant’Agostino diceva, evocando l’elemento di altezza della persona umana, che Dio sarà sempre al di là («Superior summo meo»): posso alzarmi quanto posso, ma Dio sarà sempre al di là. C’è questa dimensione di trascendenza nella persona umana che costituisce quello che siamo. Ma c’è anche la dimensione della profondità.
Non è solo il Salmo che l’aveva già detto: «Se io scendo nel profondo tu sei già là». Sant’Agostino ripeteva: «Interior intimo meo», che potremmo intendere come: “Io credevo di essermi capito. Ho capito quasi niente, ma lui c’era già, là in fondo”. D’altra parte vi è l’elemento sociale, orizzontale, che oggi ci provoca con molteplicità di interpretazioni, di relazioni che ci arricchiscono, ma ci sfidano anche.
Cosa facciamo di tutto questo materiale che ci viene, che è ampio, che è lungo, che è largo, ma che spesso non riusciamo a mettere in una visione coerente, in un impegno coerente? Caratteristica dell’essere umano è l’inquietudine, l’ansia, l’aspettativa. Sant’Agostino diceva: «Inquietus est cor nostrum» e non troverà riposo se non quando si riposerà in Te. L’uomo è un cuore inquieto.
Vediamo quindi che questa dimensione è da un lato tesa tra due tipi di quiete, di riposo: la felicità, alla fine, il punto d’arrivo, il compimento di tutte le aspettative, e il piacere, quel momento in cui sembra aver raggiunto un equilibrio, una pienezza, un godimento di qualcosa che soddisfa. Ma sappiamo quanto sia passeggero il piacere, quanto svanisca e ci spinga avanti; e quanto la felicità sia inarrivabile in senso pieno quaggiù.
Quindi la situazione antropologica fondamentale è una situazione di inquietudine. Siamo in questa ansia ed è quindi in gran parte una questione affettiva. Tutto il nostro lavoro formativo non vuole ignorare l’elemento del logos, della rivelazione, della verità, delle verità ultime… Ma dobbiamo aprirci e non possiamo ignorare di essere un corpo, un bios.
Diceva Ricoeur che la ricchezza della soggettività umana la possiamo riscoprire attraverso il pathos. Come noi abbiamo organizzato fin da bambini, o dal seno materno, il sentire, che non è fuori di questo quadro aperto alla Verità, al Logos, al trascendente… ma che ha trovato in ciascuno di noi un modo di sentire, o un modo di agire, e anche un modo di giudicare, un modo di vedere?
Era una visione psicologica che riprendeva anche da Freud. Lo stesso Ricoeur diceva che c’è nella psicanalisi tutta una visione che riguarda il significato e c’è tutto un insieme di considerazioni che riguardano le forze che sono operanti in noi.
Noi possiamo discutere sui significati della vita come farebbe una filosofia un po’ disincarnata, ma vi è anche un discorso su quali sono le forze che agiscono in noi, più o meno oscure. Ed ecco quindi l’area dell’affetto, che è sempre un po’ una sintesi di questi due poli: un polo cognitivo e un polo operativo. Ecco una ricchezza che è facile ridurre, non permettere che si esplichi in tutta la sua portata. In questo quadro potremmo rappresentare la grande sfida formativa.
- La lotta umana e la lotta religiosa
C’è nella persona umana come un tipo di lotta, un confronto. Abbiamo visto che si parla di ansia, di attesa e quindi anche di lotta. Ma una lotta che è religiosa. Sant’Ignazio negli Esercizi Spirituali dice: «Bisogna lasciare l’esercitante da solo davanti a Dio». Lo scopo è incontrare Dio. L’Antico Testamento diceva: «Non posso vedere Dio e rimanere in vita». Mentre il Nuovo Testamento ricorda: «Non potete seguirmi se non rinunciate a voi stessi, se non morite a voi stessi». Questo non viene molto naturale: è una lotta.
Di Von Balthasar è un libretto breve, molto interessante, intitolato Il cristiano e l’angoscia, in cui la tesi fondamentale è che l’unica ansia concessa al cristiano è quella di perdere il suo Dio. Dio si era dato a noi nell’ordine della Provvidenza, l’abbiamo perso, si è ridotto nella via pasquale, che ci chiede di morire. L’unico pericolo, l’unico vero danno è perdere Dio. Una visione radicale, vera, ma che ci permettiamo di mettere in questione o per lo meno completare.
Nei miei incontri con i formatori dei seminari del Messico, delle Filippine, della Spagna ho chiesto di fare una lista delle difficoltà che incontrano con i giovani che entrano in seminario. Dalle loro risposte il 95% delle difficoltà fatte emergere sono di ordine umano e psicologico. Ho provato una piccola soddisfazione per il fatto di aver passato una vita interessandomi di questo ambito, ma anche tristezza, perché mi interrogo se è possibile che quasi nessuno sia preso da difficoltà inerenti al progresso religioso, spirituale, a difficoltà con la gerarchia della Chiesa, a difficoltà anche un po’ teologiche… quasi nulla! Le difficoltà riguardano l’identità, l’affettività, la solitudine, l’aggressività, l’autonomia, il senso di vuoto, il rapporto con la famiglia d’origine…
Se il cardinale Von Balthasar fosse qui gli direi: «Le sono grato di ricordarci che fondamentalmente la nostra lotta è con e per Dio. Ma mi permetto di dirle che quando io cammino con qualcuno, le difficoltà, le lotte, le preoccupazioni non sono immediatamente di vedere Dio e di morire per lui. Siamo preoccupati di noi stessi, delle nostre relazioni, di cosa faremo nella vita, di come riusciremo a trovare qualcuno che ci ama…». Quindi esiste una lotta che chiamo psicologica, umana, che in un certo senso si rivolge all’interno dell’io.
Semplificando moltissimo, potremmo dire che la grande sfida educativa sarebbe quella di riuscire a integrare, a far non solo dialogare, ma a far interagire questi due ambiti, a far sì che la lotta umana diventi lotta religiosa e che la lotta religiosa non sia uno schema vuoto, ma sia la benedizione, l’integrazione di questa lotta umana.
Molto spesso una certa direzione spirituale si domanda: qual è la volontà di Dio? C’è Dio e ci sono io: cosa faccio? Cosa vuoi da me? Cosa ti offro? Tutto questo va fatto, ma chi sono io? Chi è questo io che si presenta a Dio? È un io che può prendere in mano tutta la sua persona?
C’è una frase dell’Antico Testamento molto pregnante che dice: «Io non voglio sacrifici di tori, di agnelli e di colombe. Voglio un cuore contrito». Andiamo a presentarci a Dio nella seconda e nella terza settimana degli esercizi e gli offriamo un toro, un agnello… o gli offriamo veramente noi stessi, quello che siamo, con tutta la nostra vita?
Senza dilungarmi, vorrei raccontare una storia di un giovane, fondamentalmente sano, alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale. Sta per fare la scelta, deve dire sì e si innamora di una ragazza, la quale si innamora di lui abbastanza fortemente. Tutto ciò viene portato al livello di una ricerca di direzione spirituale aperta, ragionevolmente onesta, non di fuga. «Come mai? Preghiamo. Cosa succede? Cosa c’è?»… Ma le settimane passano e bisogna decidere. C’è una grandissima inquietudine. Un’inquietudine che Sant’Ignazio direbbe non essere quella buona, non ha la pace. Brevissima storia di questa persona: figlio di una famiglia agiata, con un padre molto di successo, un grande professionista, che è stato molto esigente con lui, gli ha anche dato una “struttura”, ma non l’ha sostenuto. Quindi rimane da un lato l’ambizione di realizzare qualcosa che valga nella vita, eventualmente in competizione con questo padre, ma anche il dubbio di non riuscire a fare come il padre. Questa è una lotta umana, che si inserisce in un contesto di una vocazione. Senza ridurre tutto a questa lotta, si può capire come, per questo giovane, diventare sacerdote risolva anche un grosso problema: mio padre su questo lo vinco uno a zero e non entro in competizione su un altro livello. È una cosa che vale, a cui io voglio donarmi, ma mi permette anche di risolvere un problema.
C’è quindi un sottofondo che indica la possibilità che questa unificazione di un cuore contrito sia messa in difficoltà da influssi che qui vengono chiamati subconsci, da una difficoltà di vita.
Problema di questa persona è che c’è un grande senso di inadeguatezza sottostante, coperto da una grossa competenza, una capacità, acquisita fin dagli anni della formazione a motivo del padre esigente: «Devi fare così… riesco bene a scuola… faccio bene… ma sarò veramente soddisfatto, apprezzato, riconosciuto, amato?».
Arriva il volto dolce di questa signorina, che diventa quasi una terapista: «Tu sei l’uomo della mia vita, tu vali». Per la prima volta questa corda suona in un modo piuttosto robusto. Vediamo subito che non ha molto a che fare con un certo tipo di sesso, ma con qualcosa di affettivo molto robusto. In questa situazione si viene a creare una scelta: sacerdozio celibe, nella Chiesa cattolica romana? Oppure famiglia, fanciulla, figli?
Il sacrificio qual è? È sacrificare l’agnello o la colomba, o qualcosa che c’è dentro? Finché la lotta è tra due oggetti di rinuncia, l’inquietudine rimane. Solo quando questo elemento del cuore contrito viene preso in mano e viene eventualmente sacrificato – nel senso di santificato, portato alla luce, offerto, messo in contatto veramente con un valore – ci può essere un passo di libertà, di vero impegno.
C’è una fragilità che è il vero punto dolens per questo giovane: il senso di non valore che lui ha di sé. Tutta la sua personalità è stata costruita sul fatto che deve essere qualcuno, che vale, che può affermarsi.
Se ora viene la fanciulla e gli dice: «Ti voglio bene» non sa ancora come affrontarlo, perché non conosce questa parte di sé.
Questo è l’esempio di una lotta che potrebbe rimanere soltanto una lotta umana, una lotta con degli oggetti da scegliere, con alcune motivazioni più o meno consce, più o meno integrate, ma che di fatto non riescono a porsi come lotta tra me e Dio. Dio mi vuole come questo io con un cuore contrito, nel senso di tutta la mia vita, di quello che io sono. Sant’Ignazio mi direbbe: «Se nel momento della settimana in cui fai le elezioni questi elementi li hai in mano è molto probabile che la tua scelta, verificata nel tempo, sia quella giusta. Se invece fai un salto in avanti o dicendo: “Il Signore mi vuole, vuole da me che io sacrifichi la fanciulla”… Il Signore non vuole che tu sacrifichi la fanciulla, vuole che tu sacrifichi te stesso davanti a una fanciulla, con quello che significa. Non vuole che tu rinunci al sacerdozio, ma vuole che rinunci a te con quella tua componente che potrebbe chiamarti».
- Chiamati ad accompagnare ad incontrare il personale mistero
Operativamente noi, come formatori, cosa facciamo? Siamo chiamati ad accompagnare questa persona alla ricchezza dello sviluppo, del compimento di quella che è la sua realtà antropologica attraverso l’affrontare quell’inquietudine del suo cuore in modo che possa raggiungere in vari modi, in vari passi, in vari periodi della sua vita la comprensione che l’inquietudine non è solo l’ansia psicologica, al limite patologica, o soltanto umana… ma quelle domande molto reali che porta in sé diventino la pasta, il corpo su cui la domanda, l’inquietudine religiosa, l’inquietudine della lotta in Dio si realizzano. Altrimenti avremo sempre i due compartimenti stagni: «Vado a Messa la domenica per fare la cosa più radicale possibile. Dal lunedì al sabato mi occupo dei miei affari, che non hanno molto a che fare con la Messa della domenica».
In modo molto più sottile e molto più sofisticato, molto meglio costruito, ma l’idea è questa. Come mai, dopo un anno di ordinazione, scoppia la crisi? È possibile che questa costruzione, questo affondare l’io di cuore contrito non sia avvenuto. E quando, nel momento dell’incontro o dell’urto, la realtà esterna, tutta la realtà interiore viene ad essere riscoperta o rimessa in causa. Quindi il disegno antropologico diventa in qualche modo più concreto attraverso l’articolazione di queste due grandi aree della vita: quella specificamente religiosa, che ha a che fare con l’incontro con la lotta con Dio e tutto un insieme di componenti, di lotte, di drammi, di conquiste e di successi, che nel corso della vita hanno dato significato e valore a quello che io sono.
Sant’Ignazio dice: «Sei pronto a mettere in questione tutto questo?». La famosa indifferenza, che è richiesta per mettersi in cammino, non è un non interesse, un negare il problema, ma è una disposizione a mettere sul piatto tutta la realtà. È chiaro che l’individuo può proclamare questa disposizione. Il grosso problema è quando non ci sono la capacità e la possibilità.
Soggettivamente l’individuo pensa: «Io voglio mettermi in questione, io sinceramente cerco». Ma quante altre forze, quanti altri elementi sono all’opera al di sotto e non sono a disposizione?
I Padri della Chiesa l’avevano già detto: questo cammino non si fa da soli. Ci vuole uno che ascolti e che guardi, che veda, che interpreti e aiuti a procedere. Come ci avviciniamo a questa realtà complessa? Posso avvicinarmi con il tentativo di spiegazione: come mai è successa la seconda guerra mondiale? Quali i fatti che l’hanno causata? Potremmo chiederci: come mai questa persona adesso cerca la vocazione?
La vecchia visione psicanalitica tendeva molto, per lo meno in alcuni approcci, a spiegare: «Te lo dico io. Tua mamma non ti ha voluto abbastanza bene e quindi tu cerchi Dio che compensi. Questo spiega il tuo atteggiamento religioso». Io posso arrivare alla comprensione: «Mi dica cosa vuol fare della sua vita?». «Voglio offrirmi tutto per il Signore, voglio chiudermi nella certosa per contemplare in silenzio il Dio dell’eterno». «E lei può stare zitto per cinque minuti?». «No!». Ma c’è questo desiderio soggettivamente espresso di un piano di vita. Se io mi fido, per avvicinarmi alla persona cerco di comprenderlo a partire da quella che è la sua visione di se stesso, soggettiva, potrei anche rimanere deluso dopo un po’. E – dice Ricoeur – quando si tratta del testo della storia umana, della storia personale, di fatto noi facciamo sempre un’interpretazione. C’è un dato e c’è un elemento soggettivo.
Noi dobbiamo vedere come la persona è riuscita a integrare, come di fatto combina queste cose. Devo interpretare, devo vedere quali elementi innati e quali soggetti sono intervenuti lungo la storia della persona.
Ecco il discernimento. Ecco il paziente lavoro di interpretazione, cioè riconoscere come quell’elemento del passato oggi fa di te quello che tu sei e che ti chiede di offrire, davanti a Dio, la colomba e il toro o l’agnello. Chiede di interpretare con quale libertà affettiva lo si compie.
Quindi il nostro compito formativo si inserisce in un processo cognitivo che richiede una disciplina, un’attenzione, una coscienza di ciò che nella vita umana può essere capitato, senza – da un lato – fidarsi a occhi chiusi delle buone intenzioni che la persona presenta. Non che dobbiamo buttar via queste buone intenzioni, ma è importante chiedersi se sono veramente buone le intenzioni o sono segnate, parzialmente inquinate, condizionate, determinate, da altre forze che forse scoppieranno domani, dopodomani, fra dieci anni. Nessuno pretende di avere certezze riguardo alla scelta vocazionale di chi accompagna, ma il tema si pone.
- Alcune difficoltà
Abbiamo evidenziato che quando il soggetto si presenta davanti a Dio non sempre entra in un facile dialogo con tutto se stesso, perché è presente in lui un passato, c’è una storia personale, ci può essere un influsso inconscio di qualche realtà non totalmente considerata.
Potremmo al limite anche verificare che è presente una patologia. Quante volte mi è capitato di sentire che, quando si presenta un problema, la persona in formazione viene mandata da un esperto. C’è da domandarsi: ma questo basta? E di tutti gli altri problemi che emergono e che forse immediatamente non appaiono cosa ne facciamo? Aspettiamo che scoppino dopo l’ordinazione o la professione religiosa?
Qual è l’entità della difficoltà che potrebbe rendere difficile questa sintesi della lotta umana con la lotta religiosa? Potremmo considerare un’area che più colpisce perché maggiormente evidente, chiamata “terza dimensione”, cioè quella presente in persone decisamente disturbate, che hanno problemi psicologici abbastanza marcati. Dalle statistiche questi raggiungono circa il 21%.Tutte le altre categorie di persone ricadrebbero nella fascia dei cosiddetti normali, quelli cioè che non hanno problemi evidenti, per cui si considera sufficiente far fare un cammino di direzione spirituale, insistendo particolarmente sulla dimensione spirituale.
Però c’è da chiedersi se anche questi giudicati normali (79%) saranno veramente capaci di andare avanti da soli, se si apriranno agli impulsi della Grazia, o se invece procederanno con una libertà condizionata, non conoscendo una parte di se stessi, e quindi si decideranno su una base insufficiente, presentando in avvenire anche problemi più consistenti.
Il punto è soprattutto questo, che di quelli cosiddetti normali un 23% dell’insieme si può ipotizzare che comunque andranno avanti.
Gli date un seminario ben maturo, ben funzionante, un discreto padre spirituale, un rettore in gamba… loro sanno usare anche i mezzi meno adeguati perché c’è una certa maturità. I cinesi dicevano che il saggio impara anche dagli sciocchi e lo sciocco impara dai saggi. C’è però un 56% il quale non viene mandato dallo psicologo perché è abbastanza normale. Questo non significa che tutte le sue tensioni interne abbiano raggiunto quell’insieme di armonia che permette di fare veramente un passo verso una decisione stabile di vita.
Quindi ribadiamo quanto sia importante avere nell’accompagnamento un’attenzione all’area antropologica che non è soltanto uno schema strettamente spirituale, di superarsi per incontrare Dio, ma che tenga presente le lotte interne.
- Quale tipo di pedagogia?
Da queste considerazioni emergono oggi anche linee pedagogiche differenti.
Esiste una pedagogia soggettiva che in un certo senso ignora l’ideale, l’oggettivo.
Ricordiamo la minaccia all’antropologia venuta da questa enorme ondata virtuale, da questa frammentazione, dal soggettivismo di cui sentiamo spesso anche il Papa parlare. Questo modello evidenzia che il soggetto crescerà se è capace di esprimere le proprie emozioni. Ne deriva una pedagogia salmica perché nei salmi si esprime ciò che uno sente: l’ira, l’abbandono, il dolore, la fiducia. “Io cresco esprimendo le mie emozioni”.
Vi è anche una pedagogia oggettiva che sottolinea maggiormente il dover essere. In essa si evidenzia in particolare ciò che bisogna fare. Spesso i giovani oggi cercano luoghi in cui avere sicurezze. Spesso si ricercano quei seminari che sembrano in un certo senso delle accademie militari. Da qui emerge una pedagogia sapienziale perché nei libri della Sapienza si ribadisce: «Ascolta figlio i precetti dei padri». Si fa così. Lo hanno detto gli antichi, lo diciamo noi… Non discutiamo tanto: lo fai perché te l’ho detto io. Di fatto molto spesso poi ricadiamo in questo tipo di pedagogia quando giovani in procinto di una scelta di vita esprimono i loro dubbi: «Non so se devo essere ordinato o no, se devo fare i voti, se devo andare avanti…». Spesso la risposta è: «Va’ avanti, stai tranquillo, tu sei bravo». Forse questo può essere vero, ma può anche essere che tra dieci anni diranno: «Ma quando io ero in seminario ho suscitato questi dubbi e il padre spirituale mi ha detto di andare avanti…».
D’altra parte noi vorremmo poterci orientare su una pedagogia parabolica capace di un’ermeneutica della domanda di partenza. Molto spesso la domanda non emerge neppure chiaramente. Per esempio: «Perché cerchi la missione?». Risposta: «Per far del bene». Possiamo domandarci: «Ma è tutto lì o c’è qualche altra cosa?». E in positivo: «Forse tu stai cercando di più». L’ermeneutica della domanda porta a interpretare quello che può esserci veramente nel cuore dell’uomo.
La pedagogia cerca di esaminare, di avere strumenti per leggere e far emergere di più di quanto non emerga a prima vista. Il silenzio, il confronto con alcune realtà anche forti: sei pronto anche a cercare l’umiliazione dell’ultimo posto? Come reagisci in queste cose?
Rispettare profondamente la realtà antropologica del mistero, mettere in dialogo veramente il soggetto con la realtà.
Abbiamo letto nei giorni scorsi nella Liturgia una vignetta di cosa significhi pedagogia parabolica: l’incontro di Pietro e Giovanni con lo storpio alla porta Bella del Tempio. È un clima della risurrezione, un clima nuovo, in cui si ritorna alla realtà di tutti i giorni. Pietro e Giovanni vanno al Tempio dove c’è questo poveraccio che è storpio fin dalla nascita e che chiede l’elemosina. Cosa vuole? Ha una domanda, una richiesta: soldi, monete. Pietro e Giovanni forse lo hanno già visto altre volte, ma sono andati oltre. Stavolta lo vedono e gli dicono: «Guardaci. Entra in un contatto personale, diretto. Guardaci negli occhi». Poi fanno l’esegesi della domanda: tu vuoi del denaro, la tua domanda è soddisfatta da un po’ d’oro o argento. Ma io questa risposta non te la posso dare, perché non ho denaro, non ho né oro né argento. Ma ti do qualcosa di più: guarda che nella tua domanda forse ci potrebbe essere qualcosa di più. Quale di più? Guarire, camminare e scoprire eventualmente che questa guarigione ti viene data in nome di colui che si chiama Gesù Nazareno.
L’orizzonte cognitivo si allarga da un oggetto materiale a una vita diversa: una professione, un lavoro, una indipendenza, un’autonomia… Da paralizzato che si fa portare passivamente da altri al luogo in cui mendicare, all’autonomia, alla libertà. Adesso sarai libero e autonomo. E ancora, in questo c’è una gioia, c’è un clima di esaltazione. Quest’uomo si mette quasi a danzare e tutti si meravigliano positivamente.
Vi sono quindi tre sfere antropologiche che sono la conoscenza, la libertà che si impegna, l’affettività che viene trasformata da una certa depressione.
Non abbiamo di fronte a noi uno storpio come hanno avuto Pietro e Giovanni. Ma abbiamo qualcuno che in qualche modo ci presenta delle domande che rimandano a qualcosa che non è del tutto funzionante. Non ci presentano qualche volta la domanda tutta intera, o ci presentano una domanda troppo intera che non ha molto a che fare con l’altra, sottostante, più nascosta.
La pedagogia interpretativa non è un’antropologia riduttiva che dice: «Va bene, se proprio sei storpio, vai dal medico». Noi non abbiamo sempre solo il medico, non abbiamo neanche soltanto l’angelo che ci porta a vedere Dio faccia a faccia, ma riconosciamo che c’è un dramma umano che ha dei risvolti, che è necessario siano integrati in modo da potersi mettersi realmente in cammino.
[1] Testo non rivisto dall’Autore.