Il ministero della consolazione: sacramento della riconciliazione e direzione spirituale
Sull’argomento evocato dal titolo di questo Seminario – “Collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24). Il sacramento della riconciliazione e la direzione spirituale – esiste una letteratura molto ampia e ad essa conviene senz’altro rimandare[1].
Ma qui, in particolare, vanno ricordati due documenti: il primo in ordine di tempo è Evangelizzazione e sacramento della Penitenza e dell’Unzione degli infermi, prodotto dall’Episcopato Italiano il 12 luglio del 1974. In esso era ripresa la dottrina di quei sacramenti e venivano proposte alcune linee pastorali che, a nostro giudizio, mantengono la loro validità. Sarebbe molto arricchente, pertanto, riproporne la lettura e lo studio. Il testo, infatti, offre una trattazione ampia, ponendo l’accento sulla necessità di preparare e accompagnare i fedeli nell’esperienza della Misericordia di Dio. A quel documento, pertanto, occorre rimandare sia per la parte dottrinale, sia soprattutto per gli aspetti pastorali.
Il secondo documento è l’Esortazione post-sinodale di Giovanni Paolo II Reconciliatio et poenitentia, del 2 dicembre 1984. In esso si sottolinea il bisogno di riconciliazione avvertito dall’uomo moderno e, nella terza parte, il Pontefice si sofferma sulle indicazioni pastorali atte a promuovere la Penitenza e la Riconciliazione e insiste sull’importanza del dialogo e della catechesi. L’Esortazione termina col richiamo alla prassi del sacramento.
Si è consapevoli del fatto che la forma di celebrazione del sacramento della Penitenza ha conosciuto, nel corso della storia, una profonda evoluzione, che ne ha marcato il relativo vissuto: come è noto, la Chiesa dei primi secoli poneva l’accento sul processo pubblico di separazione – riammissione alla comunità, che comportava per i peccatori la necessità di passare per l’appartenenza all’ordine dei poenitentes. Nei secoli seguenti, anche per l’influsso di pratiche derivanti dalla vita monastica, prese sempre più piede la confessione individuale, fino alla forma canonizzatasi in età moderna.
Ciò, se da una parte pose l’accento sulla confessione dei propri peccati come gesto in sé di penitenza e permise di fare di questo sacramento un luogo importante, forse il principale, per una formazione personale alla vita cristiana, dall’altra eclissò l’elemento della soddisfazione, sino a renderlo puramente simbolico. Anche la contrizione, e la particolare esperienza della misericordia divina che le è connessa, rischiano, con questo modello, di passare in secondo piano.
Per questa ragione, nella presente esposizione si cercherà di mettere a fuoco due importanti aspetti afferenti l’approccio pastorale della Penitenza: il primo è l’origine del male nel cuore dell’uomo, individuato nella paura che accompagna il senso di rifiuto e di abbandono; il secondo è la risposta di Dio alla tragedia del male, risposta riconoscibile nell’offerta gratuita di una relazione in Cristo.
In particolare, l’attenzione sarà rivolta all’aspetto che tocca più profondamente l’animo umano, quello che si potrebbe individuare come l’“atteggiamento” dal quale emanano i comportamenti e gli atti di peccato. L’esperienza dimostra che l’azione pastorale deve incidere nelle profondità dell’animo umano, offrendo l’opportunità di un’accoglienza senza riserve, se vuole generare il rifiuto consapevole e, più ancora, il disgusto per quel male che, diversamente, viene desiderato e attuato come risposta ad un bisogno, sia pure incongruo e illecito.
Tanto il ministero della Penitenza che quello della Direzione spirituale sono giocati sul filo teso tra questi due punti: il grido pieno di angoscia dell’uomo e la risposta di Dio in Cristo. Il suo punto di arrivo sarà aiutare l’uomo a farsi penitente e a ripetere con Cristo: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito». Seguiranno infine una riflessione sul Ministro della Penitenza e alcune ipotesi per una Pastorale della Penitenza.
L’obiettivo dell’intervento che seguirà non è quello di dire cose nuove e neppure di fare una silloge dei numerosi documenti sul tema della Penitenza. L’esposizione si muoverà tra la contemplazione e la dottrina. Quanto al linguaggio, nel corso dell’esposizione si userà di preferenza il termine Penitenza intendendo abbracciare con esso tanto la celebrazione puntuale del sacramento quanto il processo, spesso lungo e laborioso, che vi conduce e nel quale si intuisce la Direzione spirituale.
- Un approccio alla Penitenza sacramentale
Ecco alcune suggestioni che ci vengono dalla Scrittura e che possono aiutare e indirizzare la ricerca.
Il peccato: esperienza lacerante della lontananza di Dio
Si cercherà di mettere a fuoco la realtà del peccato e dell’uomo peccatore. La tesi che si intende illustrare è la seguente: la causa profonda del peccato attuale è l’infelicità legata alla dolorosa percezione, da parte dell’uomo, dell’incapacità di salvarsi da sé e al senso dell’abbandono di Dio. Di qui la ribellione e il male cui essa dà forma.
Il racconto biblico parla della condizione umana e della sua strutturale fragilità, destinata però alla visione di Dio. Ma se viene insinuato il sospetto che la morte, propria dello stato di creatura, anziché essere la soglia oltre la quale si apre la visione, è l’epilogo di una promessa ingannevole, viene introdotto un elemento estraneo al piano di Dio: la paura della morte. Cadendo in questa tentazione l’uomo perde la condizione primigenia, segnata dalla fiducia, e si sente vulnerabile e abbandonato al proprio destino. Questo genera il dolore che, unito all’ira, forma la piaga da cui esce il male.
Ma all’uomo consumato dalla nostalgia del giardino perduto e ormai incapace di pensare a Dio senza timore, Dio risponde inviando il Figlio, che traccia il cammino del ritorno e apre la porta che era stata chiusa dopo la cacciata di Adamo. Egli vi entrerà per primo a preparare un posto alla moltitudine dei redenti.
Il peccato è una realtà complessa. Scegliamo di considerarla a partire dalla traccia che esso scava nell’esperienza profonda dell’uomo e si traduce nell’angosciosa solitudine per la lontananza da Dio.
Lo scrittore sacro scrive del peccato dei progenitori per dare ragione della situazione che coinvolge l’uomo nell’attualità (Gen 3). Egli ha fatto esperienza di una disarmonia che giunge a travolgere anche la vita e se ne domanda la ragione: il racconto biblico è il risultato della sua ricerca. Essa riflette sul male così come esso prende forma nella storia dell’uomo e si spinge a scoprire che esso ha origine nel profondo della persona.
Per quanto riguarda la questione di cui ci stiamo occupando, sarà importante cercare e riconoscere quell’esperienza di “male radicale” che segna di sé la storia dell’uomo al punto da generare il male attuale e il peccato. Riteniamo che una lettura attenta dei dati antropologici contenuti nel racconto biblico possa aiutare a cogliere quell’esperienza di male che precede ogni valutazione etica e religiosa e che, a nostro parere, può essere riproposta anche a chi è portato a ricusare le categorie religiose e teologiche con le quali il male è stato ed è riconosciuto e indicato nell’insegnamento comune della Chiesa. Si può dunque dire che ognuno ha esperienza del “male” fin da prima che si desti la coscienza; qui si intende il male oggettivo, quello che porta in sé una valenza negativa in ragione del “dolore” che procura. Può aiutare la comprensione l’esempio del disagio provato dal bambino che nota la disapprovazione dei genitori a fronte di un suo gesto. Disagio che si fa più acuto quando l’azione che ha causato tale disapprovazione era una netta disobbedienza a un comando stabilito. Il bisogno di trovare rifugio e protezione nel genitore trova un ostacolo nella percezione di aver fatto qualcosa che lo ha reso ostile; sicché si trovano a confronto nel bambino due posizioni ugualmente urgenti: affermare la propria libertà e attingere all’amore del genitore, senza il quale non può vivere. Questa situazione di dolore potrà essere colmata soltanto se il genitore si chinerà sul bambino, facendolo sentire di nuovo accolto. E con la sicurezza ritrovata cesserà anche ogni sorta di ostilità. Nel Vangelo della Passione del Signore troviamo l’icona che ci consente di cogliere in tutta la sua drammaticità la ferita del peccato.
Il Vangelo ci porta in un giardino, di notte, dove il nuovo Adamo sperimenta la paura e l’angoscia che avevano assalito il primo Adamo a causa della distanza che la sfiducia – culminata nella disobbedienza – aveva posto tra lui e Dio (cf Lc 22,40-44 e paralleli). Gesù soffre per l’insostenibile lontananza dal Padre, per la solitudine nella quale lo hanno lasciato gli amici, per la morte infamante che si avvicina inesorabile, come un leone ruggente pronto a divorare. Gesù si sente abbandonato al vortice dell’odio, dove il falso appare vero e il vero è negato come blasfemo. Gesù si sente perduto e l’evangelista ci fa partecipare della sua angoscia ponendo sulle sue labbra il canto del pio israelita che sente avvicinarsi la morte (cf Mt 27,46): «Un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa» (Sal 22,17-18).
Sulla croce Gesù sperimenta la desolante solitudine e l’impotenza dell’uomo che si sente perduto e l’infinita distanza che separa la creatura dal Creatore: è nudo e solo come Adamo peccatore nel giardino; ma non si nasconde allo sguardo di Dio, lo cerca, invece, e ne invoca la parola. Benché innocente, Gesù è travolto dalla violenza del peccato; ma non accusa chi si è reso responsabile della sua rovina, ne prende anzi le difese pregando: «Perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Poi dal cuore del Figlio esce inarrestabile il grido che più di qualunque definizione teologica esprime la condizione dell’uomo inghiottito dall’abisso di quella tremenda solitudine che assale chi sente Dio come nemico; è un grido che attraversa il silenzio desolante di tutti i deserti della storia e da lontananze siderali giunge come una saetta al cuore del Padre; è il grido che dà voce alla disperazione dell’uomo esiliato dal giardino: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Ma è anche un lamento che si risolve nella fiducia: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito». Poi il seme muore per germogliare in vita nuova e abbondantissima[2].
Accanto a questa immagine, Luca scrive l’icona del dialogo di Gesù con uno di quelli crocifissi con lui. Allo sguardo di chi assiste può apparire il delirio di due morenti. Ma agli occhi dell’evangelista si svela il prodigio della misericordia. Questa icona rappresenta, a nostro parere, l’immagine più bella e più densa della relazione sacramentale tra il Ministro della Penitenza e il penitente.
In Gesù è rappresentata al vivo l’”impotenza” di Dio dinanzi al male e alla morte dell’innocente. E proprio questa impotenza – Paolo la chiama debolezza e stoltezza della croce (cf 1Cor 1,23-24) – è lo “scandalo” che alimenta la sfiducia in Dio. La lontananza di Dio in Gesù assume l’aspetto dell’impotenza.
Nei due ladroni sono visibili le due posizioni opposte che l’uomo può assumere davanti allo scandalo della debolezza, cioè nelle condizioni in cui si rende conto di essere perduto perché Dio non lo protegge: non gli garantisce né la vita, né la fortuna e gli appare, anzi, incapace di difendere l’innocente o, peggio, incurante della sua sorte. C’è chi ha sostenuto che la sofferenza dell’innocente è la roccia su cui si fonda l’ateismo. È a partire di qui che trovano giustificazione la ribellione e la trasgressione: se Dio non salva, allora ognuno deve salvarsi da sé alleandosi col “mondo”.
Il testo lucano riferisce che uno dei ladroni inveiva dicendo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» (Lc 23,39). L’altro invece, superando lo scandalo dell’inaspettata impotenza di colui che aveva aperto gli occhi al cieco (cf Gv 11,37), sa riconoscere, nel giusto che si è lasciato crocifiggere senza aprire bocca per non lasciarlo solo, il Messia, liberatore dal nemico mortale, che è la solitudine disperante della morte.
Il buon ladrone è figura dell’uomo che, nell’innocente condannato ingiustamente, sa intuire Dio che si fa impotente per divenirgli compagno. Le parole dell’altro malfattore lo rendono consapevole del fatto che l’odio riversato su Gesù è quello di chi si è sentito tradito da Dio, preferendo professarlo potente e lontano, piuttosto che scoprirlo prossimo e debole. Il buon ladrone intuisce che quella fedeltà nell’amore verso tutti, perfino verso i suoi assassini, trasforma l’esecuzione capitale di Gesù in un olocausto gradito a Dio e se quella morte è un sacrificio, allora la vita, a Gesù, non viene tolta, ma egli la dona volontariamente (cf Gv 10,18); e se quello che sta avvenendo sotto i suoi occhi – e di cui egli stesso, solo che lo voglia, può divenire partecipe – è un olocausto, allora la vita di Gesù sta per essere trasformata ed egli, sfuggendo alla presa della morte, sta per salire al cielo come il fumo delle vittime offerte sull’altare, consumato da quel Fuoco dal cielo, che è l’amore che lo divora.
In questa sorprendente visione della realtà, che è dono dello Spirito, il ladrone scopre di ritrovarsi compagno di colui che sta per sedersi alla destra di Dio e trova il coraggio di chiedere, non già di essere salvato dalla morte di croce, ma di poter continuare a stare con lui nel suo regno. A questo discepolo dell’ultima ora Gesù non può e non vuole dare ciò che l’altro malfattore pretendeva come segno per credere; e al ladrone è chiaro che Gesù, come lui, è un reietto dagli uomini e non ha neppure dove posare il capo (cf Lc 9,58); dunque non è per qualche segreto interesse che gli chiede di prenderlo tra i suoi. Glielo chiede perché ha scoperto di essere cercato. Gli domanda la grazia di prenderlo con sé come si fa col sovrano; lo fa con la confidenza che nasce tra coloro che, pur di condizione irriducibilmente diversa, si ritrovano tuttavia compagni nella medesima sorte; e gli si rivolge con una confidenza sconosciuta altrove, lo chiama per nome, come un amico, e dice: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42).
E Gesù, che fin lì non aveva risposto agli insulti e neppure a chi gli chiedeva di essere salvato dal dolore e dalla morte, gli si rivolge come al servo buono e fedele, divenuto ormai amico, e gli dice: «Oggi sarai con me». Mentre tutti, anche gli apostoli, avevano rifiutato lo scandalo della debolezza, questo malfattore sconosciuto, che la sorte ha fatto compagno di Gesù, lo riconosce suo Re e Signore e gli affida la vita. La pena per la colpa è divenuta per lui il luogo della Grazia.
Dinanzi al mistero di Dio, scrutato a partire dalla condizione dell’uomo ferito, il primo dei crocifissi lo ha accusato di non far nulla per salvarlo e ha concluso con un rifiuto; l’altro, invece, non gli ha chiesto qualcosa e neppure la vita, ma un posto nel regno, e l’ha ottenuto senza indugi. Dinanzi alla Sapienza di Dio, i due hanno risposto in modo diverso: il primo l’ha rifiutata come stolta, il secondo l’ha accolta e le si è affidato. Il primo si è perso nella tenebra; il secondo è rientrato nel giardino.
All’uomo che chiede cose, anche buone, Dio non risponde secondo le attese, ma facendosi prossimo per condividerne la sorte e per portarlo con sé nel regno.
Da questa contemplazione si possono riprendere alcune suggestioni utili ad illuminare il ministero del sacerdote confessore.
È dominate l’immagine di Gesù, che accetta di condividere la sorte infame dei due malfattori per spezzare l’assedio della solitudine disperante che isola l’uomo peccatore.
Al sacerdote ministro della Penitenza questo suggerisce di porsi umilmente nella condizione di chi sente il morso della colpa; benché mantenga per ciascuno risonanze peculiari, il peccato assume, a livello profondo, connotazioni comuni e condivise. Perciò la propria esperienza di fragilità aiuterà a sentire intimamente le ferite delle persone alle quali il sacerdote presta il suo ministero[3].
Una seconda suggestione si può raccogliere dalla figura del buon ladrone; egli rimprovera all’altro la sua empietà: il morire da colpevole accanto ad un giusto non genera in lui la pietas, il “timore di Dio”. Il presbitero si trova, per la sua condizione strutturale di penitente, a sperimentare per primo la salvezza; perciò egli può testimoniare la fede nel Giusto e richiamare il fratello alla fiducia nella misericordia di colui che non abbandona mai l’uomo alla solitudine del peccato. Infatti, nel ministero della Penitenza, il sacerdote, sostenuto dallo Spirito Santo, si pone l’obiettivo di aiutare il penitente a vestire i panni del buon ladrone, per condividerne l’esperienza.
- Il ministero della consolazione
Qui intendiamo sottolineare l’importanza dell’esperienza umana nella pedagogia così come nella celebrazione del sacramento della Penitenza. Al di là del rito, infatti, ciò che incide più profondamente nel penitente è la capacità, da parte del sacerdote, di raggiungere e abitare la sua solitudine, la ferita che alimenta il peccato, per guarirla. In ciò la Grazia percorre abitualmente la via delle relazioni: la qualità di esse diventa segno della misericordia di Dio.
La Penitenza è parte essenziale dell’annuncio e della prassi cristiana. Essa si propone al battezzato che è stato ferito mortalmente dal peccato come il “luogo” concreto nel quale egli, come avvenne per il buon ladrone, può “udire” la risposta di Dio al desiderio più profondo e vero del suo animo: «Ricordati di me…».
La Penitenza è prima di tutto esperienza dell’incontro col Dio lento all’ira e grande nell’amore e poi un viaggio non facile verso la casa del Signore, perciò «beato chi trova in Dio la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio» (cf Sal 84/83,6).
Questo impone di guardare alla prassi della Penitenza con una particolare attenzione, affinché gli elementi strutturali della celebrazione siano proposti e vissuti in un contesto in cui la persona sperimenti di essere accolta, abbracciata e accompagnata a gustare in modo sempre più pieno la misericordia. Essa, infatti, non può restare una nozione, ma deve diventare un’esperienza trasformante.
La pratica sacramentale, in altri termini, ha bisogno di essere vissuta in un contesto nel quale l’uomo sia aiutato a riconoscere nella sua condizione strutturale la ragione profonda – e spesso inconsapevole – di una ricerca di vita che nel peccato ha trovato solo risposte inadeguate e false.
Riconoscere errori formali senza comprendere – meglio sarebbe dire: senza sentire, stante la cultura odierna – che essi affondano le radici nella condizione umana, significa trovarsi col dito della legge puntato addosso, mentre l’offerta di Dio all’uomo è la misericordia, pur nella durezza della verità. L’insistenza sul sentire, verbo per altro tanto caro a Sant’Ignazio[4], nasce dal convincimento che l’esperienza affettiva, come è stato accennato, precede l’elaborazione razionale ed è parte integrante dell’esperienza di fede. È pertanto a partire dal piano esperienziale più profondo che va proposta la Penitenza come cammino di liberazione verso la vita piena.
L’esperienza profonda, quella che può toccare l’anima e ridarle vita, passa, pertanto, attraverso l’accoglienza cordiale, che lascia fuori il giudizio e si fa pedagogia all’incontro con Dio nell’amore, così da aiutare ognuno a riscoprire in lui la patria cercata. Sarà ancora quell’esperienza ad aprire gli occhi su ciò che concretamente è stato di ostacolo alla vita, cioè i peccati attuali.
L’esperienza della consolazione, così come pretende l’esclusione del giudizio generato dalla Legge, non si tradurrà in una benevola acquiescenza alla debolezza in nome dell’insuperabile mediocrità della persona. Essa coinciderà piuttosto con l’essere come trafitti dalla misericordia, la quale, prima di essere una nozione, è la percezione tremenda di aver ferito e ucciso l’amore. Lo si può comprendere riandando all’esperienza dei santi: restavano sconvolti davanti al Crocifisso, verso il quale essi sentivano o la compassione di chi vede morire la persona più amata o la responsabilità di chi fu autore della suprema ingiustizia verso il Giusto. Pertanto, della misericordia fa esperienza autentica non chi ha capito razionalmente di avere offeso colui che è il Buono in quanto rinuncia a rivalersi su di lui, ma chi, con addolorata meraviglia, si rende conto di essere tanto amato da colui che ha disprezzato, sfidato e offeso[5]: è allora che sente la propria meschinità e sente l’amore di Dio restandone “convertito”.
L’esperienza autentica dell’amore misericordioso è un’esperienza di dolore, che trasforma producendo il disgusto per il peccato e sfocia in una incontenibile gratitudine. Ed è la meta verso la quale spinge la Grazia. Questa è la sfida che impegna il Ministro della Penitenza. Orbene, quello che ci sforziamo di sottolineare è che questa grazia ha il suo grembo naturale nella relazione risanata con Dio attraverso una relazione con gli uomini, segnata dalla carità. Questo è l’ambito esperienziale nel quale l’umanità può incontrare lo Spirito Santo, che la consola avvolgendola e riplasmandola in Cristo, come attestano le formule dell’assoluzione sacramentale[6].
Il Crocifisso morente spira sul penitente lo Spirito che dà vita ai morti: esso percorre il mondo come il vento, di cui si percepisce la voce, ma rimane inafferrabile (cf Gv 3,8). Con l’assoluzione che rende perfetta la Penitenza esso fluisce nelle narici dell’uomo riplasmato dall’accoglienza materna della Chiesa e gli infonde la pienezza di vita del Risorto.
Colui che è passato attraverso la Misericordia è divenuto veramente creatura nuova: la sua persona è stata riplasmata dall’azione dello Spirito anche attraverso l’incontro con il Ministro della Chiesa. Perciò la qualità dell’incontro sacramentale e pastorale è tutt’altro che irrilevante; molto spesso, anzi, specialmente se chi cerca il Signore è debole, essa può assumere un ruolo decisivo nella percezione dell’opera della Grazia.
- Il Ministro della Penitenza
La teologia dell’Ordine offre la luce per mettere a fuoco la parte che spetta al Ministro nella celebrazione di questo sacramento. Contrariamente al Sacerdozio antico, nel quale si richiedeva una separazione radicale operata mediante i complessi riti di consacrazione, il Sacerdozio di Cristo, del quale si diviene partecipi, si realizza nella condivisione compassionevole della sorte dell’uomo.
Anzitutto ci chiediamo: da dove veniamo? Dove siamo stati generati? Nel Vangelo di Luca, quando si parla della scelta dei Dodici (Lc 6,12-16), l’evangelista annota che solo dopo una notte di preghiera Gesù chiamò a sé Pietro e gli altri. Una notte che è l’immagine della grande notte, quella nella quale Gesù, pregando e sudando sangue, si consegnò alla Passione: noi siamo stati concepiti nel seno della Trinità; noi siamo nati nella notte più oscura, quella nella quale l’amore, sfidato dalla paura, vinse; noi siamo nati dal sangue effuso dal nostro Signore. Ecco da dove veniamo!
Nel rito per l’ordinazione dei presbiteri è previsto che il vescovo si rivolga ai candidati con cinque domande; la terza si esprime così: «Volete celebrare con devozione e fedeltà i misteri di Cristo secondo la tradizione della Chiesa, specialmente nel sacrificio eucaristico e nel sacramento della Riconciliazione a lode a Dio e per la santificazione del popolo cristiano?». L’ordinando risponde: «Sì, lo voglio».
La Riconciliazione è celebrazione dell’incontro di Dio con l’uomo nella verità. È la celebrazione nel tempo del giudizio di Dio. In essa l’uomo, pieno del suo peccato, si scontra con l’incommensurabile grandezza della misericordia di colui che è il solo “Buono” (cf Mc 10,18; Lc 18,19). È dinanzi a questo incomprensibile amore che si arrende alla miseria della creatura, che l’uomo perde ogni presunzione; è sperimentando e conoscendo Dio che ama l’uomo al punto da dare il Figlio, che l’uomo rimane senza fiato, sente che non vi è luogo nel quale possa nascondersi (cf Sal 139,7-12) deve decidere se arrendersi a sua volta, lasciandosi amare, o fuggire davanti a questo Fuoco che può avvamparlo trasformandolo in ardente carità.
Qui si sviluppa in modo singolare quella compassione che è l’anima stessa del ministero sacerdotale, perché è partecipazione alle viscere di misericordia del nostro Dio (cf Lc 1,78); è questa compassione per l’uomo a trasformare il sacerdote in immagine e visibilità nel tempo di colui che, invisibile agli occhi, è sempre presente, e a farne sacramento della sua misericordia.
La compassione, dunque, precede, prepara e accompagna il sacramento della Riconciliazione e si traduce concretamente nei sentimenti del Padre così come traspaiono nella parabola del Padre buono (Lc 15,11ss): rispetto della libertà, pur nel dolore dell’amore rifiutato, attesa trepida e fiduciosa, corsa e abbraccio avvolgente, ascolto, premura, gioia, festa… La consolazione del Sacerdote sta nella partecipazione a questi sentimenti di Dio.
Ma questi sentimenti non si improvvisano. Vanno desiderati e assimilati nel silenzio e nella preghiera. Esigono una vita lontano dal rumore; calma, attitudine alla riflessione contemplativa… E chi è in cerca di ristoro per acquietare gli affanni, chi ha bisogno di curare le proprie ferite, sente il bisogno di tempo, di molto tempo e poi di sicurezza e calore; e accetterà il giudizio – che, alla fine, si darà da sé, spesso con severità insospettata – se sentirà di essere accolto senza giudizio; perché è incontrando l’amore che si scopre con sgomento la propria malvagità. E può essere un peso che schiaccia. Solo il Signore, infatti, può portare il peccato. E il sacerdote deve essere pronto a prendere su di sé l’angoscia e la morte, frutto del peccato, e a portarli. Questo avviene nell’ascolto paziente e accogliente, che non sminuisce la colpa, ma aiuta a vedere al di là di essa e scoprire che la misericordia di Dio è più grande; e avviene ancora con l’intercessione: si chiede a Dio la salvezza per un fratello amato, che è costato il sangue del Signore.
3.1 L’esperienza della Penitenza è alla base del ministero
Il Ministro della Penitenza è anche uno che ne fa l’esperienza. Essa lo forma e lo dispone al ministero.
Anche il sacerdote è un uomo che sperimenta il limite e il peccato. E soprattutto sa per esperienza che il desiderio della perfezione non trova il suo compimento neppure mediante i più generosi sforzi umani; perché la volontà, da sola, non basta, ma è indispensabile la Grazia.
Allo stesso modo, il presbitero ha constatato che la vita ascetica, benché praticata con generosità, non risolve la tensione verso il disordine e il male, che talvolta si accende improvvisa nella carne, travolgendola.
Il Ministro della Penitenza sa pure che la conversione che si celebra nel sacramento non si riduce a un ripudio del male e del peccato attuale mediante la retta ragione, ma è un’intima resa alla Grazia, nella quale si riconosce l’approdo del desiderio del cuore: è solo il Signore che salva, sostenendo il desiderio che egli stesso ha suscitato. Il monito di Gesù: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5) trova tutta la sua verità e la piena comprensione proprio in questa esperienza. Il Ministro della Penitenza – per richiamare una suggestiva immagine del Vangelo di Giovanni – è un discepolo che sosta a lungo ai piedi della croce e conserva la memoria del sangue e dell’acqua sgorgati dal costato aperto del Signore; egli ne è stato investito per primo e ora rende la sua testimonianza al penitente affinché creda (cf Gv 19,33- 35), si disseti a quella fonte e la sua gioia sia piena (cf Gv 15,11).
A partire da qui cambia l’atteggiamento con il quale ci si accosta al sacramento: esso non è solo l’evento nel quale avviene la remissione dei peccati, ma è tempo della conoscenza di sé nella verità e soprattutto è il tempo della conoscenza autentica di Dio, che ama l’uomo peccatore, il quale riconosce finalmente di non poter bastare a se stesso. E l’uomo trova la forza di non arrendersi alla propria miseria, perché può credere con tutto se stesso che la misericordia di Dio è più grande del suo peccato. È solo per la misericordia che l’uomo è salvato. A partire da questa comprensione, il sacerdote penitente impara ad accettare la spina posta nella sua carne come appello alla fiducia e come luogo in cui conoscere la Misericordia. Non starà a contrattare i termini della sua propria responsabilità nel male, ma si riconoscerà nudo e povero davanti a Dio. Abbandonerà l’atteggiamento difensivo di Adamo e confesserà con il re Davide: «Ho peccato contro il Signore!» (2Sam 12,13) e canterà con il Salmo: «Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato. Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso. Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno» (Sal 51,10-15).
Da questa esperienza, che è il frutto dell’accoglienza dell’annuncio nasce il ministero fecondo della Penitenza.
3.2 Le virtù essenziali e necessarie al Ministro della Penitenza
Di Gesù, sommo ed eterno sacerdote, la Lettera agli Ebrei dice che egli è misericordioso e degno di fede: «…doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,17-18).
Non si tratta di virtù morali, ma di virtù che definiscono il rapporto di Cristo con Dio e con gli uomini.
Gesù è misericordioso perché ha condiviso la sorte degli uomini in tutto fuorché nel peccato (il peccato, infatti non genera solidarietà, ma complicità).
Gesù è degno di fede perché «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).
In particolare Gesù è degno di fede perché sulla croce ha vinto la grande tentazione insinuata dalla “sapienza” di questo mondo, che fa apparire Dio incapace di difendere i piccoli dall’ingiustizia e dalla morte. Gesù ha resistito nella fiducia al Padre e non è sceso dalla croce «e Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,24).
Come, dunque, il presbitero parteciperà di queste doti essenziali al ministero?
Egli diventerà misericordioso e compassionevole condividendo la sorte di coloro che gli sono stati affidati, a cominciare dalla coscienza di essere anch’egli un peccatore graziato.
Allo stesso modo, l’aver sperimentato per primo la misericordia ne fa un testimone degno di fede. Ancora di più: il presbitero sarà degno di fede quando, nutrito di ogni Parola uscita dalla bocca di Dio, saprà dare testimonianza del suo amore accogliente con la vita e la parola. Egli sarà degno di fede quando, da amico di Dio come Abramo, si farà intercessore per i fratelli.
In Cristo, infatti, si realizza un rovesciamento rispetto al sacerdozio antico: mentre il sacerdozio di Aronne postulava che l’appartenenza a Dio rendesse nemici dell’uomo peccatore e imponesse una severità spinta fino all’intransigenza, il sacerdozio di Cristo opera mediante la partecipazione profonda alla condizione dell’uomo peccatore, così da condividerne la sorte, benché da innocente.
In Cristo sacerdote, la maestà di Dio, tremendo e implacabile, diviene trono della Grazia: egli si manifesta come colui che ha il cuore pieno di misericordia e fa grazia a coloro che erano stati cacciati fuori dal giardino; perciò l’Autore della Lettera agli Ebrei può esortare ognuno dicendo: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,16).
Queste virtù di Cristo esigono una maturità umana che non è mai un dato acquisito una volta per tutte.
- Pastorale della Penitenza
Possiamo ricordare senza svilupparli alcuni elementi di crisi che pesano anche sulla pastorale della Penitenza, rimandando a ricerche più attente e puntuali e, in particolare, al documento citato all’inizio: Evangelizzazione e sacramento della Penitenza e dell’Unzione degli infermi. Qui ci limitiamo ad elencare:
1- La crisi dell’autorità, per cui per molti la Legge ha cessato di essere il criterio di riferimento a favore del soggettivismo e del conseguente relativismo etico.
2- Il rifiuto dell’oggettività come criterio normativo, per cui il riferimento è lo “stare bene” o lo “stare bene con se stessi” più che non il riferimento al valore. Quanto al significato di “stare bene”, esso consiste sostanzialmente nell’appagamento dei bisogni.
3- L’insufficienza di annuncio e di catechesi, che sembrerebbe mirata piuttosto alla salvaguardia di alcuni valori fondamentali e dunque dell’aspetto normativo, specie in alcuni specifici settori, piuttosto che all’annuncio della fede. Tale impostazione spesso appare impropria e produce irrigidimento e anche rifiuto della Chiesa e di Dio, percepito come legislatore piuttosto che come Padre (il costo dell’amore di Dio appare esistenzialmente troppo elevato per la capacità del soggetto).
4- Un ultimo elemento – ed è l’aspetto sul quale in questa sede è sembrato più opportuno fermare l’attenzione – riguarda il ministero sacerdotale. In altri termini, se finora il presbitero che si poneva ad esercitare questo ministero non doveva cercare una legittimazione diversa da quella che gli derivava dal suo ruolo, oggi essa viene messa in discussione con la stessa forza con cui viene contestato l’aspetto normativo dell’insegnamento della Chiesa.
La sociologia e la psicologia possono offrirci molti elementi utili per comprendere meglio l’ambito nel quale siamo chiamati a svolgere il nostro ministero, ma a noi interessa piuttosto riprendere qualcosa della ricchezza che professiamo nella fede e rinvigorire un ministero che conserva tutta la sua attualità e soprattutto la sua efficacia di annuncio e di salvezza. Infatti, non possiamo lasciarci spaventare dalla nostra evidente inadeguatezza, ma restare fedeli alla missione che ci fu confidata, cioè: riparare le brecce (cf Is 58,12), fasciare i cuori spezzati (cf Is 61,1), predicare l’anno della misericordia del Signore.
È evidente, pertanto, che bisognerà essere molto attenti ai dati antropologici, ma occorrerà, molto di più, coniugare con la preparazione umana quell’esperienza delle cose di Dio che rende la Chiesa, come affermò Paolo VI, «esperta in umanità»[7].
L’uomo continua ad avere bisogno di riconciliazione, perché senza amore si muore. E la misericordia di Dio è al cuore dell’annuncio evangelico. Perciò ci chiediamo di nuovo, questa volta in modo esplicito: quali sono i bisogni profondi della persona che possono trovare nel sacramento della Penitenza la risposta della fede, che noi proponiamo ritenendola la sola adeguata e autentica?
Ci sembra di potere riconoscere in ognuno l’insopprimibile bisogno che accompagna la persona dal suo nascere fino al suo tramonto, quello cioè di essere accolto, accettato, amato. È un bisogno, anzi, una condizione strutturale dell’uomo, come il respirare.
Un altro bisogno, legato al primo, è quello di sicurezza e di conforto, specialmente se è intervenuto qualcosa che ha turbato l’autostima o ha prodotto la paura del castigo (e della morte come castigo). L’uomo ha bisogno di sentirsi “graziato”. E questa non è una consapevolezza intellettuale, ma un’esperienza profonda, che può nascere da un annuncio reso credibile da un’offerta qualificata di relazione nella Chiesa.
Alcuni aspetti del costume – annotiamo in primo luogo la crisi della famiglia, ma non è il solo elemento di crisi – hanno comportato e comportano che molti, specie giovani, non abbiano un’esperienza affettiva autentica e gratificante. L’uomo avido di vita, quando non la trova, insegue i suoi surrogati: l’avere, il piacere e il potere. La triade classica nella quale la spiritualità cristiana riconosce l’origine e l’articolazione del disordine e del peccato.
Prendendo un po’ liberamente un’immagine evangelica per illustrare la ricerca dell’uomo, potremmo ricorrere a quella ben nota del giovane (o dell’uomo) ricco, che chiede a Gesù: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?» (Mc 10,17).
Oggi potremmo riprendere quella domanda in modo simile: «Che cosa devo fare per gustare quella pienezza di vita che è una cosa sola con la felicità?».
Perché questo è l’obiettivo di ognuno e il motore di ogni ricerca. E la risposta appagante, ci fa intendere il Vangelo, non sta semplicemente nell’osservanza dei comandamenti, ma nel seguire Gesù, che orienta decisamente a cercare la felicità desiderata – la vita eterna – oltre l’osservanza dei comandamenti: nella decisione di amare fino a dare la vita per il fratello.
In ogni uomo si ripete la faticosa ricerca della felicità, passando attraverso esperienze che possono essere anche inconsapevoli, difficili e talvolta tragiche.
C’è in ognuno una sorprendente fame di vita, che nel bambino è percepita come bisogno di avere tutto e subito; nel giovane poi, sperimentato che il molto avere non sazia, quell’ansia si muta in una ricerca destinata a spingere verso l’incontro con l’altro. Il pericolo che si nasconde lungo il cammino è quello di percepire l’altro come una “cosa” in risposta ad un bisogno, piuttosto che come una persona destinataria di un dono. Allora i sensi, per l’ebbrezza che sembrano promettere, sono percepiti coma la porta del paradiso. Fin quando la vita non si apre alla scoperta dell’amore, non più soltanto ricevuto, ma offerto, e la felicità prende decisamente l’aspetto di uno scambio di doni, fino a scoprire che la gioia sta nel donare la vita (cf Gv 15,13).
È a partire da questa esperienza che prende significato l’annuncio cristiano. La Chiesa possiede il tesoro che l’uomo va cercando, la pietra preziosa per la quale vale la pena mettere in gioco tutto ciò che si possiede. È quell’Amore di cui l’amore tra le persone non è che il riflesso.
E diciamo subito che stiamo parlando di una realtà che, se non è sperimentata, non significa nulla; la fede, infatti, non è l’adesione a delle parole, benché vere, ma un fondersi con Cristo nell’amore, una realtà che si svela soltanto al cuore. È questo che genera il rinnovamento del sentire e del pensare e poi della vita in ogni sua espressione. Perciò il sacramento della Penitenza costituisce una singolare apertura alla conoscenza di Dio, «il solo Buono» (cf Lc 18,19).
Agli occhi dell’uomo che lamenta il dolore delle proprie ferite, appare inaspettatamente il volto di un Dio buono e amante degli uomini; un Dio che si è reso solidale con la creatura fino al punto da seguire l’uomo ovunque, anche nell’infamia del peccato, pur di non lasciarlo solo, partecipandone il fallimento e la vergogna, senza averne condiviso la responsabilità. Si scopre un Dio che si lascia accusare e percuotere: egli non risponde accusando e non condanna, ma aspetta con pazienza che l’uomo si accorga della sua compagnia e la accetti.
Questo è il mistero che il presbitero ha il compito di rendere visibile e sperimentabile nella Penitenza. Ciò che si chiede all’uomo, prima ancora di riconoscere la sua responsabilità nel male, è di riconoscersi creatura bisognosa di salvezza e di aprirsi a una Sapienza che non è di questo mondo, ma si lascia gustare nello stupore.
Appare chiaro a questo punto che il ministero della Penitenza non è, né può essere affidato a metodi e tecniche, perché attinge alla santità di Dio e richiede santità: quella della Chiesa e quella dei suoi ministri. Il Ministro della Penitenza è un pedagogo sapiente che sa prendere per mano l’uomo ferito dal peccato per condurlo a quella singolare e beatificante “teofania” che è l’esperienza della misericordia. Essa troverà il suo solenne compimento nella celebrazione del sacramento, ma il medesimo spirito, che opererà la novità di vita nella creatura che gli si affida per il ministero della Chiesa, già opera lungo il cammino che ve lo conduce.
Ci domandiamo, perciò, se il molto fare sia compatibile con la quiete richiesta da un ministero che non è, né si può ridurre a un atto amministrativo, ma esige di essere un incontro della persona del peccatore con la Persona di Dio attuato per la mediazione della persona del sacerdote.
Il suo ministero, o meglio, l’efficacia del suo ministero, trae forza dalla sua assimilazione a Cristo. Infatti, qui non è sufficiente l’intrinseca efficacia del ministero, ma serve quella mediazione umana che rende la misericordia di Dio percepibile e desiderabile.
La crisi della Legge e dell’Autorità, quali che ne siano le ragioni, si traduce in solitudine profonda e dolore. Il padre temuto, rifiutato e ucciso lascia un vuoto incolmabile, un’insicurezza disperante e il desiderio ansioso di un rifugio.
Benché raramente esso emerga alla coscienza, il bisogno più sentito è quello di una casa, di una patria del cuore, che si può trovare solo nell’abbraccio del Padre, riscoperto, con meraviglia, buono e paziente, lento all’ira e grande nell’amore. Tutto questo avviene essenzialmente attraverso la mediazione della Chiesa, che mediante il Ministro della consolazione, ripete a tutti con pazienza le parole del Maestro: «Voi, affaticati e oppressi, venite a me… e troverete ristoro per le vostre anime» (cf Mt 11,28). Se è la paura a spingere a consumare un’umiliazione in cambio di una “grazia”, l’Autore della Grazia non sarà mai amato e il perdono richiesto sarà soltanto una tregua mal sopportata, che si consumerà non appena si sarà riacceso il conflitto tra la carne e la Legge.
Nella pace di un incontro tra persone e soprattutto con una persona “buona” trovano il loro spazio la confessio fidei, la confessio peccati e la confessio laudis, cioè i tre momenti che articolano il sacramento della Penitenza.
- Ipotesi pastorali
Alcune ipotesi per una pedagogia della Penitenza, che riprendono o si aggiungono alle proposte più ampie e articolate del documento Evangelizzazione e sacramento della Penitenza e dell’Unzione degli infermi.
Il sacramento della Penitenza, pur essendo un fatto puntuale, tuttavia si iscrive ordinariamente nel contesto più vasto della bontà misericordiosa del nostro Dio, che è paziente e lento all’ira. Gli scenari e le situazioni personali possono essere i più variegati. L’ambito del sacramento, come insegna la sapienza della Chiesa, va allargato e vissuto con grande attenzione alla persona e con la premura di aiutarla ad incontrare il Signore in qualunque situazione.
Vivere la Chiesa come luogo di riconciliazione
La Comunità cristiana è luogo di riconciliazione con se stessi e con gli altri e in questo modo dispone alla Riconciliazione sacramentale con Dio. È luogo nel quale la pazienza accetta anche di essere provata, poiché si regge sulla carità indefettibile di Cristo capo; e si richiede molta pazienza per accompagnare la gradualità, prima di tutto nella crescita della relazione, della reciproca stima e dell’amore e poi, man mano che la fede cresce e si radicalizza, per procedere verso una radicalità della risposta di fede nella vita pratica. Di qui la difficoltà sempre più avvertita nel fissare una sorta di spartiacque sul quale decidere la possibilità di concedere o di procrastinare fino anche a negare l’assoluzione, quando essa risultasse impossibile, a motivo di posizioni apertamente difformi e anche rigidamente opposte al Magistero o di questioni per le quali il processo di assimilazione dell’insegnamento della Chiesa da parte del soggetto appare ancora insufficiente. La Comunità cristiana che accoglie l’uomo deve rinunciare a tracciare confini troppo netti sul piano della norma e soprattutto a far coincidere eventuali scelte di campo con l’appartenenza di fatto alla Chiesa. Infatti, come ha sempre insegnato la Chiesa, i pastori devono prestare molta attenzione alla coscienza dei fedeli e alla possibilità reale di illuminarla.
Educazione alla condivisione dei propri pesi e alla fiduciosa consegna di sé
Un altro aspetto che, dal punto di vista pastorale, ha un’importanza, non solo pedagogica, nella formazione alla Penitenza intesa come partecipazione al cammino pasquale di Cristo, è la manifestazione del cuore vissuta come consegna della propria storia mediante il racconto, anche quando esso non si concluda con l’assoluzione. Ci siamo soffermati sulla figura del ladrone che muore con Gesù, consolato dalla sua promessa, ma anche dalla consapevolezza di avere il Signore come compagno di vita e di sorte. La consegna di sé si può senz’altro inquadrare nella direzione spirituale; ma può trovare anche un suo specifico ambito rituale; il riferimento può essere alla pratica della confessione consigliata agli adulti che devono ricevere il Battesimo, la quale, ovviamente, non si conclude con l’assoluzione sacramentale. È una valida pedagogia a condividere la fatica di vivere con la Chiesa, ponendo nelle mani forti di Dio il proprio cammino che, tra reticenze, incertezze e desiderio, è comunque rivolto al Signore, per riceverne consolazione, benché risulti ancora prematuro pronunciare la formula assolutoria. È una pedagogia del desiderio di salvezza in Dio.
Apertura alla Verità
Questo è forse l’aspetto più difficile, perché suppone un’onestà non sempre scontata, non già per malizia, ma per i meccanismi di difesa che la psiche abitualmente pone in essere dinanzi alle sconfitte. Occorre aiutare a guardare ogni cosa alla luce di Dio, che non condanna mai. È un esercizio difficile, nel quale la presenza e il ruolo dell’educatore ha una grande importanza: si tratta, infatti, di imparare a guardare con misericordia; a questa condizione l’animo può trovare il coraggio di scoprire le proprie ferite e lasciarsele curare. Non si può chiedere a un uomo di scendere agli inferi da solo. Lo potrà fare soltanto se si sentirà tenuto saldamente dalla mano del Signore, perché lui solo conosce la via del ritorno dalla morte. Perciò l’apertura del cuore procede col consolidarsi nella fiducia nella Misericordia.
Pratica della vita nuova in Cristo
«Conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1Pt 4,8), dice Pietro; e Giacomo insegna: «Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Gc 5,19-20).
San Giovanni Crisostomo esorta i cristiani a cercare la riconciliazione anche nella condanna dei propri peccati, nel perdono delle offese, nella preghiera, nell’elemosina, nell’umiltà. Infine il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1434 recita: «La penitenza interiore del cristiano può avere espressioni molto varie. La Scrittura e i Padri insistono soprattutto su tre forme: il digiuno, la preghiera, l’elemosina, che esprimono la conversione in rapporto a se stessi, in rapporto a Dio e in rapporto agli altri. Accanto alla purificazione radicale operata dal Battesimo o dal martirio, essi indicano, come mezzo per ottenere il perdono dei peccati, gli sforzi compiuti per riconciliarsi con il prossimo, le lacrime di penitenza, la preoccupazione per la salvezza del prossimo, l’intercessione dei santi e la pratica della carità che «copre una moltitudine di peccati» (1Pt 4,8).
Come si comprende, esse definiscono un cammino spirituale verificato nella pratica della vita, dove la direzione spirituale svolge un ruolo educativo insostituibile.
Abbiamo già richiamato l’immagine evangelica del Padre buono. Quello illustrato in tanti modi dall’esperienza dei santi è il cammino verso casa, a volte difficile, ma certo. Anche nella consapevolezza di avere scavato un solco profondo, l’immagine del Padre buono incoraggia il figlio umiliato a riprendere il cammino del ritorno.
Rafforzare il senso della Penitenza nella comunità cristiana
La pedagogia del singolo alla Penitenza trova un grande aiuto se può contare su una comunità che sente profondamente che quella di peccatori riconciliati e continuamente bisognosi di riconciliazione è uno stato permanente dei cristiani.
La pratica comunitaria della Penitenza rituale è auspicabile, specialmente nei tempi forti e in alcuni momenti importanti per la vita della comunità.
Lo stesso vale per pratiche penitenziali non rituali: individuarne di capaci di incidere sul sentire profondo delle persone, specie in occasione di situazioni o eventi che colpiscano particolarmente per la loro gravità, può essere molto utile per correggere l’idea collettiva, inconfessata, ma presente, di essere dei giusti in un mondo di peccatori e può aiutare quanti faticano a giungere a una visione più umile e sincera della propria vita. Il digiuno è divenuto una delle pratiche più usate per dire il proprio dissenso riguardo una situazione di ingiustizia.
Sono molto utili allo scopo il digiuno collettivo, i cammini penitenziali rituali, come la Via Crucis, la predicazione dei radicalismi evangelici e sui temi biblici presenti nei Lamenti del Venerdì santo.
Note
[1] Il Seminario dal titolo: “Collaboratori della vostra gioia”. Il sacramento della riconciliazione e la direzione spirituale è stato organizzato dal Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile, il Centro Nazionale Vocazioni e la Commissione Presbiterale Italiana, a Roma dal 10 all’11 febbraio 2010.
[2] Il corpo del Signore, avvolto in una sindone nuova e cosparso di profumi, verrà deposto in una tomba scavata nella roccia, immagine dell’incorruttibilità; quella tomba è in mezzo a un giardino: in lui, nuovo Adamo, obbediente fino alla morte, l’uomo ha finalmente potuto fare ritorno nel giardino dal quale il primo Adamo, per la sua disobbedienza, era stato cacciato. La storia, nel suo compimento, trova un nuovo inizio. La mattina del terzo giorno Maria piangente incontrerà Gesù nuovo Adamo, resuscitato dalla potenza di Dio perché si è mantenuto fedele. La tomba, simbolo della morte, è stata aperta per sempre: la paura è vinta. La passione del Signore, che si compie con la risurrezione, si rivela via del ritorno alla casa dalla quale l’uomo era uscito per il peccato. La morte di croce è la porta d’Oriente dalla quale entra nel mondo il Sole che sorge dall’alto (cf Lc 1,78) e in Cristo – che è la porta (cf Gv 10,7.9) – possono ri-entrare nel giardino perduto tutti coloro che vivono per la fede.
[3] Queste note sono necessariamente incomplete. S. Kierkegaard ne La malattia mortale propone un’acuta lettura del mistero del male e di come esso è percepito e vissuto dall’uomo.
[4] Cf Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 2.
[5] Ivi, 60.
[6] La formula latina, a noi ben nota, recita: «Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace. E io ti assolvo dai tuoi peccati nel + nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Si riporta di seguito una formula tratta dalla tradizione liturgica orientale: «Signore, Dio onnipotente, che guarisci i nostri corpi e i nostri spiriti; tu che dicesti al nostro padre Pietro per bocca dell’unigenito Figlio tuo, il Signore e Dio nostro Gesù Cristo: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa: a te darò le chiavi del regno dei cieli, ciò che avrai legato sulla terra sarà legato nei cieli, ciò che avrai sciolto sulla terra sarà sciolto nei cieli (Mt 16,18-19)”. Ora, Signore, fa’ che questo tuo servo N., attraverso il ministero della mia debolezza, sia sciolto dalla mia bocca e dalla bocca dello Spirito Santo, o Dio buono e filantropo, per mezzo del Figlio tuo che porta i peccati del mondo…».
[7] Paolo VI, Discorso alle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965.