Dal personaggio alla persona… la relazione prima del ruolo
Ho avuto l’occasione, alcuni anni or sono, di incontrare uno dei grandi studiosi della psicologia delle religioni, ma soprattutto uno dei più attenti osservatori della psicologia della vocazione: si trattava di P. André Godin, gesuita presso l’Università di Lovanio, in Belgio.
Era stato uno dei primi studiosi a maturare alcune straordinarie intuizioni, direi quasi “profetiche”, sul modo di evolvere della vocazione alla vita presbiterale e consacrata e sulle motivazioni che spesso stanno a monte di tali scelte.
Incontrando P. Godin, negli stretti corridoi dell’Istituto di Psicologia della Gregoriana, fui profondamente colpito dall’umiltà e dalla semplicità della sua persona e mi venne spontaneo fargli una domanda: «Nei suoi anni di studio, P. André, che cosa considera davvero importante ed essenziale, nella lettura profonda delle dinamiche vocazionali, per cercare di orientare in maniera sapiente sia il discernimento che il cammino formativo di un giovane?».
Ebbe un attimo di pacata riflessione e poi con calma rispose: «Credo sia indispensabile capire se questa persona in formazione ami di più il personaggio che sarà o la persona vera che può essere; se cercherà di più l’emergere del proprio ruolo nella autorealizzazione e nella visibilità o una identità profondamente umana e relazionale; se la tensione tra il personaggio e la persona la porterà maggiormente a spostare l’ago della propria vita verso l’esibizionismo o verso la verità profonda del suo essere e del suo servizio apostolico».
Rimasi profondamente colpito da queste parole di P. Godin e mi rimasero stampate nella memoria affettiva e professionale, divenendo una sorta di bussola di orientamento per gli anni successivi nel cammino di formatore in Seminario.
Ne trovai pure conferma scientifica in un prezioso libro che egli aveva pubblicato nel 1975: Psycologie de la vocation: un bilan[1].
In questo piccolo testo, condensato di moltissimi studi vocazionali, P. Godin riprendeva un problema che la psicologa Margaretta Bowers, già nel 1963, aveva messo in luce: la tensione costruttiva o distruttiva, frustrante o rigenerante, fonte di desolazione o di consolazione per la figura del prete e del pastore – ma, più in generale, per ogni esperienza di vita consacrata – tra l’essere un “personaggio” che molteplici funzioni liturgiche e/o pastorali ponevano costantemente davanti agli altri e sotto i loro sguardi, accentuando forme di esibizionismo, di controllo dominante della propria comunità, ma anche fonte di ansia profonda, che poteva rinnovarsi in ogni contesto di prestazione pubblica, oppure nel cercare di vivere la dimensione dei “servi inutili”, che come docili strumenti vivono il loro impegno e il loro servizio di scelta vocazionale abbandonandosi alle mani di Dio e divenendo portatori di positività, di fiducia, di consolazione talvolta o spesso, proprio a partire dalla propria fragilità e povertà[2].
In un articolo precedente, decisamente più tecnico, ma ancora oggi assolutamente attuale, Margaretta Bowers aveva descritto alcune possibili difficoltà psicologiche che, nelle sue ricerche, vedeva piuttosto in agguato nella vita di un presbitero (per alcune possibili analogie, si potrebbe anche applicare ad ogni scelta di vita consacrata).
– Un contatto povero e arido con la realtà psicologica e umana della vita delle persone.
– Una ricerca inconscia di onnipotenza nelle diverse attività di carattere pastorale.
– Un uso sproporzionato del linguaggio, che troppo spesso diviene forma di esclusivo monologo personale.
– Un conflitto permanente nell’immagine di se stesso, rapportata alla inadeguatezza nell’attualizzazione dei propri impegni pastorali.
– Un forte bisogno di dipendenza affettiva, spesso sublimato in forme di devozione religiosa intensa e con tratti infantili, che possono divenire un boomerang trasformandosi in latenti forme di passività depressa.
La Bowers concludeva il suo studio molto incisivo affermando che «un sacerdote e una persona consacrata equilibrata o guarita interiormente è colei presso la quale verità teologica e verità psicologica coincidono»; una formula di compromesso che tiene conto della fragilità umana e insieme della spinta di idealità presente in ogni scelta vocazionale, sorretta dalla grazia del Signore[3].
- L’ambivalenza del ruolo
All’uomo Adamo, signore di ogni cosa creata, manca un “tu” con cui intrecciare una relazione. Anche una persona consacrata, nella misura in cui è persona umana, ha bisogno di relazioni vere e profonde. Per il proprio carattere, per la formazione avuta, per mille altri motivi, spesso i consacrati o i presbiteri si trovano ad esprimere, e forse anche a vivere, più dei “ruoli” che un vero e profondo tessuto di relazioni, anche nell’ambito della propria vita comunitaria.
Tanti sono i modi per vivere ed interpretare un ruolo che si è assunto e che ci caratterizza nella vita: in particolare il ruolo della “vita consacrata”, proprio perché “totalizzante”, nel senso di investire completamente la vita della persona che lo ha assunto, può prestarsi ad una trasparenza che lascia vivo il senso della umanità che lo sorregge o ad una opacità che privilegia il ruolo stesso, ma nasconde la vera identità della persona consacrata che lo incarna.
Il ruolo, per sua natura, è ambivalente: può essere teso ad una vera ricerca di efficacia o impaludarsi in forme di ostentato efficientismo onnipotente e onnipresente, che cerca solo una ostentata visibilità; può esprimere una carica di umanità e di intimità che qualifica le relazioni di una persona consacrata o può isolarla in un mondo solipsistico e individualista; può proiettare in forme di disinteressato servizio oppure divenire uno stile di vita segnato dal narcisismo e dal culto del proprio esibizionismo, teso verso un successo di personale autorealizzazione.
È chiaro che queste polarità si collocano agli estremi di qualsiasi esperienza di vita e che essa viene poi concretamente mediata da modalità intermedie di vivere ed interagire; intendo dire che tra il tutto bianco e il tutto nero di queste polarità contrapposte, esiste una gamma infinita di atteggiamenti che esprimono il modo di essere e di intendere la propria scelta vocazionale da parte dei consacrati.
Questo primo rilievo fa da premessa e da predella di appoggio per un secondo aspetto della vita consacrata stessa: vale a dire che molte volte il “ruolo” stesso che noi viviamo può divenire una… maschera, un atteggiamento di difesa per sostenere una identità povera di motivazioni e molto spesso carente anche di una umanità vera e profonda.
La persona consacrata, allora, corre il rischio di salire sul piedistallo del proprio “ruolo” e di lì pontificare, parlare, agire, ma senza curarsi di essere in sintonia con il cammino della gente con cui interagisce e di quanto ci si attende da lei: una donna o un uomo che vivano con gli uomini e le donne del nostro tempo, con loro e per loro[4].
Che cosa può salvare i consacrati del nostro tempo dall’essere uomini e donne solo di parole e non della Parola, dall’essere uomo e donne di comunione e non solo di giudizio, magari inappellabile, sugli altri; dall’essere uomini e donne capaci di fare dono di una moneta che non si svaluta, di un abito bianco che copra la nudità dell’uomo proprio fratello, di un collirio che curi gli occhi e aiuti a vedere con nitidezza la vita (Ap 3,18)?
- Le pseudo–relazioni esaltano il “personaggio”
Talvolta, nel vivere una relazione anche nell’ambito della vita consacrata, il rischio è quello di crearci delle facili illusioni e degli auto-inganni: vale a dire che si pensa di essere in relazione con gli altri, ma in realtà questo non avviene o resta un fatto puramente epidermico e superficiale. Una delle espressioni oggi più spesso usate è: “A pelle sento che…”.
Una pseudo-relazione avviene quando, spesso in maniera inconscia, ci si barrica in una specie di turris eburnea, una torre d’avorio nella quale viviamo rinchiusi, contemplando dall’alto le vicende degli uomini nostri fratelli e sorelle; dalla quale facciamo calare ogni tanto, con preziosa magnanimità, un ponte levatoio per far passare qualcuno che a noi garba; con la quale ci difendiamo da tutte quelle richieste di relazioni che domanderebbero un nostro profondo coinvolgimento che viene però a toccare i nostri ritmi di vita abitudinari, le nostre raggiunte certezze, una forma di pseudo-solidarietà concessa più spesso a parole che non con impegni precisi ed effettivi di vita.
C’è pseudo-relazione quando concepiamo il nostro modo di vivere accanto agli altri come… “uno scivolo”: un gioco ed un passaggio veloce, che non lascia spazio a nessun vero rapporto stretto e coinvolgente. Si potrebbe pensare a quelle relazioni che si instaurano in alcuni salotti, tra gentili signore, durante un tea-party, in cui si parla di tutto un po’, lasciando spazio al gossip – così di moda oggi anche nei salotti della TV e proposto dai cosiddetti opinionisti –, alla chiacchiera superficiale, all’incontro fondato sulle banalità effimere. Un presbitero o un consacrato non possono divenire uomini e donne del banale, proprio in forza del messaggio che essi sono chiamati ad annunciare, messaggio che proprio banale non è.
C’è ancora pseudo-relazione quando si vive con gli altri avvolti in una barriera di cristallo, che già abbiamo proposto come piccola icona relazionale. L’immagine è efficace e suggestiva, ma va interpretata in maniera meno criptata. Immaginiamo per un momento di essere dentro a quei grandi scatoloni di vetro che sono alcuni grattacieli dei nostri giorni. Chi sta dentro vede, all’esterno, la gente muoversi, parlare, gesticolare; la vede, appunto… ma non la sente, non la tocca. Lo stesso vale per chi sta fuori, per cui è come se ciascuno di noi vivesse in un suo personale box di cristallo: vede gli altri, tende la mano per toccarli perché sono lì, così vicini, articola delle parole, ma il tutto rimane vano; una parete invisibile, eppure così consistente, ci divide gli uni dagli altri e restiamo degli eterni isolati, pellegrini solitari nella vita.
C’è pseudo-relazione quando cadiamo nel tranello del concretismo: significa che spesso noi vorremmo che il nostro relazionarci con gli altri portasse subito a risultati tanto evidenti quanto concreti. Il rischio per arrivare a questo è di sacrificare le persone al dio Moloch delle proprie aspettative o alle aspettative della propria istituzione di vita, in una sorta di perfezionismo astratto che ci rende sordi e ciechi di fronte a quello che è veramente necessario per il bene delle persone che incontriamo.
C’è pseudo-relazione quando incombe sul nostro modo di rapportarci la tentazione del potere: quando vogliamo essere noi i registi dello spettacolo, arrivando così a trattare le persone come dei bambini principianti. Dice uno psicologo americano che questa “sindrome da guru” ci porta a pensare più o meno così: «Se diciamo agli altri ciò che è sensato e giusto per noi, automaticamente diventerà sensato e giusto anche per loro. Saranno illuminati per fare ciò che noi abbiamo in testa» (J. Santos). È un voler regalare agli altri il proprio sistema di valori, come forma di vita ideale, dove poi la brama di potere più subdola, in questo tipo di relazione, è quella di pretendere di essere ringraziati. Non che sia da rigettare il “grazie” degli altri, ci mancherebbe, ma non si può neppure pretendere che esso venga sempre dato, perché crea davvero una forma di dipendenza di poco aiuto per la crescita altrui.
Da ultimo, ma chissà quanti altri aspetti si potrebbero ancora rilevare in questo ambito di vita, c’è una pseudo-relazione quando ci lasciamo intrappolare nella tentazione dell’orgoglio. Questa possibilità ci porta a cercare, a scrutare, a giudicare e a conoscere molto meglio le debolezze degli altri che non le nostre fragilità e vulnerabilità. Ci si accosta agli altri con l’etichetta (e la presunzione) che noi siamo gli eterni redentori, cioè sempre dalla parte del buono e del giusto. Si arriva a condannare gli altri come non intelligenti, poco capaci, ristretti di vedute, presuntuosi; ma in realtà questo meccanismo di “proiezione” lascia trasparire tra le pieghe del nostro essere immacolato la nostra incapacità di ascoltare, di accettare critiche e di poter davvero imparare qualcosa di buono e di utile in ogni relazione[5].
Come si sarà notato, in fondo, queste ultime tre tentazioni che danno corpo a certe pseudo-relazioni altro non sono che una ritraduzione, in termini esistenziali e psicologici, delle stesse tentazioni di Gesù: il concretismo, nel voler tramutare le pietre in pane; il potere, nella ricerca della gloria nei regni del mondo; e l’orgoglio, come presunzione di invulnerabilità personale (cf Mt 4,1-11).
- Il cuore accogliente fa crescere la “persona”
Dice Henry Nouwen, molto conosciuto anche in Italia per tante sue opere pubblicate in questi anni, anche dopo la sua morte, avvenuta in età relativamente giovane appena qualche anno fa: «A volte immagino che il mio cuore sia come un posto irto di aghi e di spilli. Come accogliere qualcuno se non vi può riposare pienamente?».
Un cuore agitato da preoccupazioni, rabbia e gelosia, causa delle ferite a chi vi entra. È essenziale creare una “zona libera” in noi stessi, per poter invitare altri ad entrarvi e guarire.
La compassione richiede un’autocritica minuziosa che conduca ad una dolcezza intima. È una interiorità dolce, un cuore di carne e non di pietra, uno spazio dove si può camminare a piedi nudi…
Anche Gesù aveva puntato con chiarezza e decisione a far capire prima e vivere poi ai suoi discepoli questa dimensione del cuore accogliente: se ne fa interprete e guida il Vangelo di Marco, con alcune precise annotazioni che vorrei qui brevemente richiamare.
In Mc 2,25 si legge: «E voi, non avete mai letto nella bibbia quello che fece Davide, un giorno che si trovò in difficoltà, perché lui e i suoi avevano fame?». Gesù si trova di fronte al problema del sabato e il problema della ostilità e del rifiuto dei farisei nei suoi confronti diviene ancora più intenso e profondo perché i loro schemi di interpretazione della realtà sono rigidi. Viene prima la legge, vengono innanzitutto le norme, le convenzioni in cui rifugiarsi e non c’è alcun rispetto per la situazione concreta, dolente e sofferente dell’uomo.
In Mc 3,4-5 Gesù insiste: «Che cosa è permesso fare in un giorno di sabato? Fare del bene o fare del male? Salvare la vita di un uomo o lasciarlo morire? Ma essi non rispondevano. Gesù allora li guardò con sdegno; era pieno di tristezza, vedendo che avevano un cuore tanto ostinato». La resistenza che emerge con più chiarezza è tutta raccolta in quelle parole: «Ma essi non rispondevano…».
Quella dei farisei è una sufficienza critica; guardano Gesù dall’alto in basso, senza volersi impegnare in una risposta al quesito; non osano buttarsi e coinvolgersi in quel problema che Gesù loro propone: molto meglio e assai più comodo stare all’esterno e guardare le cose dal di fuori; ciò permette di giudicare senza essere giudicati…
Troviamo un’altra preziosa indicazione, di una possibile resistenza del cuore ad una relazione accogliente, nella parabola del seme e del seminatore (Mc 4,3-8). In particolare è assai significativa la spiegazione che Gesù stesso dà di questa parabola (Mc 4,14-20), spiegazione dalla quale possiamo riprendere il passaggio relativo al seme caduto fra le spine: «I semi caduti tra le spine indicano altre persone ancora che ascoltano la parola, ma poi si lasciano prendere dalle preoccupazioni, dai piaceri della ricchezza e da tante altre passioni: tutto questo soffoca la parola di Dio, e così essa rimane senza frutto» (Mc 4,18-19). È significativo il passaggio tradotto con “preoccupazioni”; la parola greca utilizzata è merimnai, che letteralmente indica le angustie e gli affanni del momento presente; ecco allora il pericolo di cadere in una frantumazione nel fare, nell’essere presi da una logica solo efficientistica. Per analogia potremmo dire che il “seme della relazione carica di umanità” può essere soffocato dai troppi affannosi impegni delle nostre vite – intendo anche impegni pastorali, ovviamente… – e dalle molteplici preoccupazioni. Questo comporta che non si arriva a superare una certa esteriorità e convenzionalità di rapporti, perché affogati nel mare del fare.
Infine, in Mc 4,24-25 troviamo una ulteriore indicazione di una resistenza alla relazione accogliente, quella di un cuore mediocre e angusto: «Diceva loro: fate attenzione a quello che udite; con la stessa misura con la quale misurate sarete misurati anche voi, anzi vi sarà dato di più. Poiché, a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». È chiaro, allora, il monito per cui chi dà poco riceve poco… Questo avviene quando il minimo diviene la regola di vita, quando ci si accontenta e ci si infila nel vicolo cieco della mediocrità. È un cuore asfittico, che soffre davvero di sclerocardia[6]. Tradotto in termini più esistenziali e psicologici, noi potremmo trovare una profonda sintonia con quanto si è appena visto e descritto nella Parola di Dio.
La personalità “inconsistente”, dal punto di vista psicologico, cioè disarmonica in se stessa, male integrata nel vivere il mondo dei valori che vengono minati alla radice dalle spinte di bisogni inconsci che cercano gratificazione, quali la dipendenza affettiva o un bisogno di autonomia esagerata, che si fa autosufficienza, o l’aggressività o la necessità di una gratificazione sessuale o una profonda disistima di se stessi… questa personalità non è in grado di aprirsi ad una relazione vera, autentica, trasparente, sincera ed accogliente[7].
I suoi filtri di ricezione dell’alterità, del volto dell’altro, sono intasati e quindi distorce malamente il senso e la qualità dei rapporti che le vengono offerti; è una personalità chiusa e congelata, ibernata in una forma di individualismo esasperato; al massimo si presta a vivere una vita di relazioni a compartimenti stagni, disunita, poco omogenea e fatta spesso di una faccia di circostanza. Che delusione e amarezza profonda per chi ha giocato la propria vita sulla forza delle relazioni!
È un modo di vivere e di essere in cui ci si sente perennemente minacciati da una relazione che possa diventare “intima e profonda”; l’intimità spaventa un tipo di personalità di questo genere perché svela le sue fragilità, le mette a nudo, ma essa non le vuole né vedere né accettare. La conseguenza di tutto questo è un senso di inquietudine costante, di una lacerazione interiore segnata da sensi di frustrazione, di ansia e di colpa.
- La relazione nasce nella “tenda della solitudine”
Per chi dona la propria vita nella Consacrazione, in un impegno di dinamica relazionale e affettiva consegnata alla scelta della Verginità Consacrata o del Celibato, sembra quasi che la dimensione della relazionalità sia vissuta in maniera un po’ handicappata o arida, asfittica o priva di quella profondità che… solo una relazione di coppia può avere. In realtà, la vera condizione per imparare a stare con gli altri è quella di imparare a stare soli con se stessi: è anche la grande intuizione che sottende tutto il libro La vita comune di D. Bonhoeffer[8]. Non in una forma di isolazionismo solipsistico, non per fuga o paura di un mondo che ci avvolge in relazioni molteplici e talvolta non chiare o quantomeno ambivalenti.
Qui si parla di imparare la capacità della solitudine come valore. Una solitudine che in un modo di vita frenetico e assordante ci aiuti a percepire un centro interiore, nel nostro cuore, in cui regna la quiete. Ciò è anche la prima condizione per un’autentica, profonda vita spirituale. È una solitudine che ci aiuta a decodificare idee e opinioni proprie, a creare in noi un ritmo paziente per vivere il senso dell’attesa e dell’ascolto.
Anche Gesù saliva sul monte, solo, a pregare; ma questo lo portava ad una estensione in cui il suo cuore, la sua vita, il suo messaggio si allargavano agli altri, non in maniera possessiva per attirare attenzione o suscitare affetto, ma per offrire davvero tutto se stesso. Thomas Merton, nel suo Diario di un testimone colpevole[9], dice di aver appreso che la solitudine non approfondisce soltanto il nostro affetto per gli altri, ma è anche luogo dove diviene possibile una reale comunità.
Chi impara a spartire la sua solitudine senza timore considera ogni suolo “sacro”. Diviene un’esistenza districata da tanti lacci ingannevoli e aperta ad una costante novità di vita. In questo senso la Verginità consacrata e il Celibato divengono occasione preziosa per imparare le dinamiche vere della relazione accogliente, quella di un cuore che, come afferma Saint-Exupery nel suo bellissimo libro Vento, sabbia e stelle siano «una strada per ricondurre l’altro dolcemente a se stesso»[10]. E qui la relazione centra veramente il bersaglio pieno!
Note
[1] A. Godin, Psychologie de la vocation: un bilan, ed. Du Cerf, Paris 1975, pp. 26-27.
[2] M. Bowers, Conflicts of the Clergy, Nelson, New York 1963.
[3] Ivi, pp. 31 e 76.
[4] S. Guarinelli, Psicologia della relazione pastorale, Dehoniane, Bologna 2008.
[5] M. Valcarenghi, L’amore difficile. Relazioni al tempo dell’insicurezza, Mondadori, Milano 2009.
[6] C.M. Martini, L’itinerario spirituale dei Dodici, Borla, Roma 1983: è un commento in chiave di Esercizi Ignaziani al Vangelo di Marco.
[7] Cf lo studio di S. Moscoviti (a cura di), La relazione con l’altro, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997; cf anche Maiteo Melenso, Passione per la vita: diventare se stessi nella comunicazione con l’altro, Ed. CVX, Roma 1997.
[8] D. Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 2007.
[9] T. Merton, Diario di un testimone colpevole, Garzanti (collana Gli Elefanti – Saggi), Milano 2004.
[10] A. de Saint Exupéry, Terra degli uomini – Vento, sabbia e stelle, in Opere. Vol. 1, a cura di M. Autrand – M. Quesnel, Bompiani, Milano 2000. La presente edizione riunisce le opere di Saint-Exupéry. In questo primo volume è raccolta la sua produzione letteraria fino al 1939, anno dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il libro contiene: frammenti della sua produzione giovanile (poesie e racconti); romanzi e racconti (L’aviatore, Corriere del sud, Volo di notte, Terra degli uomini); la corrispondenza (lettere già edite ed inedite); scritti di circostanza (articoli, reportage, prefazioni). Una sezione è dedicata ai Taccuini, appunti personali buttati giù in fretta e non destinati alla pubblicazione.