La parabola dei talenti
Proponiamo un’interessante chiave di lettura per la parabola dei talenti dell’autore russo Pavel Aleksandrovič Florenskij. Il talento viene visto come l’immagine di Dio nell’uomo, che ciascuno “assimila accogliendo in se stesso le immagini di Dio che sono nelle altre persone… dando se stesso”, quasi attivando un circolo virtuoso, destinato a far crescere nelle nostre vite la presenza del Regno di Dio.
Il «talento» è la creatività spirituale della ‘propria personalità, «l’immagine di Dio», che Dio ha dato a ciascun uomo. Lo sforzo che si aggiunge al capitale lo fa crescere, e lo stesso vale per l’immagine di Dio. L’aumento del capitale dipende dalla misura dell’attività di chi lo detiene e perciò non avrebbe senso darlo in mano a chi non lo adoperi. Lo stesso vale per la crescita dell’anima; il «tipo di crescita» è prettamente personale e di conseguenza a ognuno viene dato il capitale spirituale appropriato. Ciascuno riceve da Dio i suoi talenti, a seconda della capacità di rivelare con la vita l’immagine di Dio, conformemente al suo «tipo» di crescita e maturazione spirituali. Uno riceve un talento, un altro due, un terzo cinque, «ciascuno secondo le sue forze», e Dio col suo santo dono non vuole forzare l’uomo per non caricarlo di «pesi gravi e insopportabili» (Mt 23,4).
Chi ricevette cinque talenti ne acquistò altri cinque, chi ricevette due ne acquistò altri due. Ma qual è il senso di queste parole: se il talento è l’immagine di Dio, come può l’uomo con i suoi sforzi, con la sua creatività, aggiungere a se stesso un’essenza deiforme e addirittura raddoppiare la propria immagine di Dio? Si intende che l’uomo non può crearla ma soltanto impossessarsene, come la forza vitale dell’organismo non crea il proprio cibo ma lo assimila soltanto. L’uomo non suscita l’aumento in statura della propria personalità (egli non possiede questa energia), ma l’assimila accogliendo in se stesso le immagini di Dio che sono nelle altre persone. L’amore è la δύναμις (energia) con cui ciascuno arricchisce e fa «crescere» se stesso, assimilando in sé l’altro. In che modo? Dando se stesso. L’uomo riceve nella misura in cui si dà e quando nell’amore si dà completamente, riceve ancora se stesso fondato, rinfrancato, approfondito nell’altro, cioè raddoppia il proprio essere. Così colui che ebbe cinque talenti ne acquistò altrettanti, e chi due ne acquistò né più né meno che due (Mt 25,16-17).
Questo raddoppiamento di se stessi è «la fedeltà nel poco» («ἐπὶ ὀλίγα ἦς πιστός fosti fedele nel poco» Mt 25,21-23), che è stato dato a ciascuno, nella cellula della Gerusalemme Celeste affidata alla sua custodia. Non il solo gaudio personale attende «il servo buono e fedele»; questa gioia grande e illimitata sarebbe una goccia piccola e insignificante a confronto dell’infinito oceano di gioia spirituale preparata al servo fedele «dalla profondità della ricchezza e della sapienza e della scienza di Dio» (Rm 11,33). Lo attendono le parole: «Prendi parte alla gioia del tuo Signore» (εἴσελθε εἰς τὴν χαρὰν τοῦ κυρίου σου) (Mt 25,22-23), cioè la comunione alla beatitudine divina, al gaudio trinitario per la perfezione di tutta la creatura di Dio, l’ebbrezza della pace del Signore da Lui goduta dopo aver compiuto l’opera generosa della creazione del mondo.
(Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo 2010, pp. 232-233)