N.02
Marzo/Aprile 2010

«Ciò che abbiamo visto e udito, lo annunciamo a voi» (1Gv 1,1-4)

 

 

 

 

 

  1. La Parola della vita

«Ciò che era da principio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto con gli occhi, ciò che abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato riguardo la Parola della vita» (v. 1), «ciò che abbiamo visto e udito – ripete il v. 3 – annunciamo anche a voi». Il discorso è martellante, con un crescendo di riferimenti all’esperienza sensoriale. Alcuni verbi sembra che si riferiscano ad una persona (vedere, contemplare, toccare), altri a un messaggio (udire, annunciare). A differenza del Prologo del Vangelo di Giovanni, in cui si dice: «In principio era il Verbo» (Gv 1,1), in 1Gv 1,1 si dice «ciò che era da principio». Il pronome relativo (“ciò che”) ripetuto quattro volte nel v. 1 e una quinta nel v. 3, è neutro: ha una funzione comprensiva e include la persona, le parole, le opere di Gesù.

«Abbiamo visto con i nostri occhi – l’autore sembra interessato ad accentuare la vista fisica – e toccato con mano» (il verbo “toccare”, non molto comune nel NT, ricorre anche in Lc 24,39, dove il realismo del palpare si riallaccia al soprannaturale: il risorto intima ai discepoli: «Toccatemi e guardate!»). «Ciò che era da principio» e «ciò che abbiamo udito»: si tratta dell’origine dell’annuncio, un annuncio che riguarda la parola della vita, come sottolinea la lunga proposizione incidentale nel v. 2, introdotta come chiarimento. Le due affermazioni sulla «manifestazione della vita», «la vita eterna che era presso il Padre», sono parallele a quelle del Prologo di Giovanni: «E la Parola (Logos) si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14); «La Parola (Logos) era presso Dio» (Gv 1,1). Ma in 1Gv l’autore sceglie di personificare “vita” piuttosto che “parola”: «E la vita si è manifestata e abbiamo visto e rendiamo testimonianza e annunciamo a voi la vita, quella eterna che era presso il Padre e si è manifestata a noi» (v. 2). Il verbo “manifestare” è lo stesso adoperato per la prima volta nel Vangelo di Giovanni per l’inizio del ministero pubblico (Gv 2,11: «Egli manifestò la sua gloria»). «In principio (Gv 1) – afferma Brown –, prima della creazione, c’era una Parola divina che, alla fine, divenne carne. Ma l’autore di 1Gv aggiungerebbe che il solo modo per poter conoscere questo è da un altro principio, quando il Figlio cominciò a rivelare se stesso ai discepoli che potevano udirlo, vederlo con i loro stessi occhi e toccarlo con le loro stesse mani»[1]. Sembra che dietro questo vedere, udire, toccare, dietro l’insistenza della ripetizione, ci sia una conoscenza diretta, un’esperienza concreta di Cristo.

 

1.1 La trasmissione fedele della testimonianza

Ma chi sono i “noi”, che hanno percepito la manifestazione della vita (v. 2) e possono dire «ciò che si manifestò» (v. 1)? Si ha l’impressione che siano i testimoni oculari e auricolari del Gesù storico. Nel seguito della Lettera, al noi subentra il singolare: «Vi scrivo» (2,1.7ss) o «Vi ho scritto» (2,14.21.25, ecc.) e questo fa pensare a una singola persona, che però appartiene a un gruppo “autorevole” a nome del quale è autorizzata a parlare. L’autore non è necessariamente un testimone oculare. Il fatto che in 1,1 dica di avere “udito”, “visto”, “guardato” e “toccato” serve a sottolineare l’importanza della testimonianza inerente la realtà del ministero pre-resurrezionale di Gesù. «Potrebbe trattarsi di un discepolo, ma potrebbe anche trattarsi di qualcuno appartenente al gruppo autorevole dei depositari della tradizione, coloro che continuano a trasmettere fedelmente la testimonianza di quelli che videro: non quindi il primo anello della catena di trasmissione, ma l’anello successivo, talmente però agganciato al primo da riprodurlo fedelmente, così da poterne rivendicare l’autorevolezza»[2].

 

  1. Il luogo della gloria

«Noi lo abbiamo contemplato e le nostre mani lo hanno toccato», si afferma in 1Gv 1,3. «Abbiamo contemplato la sua gloria» si diceva nel prologo di Giovanni, parlando del “Verbo fatto carne”: «Gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). La gloria (in ebraico kabôd) è la manifestazione di Dio in potenza, che si rivela nei grandi fatti, nei grandi eventi della storia della salvezza, quello splendore di sovranità che è riservato solo a Dio e continuamente rifulge nel corso della storia sacra. In Es 33,18, Mosè, a cui Dio dice che ha trovato grazia ai suoi occhi (v. 12), avrebbe voluto vederla questa gloria, sinonimo dell’essere di Dio: «Fammi vedere la tua gloria!», chiede al Signore in Es 33,18. Ma il Signore gli risponde: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio Nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia, farò grazia (radice chnn) e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia (radice rchm)». Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,19-20). E in Es 34,6 mantiene la sua promessa e proclama il Nome con il quale vuole essere conosciuto, rivelando non il suo Essere, ma il suo agire: «Yhwh, Yhwh, Dio misericordioso (in ebraico rachûm = che ama con un amore tenero, viscerale) e pietoso (in ebraico channûn = che fa grazia), lento all’ira e ricco di benevolenza/fedeltà/amore/grazia (in ebraico chesed) e di verità (in ebraico ’emet)».

Questa gloria ora è in Cristo: la carne di Gesù Cristo è il luogo della sua gloria, «gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). E i suoi l’hanno contemplata. Per l’uomo il Logos fatto carne è questo: grazia e verità di Dio. «La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17).

 

  1. La comunione

Dall’esperienza piena, totale, dall’aver udito, visto, contemplato, toccato, questa vita eterna che era presso il Padre e che si è manifestata, viene la comunione. Chi scrive si rivolge alla comunità con uno scopo preciso: «Perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,3). «Tutti siano una sola cosa – dice Gesù al Padre – come Tu, Padre, sei in me e io in Te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21), «siano una sola cosa, come noi siamo una sola cosa. Io in loro e Tu in me, perché siano perfetti nell’unità» (Gv 17,23).

La comunione, l’unione nella fede comune creata dalla predicazione, è anche comunione con il Padre e con il Figlio. Solo chi osserva la Parola di Dio può dire di essere in lui: «Chi osserva la sua Parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui» (1Gv 2,5; cf anche 1Gv 5,20). Solo «chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1Gv 3,24; cf anche 4,13). E ancora: «Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato (1Gv 2,6; cf anche v. 24). Il rapporto dei credenti con Dio è caratterizzato non come mistica, ma come comportamento.

In Gv 15,1-8 la comunione è raffigurata nell’immagine della vite e dei tralci: «Rimanete in me e Io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (v. 4). «Chi rimane in me e Io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (v. 5).

 

  1. La gioia e l’amore

«Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,4), sia completa (non solo la gioia personale di chi scrive, ma anche di chi legge: la nostra gioia). La gioia non è altro che la salvezza donata alla koinōnía con il Padre e il Figlio, la salvezza escatologica («Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,10-12). E questa salvezza è una realtà presente, poiché nella fede i credenti sono liberi dal mondo che li opprime: «Questo vi ho scritto, perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio» (1Gv 5,13).

La gioia è già compiuta nella comunione che già sussiste tra l’autore e i lettori con il Padre e il Figlio, eppure è ancora incompiuta. Infatti l’essere del credente è sempre in divenire; è un camminare nelle tenebre o nella luce (1Gv 1,6-7). Dobbiamo vivere nell’amore, perché solo l’amore è comunione e comunica una pienezza di vita, che diffonde e suscita gioia. «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio» (1Gv 4,7). «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16).

 

  1. La vita nella luce

In Gv 1,4-5 la “luce” è strettamente collegata alla “vita”: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta». Le due parole “vita” e “luce” «si chiariscono, s’interpretano e si adempiono reciprocamente. Il Dio che crea il mondo, e la cui potenza domina dappertutto per il mondo, è vita. (…) Questa vita non è (…) tutto quel che l’epoca moderna intende con quella parola – afferma Guardini –, ma è tale che la sua essenza può essere espressa con la frase secondo cui essa è luce»[3]. «Questo è il messaggio che abbiamo percepito da lui e che annunciamo a voi: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna» (1Gv 1,5).

«“Luce” – precisa ancora Guardini – significa chiarezza del senso, ampiezza della coscienza, libertà e responsabilità, luminosità e altezza, dignità e splendore, in una parola: spirito… A sua volta, però, spirito non come lo intende la stessa epoca moderna, ma come “vita”. La luce di cui si discorre qui (…) [è] calore, fecondità, copia fluente e donantesi, intimità, vicinanza e amore. È di là che è creato il nostro mondo; e là dove esso sembra entrare in contraddizione, la volontà dell’uomo, nella cui mano era consegnato, l’ha corrotto»[4].

Questa vita del Logos era la luce degli uomini. «La condizione di ogni conoscere; la luce, che scopre le cose, in modo che lo spirito dell’uomo può contemplare, trovare orientamento, saziarsi della verità – questa è la potenza di senso propria del Verbo eterno, del Logos»[5]. «Io sono la luce del mondo – afferma Gesù in Gv 8,12 –, chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita. «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Gv 9,5; cf 1,4.9).

L’Uomo-Dio non porta la luce, ma è luce egli stesso. Cristo non insegna la via, ma la sua persona è nella confusione del mondo ciò che solo rappresenta la direzione vera e può guidare chi le si affidi. Il Signore non annuncia la verità, ma la verità è il suo stesso essere vivo, esso solo essenzialmente e schiettamente. Così perveniamo a delineare la relazione a Cristo Gesù secondo la concezione di Giovanni: credere in Cristo vuol dire entrare a far parte di lui. Cristo attira in sé i suoi. (…). Credere in Cristo significa essere in lui, e pertanto sul diritto cammino, in colui che è la guida, mentre tutto il resto è nell’errore. Credere in Cristo vuol dire vivere in lui in quanto verità vera, nella sua realtà e nell’ordine derivati da Dio. Credere in Cristo significa trovarsi nella circolazione del suo sangue e nel ritmo del suo respiro, palpitare con lui, crescere da lui, agire attraverso lui. Questo Cristo è lui stesso tutto [6]. Egli non porta nulla: è Dio è luce, e la luce non può coesistere con la tenebra, né la verità con la menzogna (1,6). Sono due modi opposti di esistere, di camminare. Non possiamo essere in comunione con lui e camminare nelle tenebre. Solo se camminiamo nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri e quindi in comunione con Dio.

 

  1. «Che cercate?» (Gv 1,35-42)

Racconta Marc-Alain Ouaknin che «un discepolo fece visita al suo maestro che gli chiese: – “Cos’hai imparato?”. Il discepolo rispose: “Ho attraversato tre volte il Talmud!”. Il maestro disse: “Ma il Talmud ti ha attraversato?»[7]. Per lasciarci attraversare dalla Parola che abbiamo appena ascoltato, riflettiamo su alcuni punti.

1- Giovanni è inviato da Dio per testimoniare

Chiamato da Dio fin dal concepimento (Lc 1), Giovanni nel quarto Vangelo viene presentato subito come «uomo mandato da Dio» (Gv 1,6): vincolato con Colui che lo ha chiamato e con coloro a cui è inviato; diventa uno strumento per la salvezza degli altri. Di lui si dice che «venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui» (v. 7); per dare testimonianza al Verbo che «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (v. 14).

«Giovanni gli rende testimonianza» e grida: «Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me. Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia”» (Gv 1,15-16). Il presente “rende testimonianza” e il perfetto greco del verbo “gridare” indicano la validità perenne di questa testimonianza, assunta dai discepoli e dalla Chiesa.

Il verbo “gridare” indica che l’annunzio è di origine e natura oracolare (viene da Dio): Giovanni non è solo l’araldo, ma il “gridare” è l’effetto della rivelazione e della visione da parte di colui che rende testimonianza (cf Lc 3,2: «La Parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto»).

Sembra che l’unico scopo per cui il Battista fu inviato a battezzare sia quello di rivelare Gesù ad Israele (Gv 1,31). Il verbo “manifestare”, “rivelare”, è proprio di Giovanni e indica l’uscire di Gesù dall’oscurità per essere visto e conosciuto dagli uomini, tutti gli uomini (v. 7). Di fronte al Logos non ci sono privilegi: la rivelazione è destinata a “tutti”.

2- Giovanni può testimoniare perché ha visto

La sua testimonianza si fonda sull’esperienza personale ed è valida una volta per tutte (v. 34). «Io non lo conoscevo» – dice Giovanni (Gv 1,31) –, ma «ho visto lo Spirito scendere dal cielo come una colomba e posarsi su di lui» (v. 32; cf Is 11,2 e 61,1). «Io non lo conoscevo, ma chi mi mandò a battezzare con acqua, mi disse: Colui sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è lui che battezza in Spirito Santo» (v. 33). «E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio (“l’Eletto” in molti manoscritti)[8] di Dio» (v. 34).

3- Il testimone è colui che resta fedele al suo posto

Finché la sua testimonianza non ha raggiunto l’effetto voluto. In Gv 1,35-37 (versetti che costituiscono in un certo senso l’epilogo della testimonianza di Giovanni e introducono la pericope della vocazione dei primi discepoli), ricollegandosi a quanto era accaduto nei giorni precedenti, l’evangelista precisa: «Il giorno dopo Giovanni stava di nuovo là». È il terzo giorno da quando Giovanni ha testimoniato a sacerdoti e leviti di non essere lui il Cristo (Gv 1,19-28) e lui è sempre al suo posto (lo stesso verbo, “stare”, ricorre anche in Gv 3,29, riferito all’amico dello sposo, che gli sta vicino e l’ascolta ed esulta di gioia per la sua voce). Non si vuole semplicemente indicare la presenza nello stesso posto di Giovanni, ma si vuole far notare che il Battista rimane fedele al suo posto finché la sua testimonianza non abbia raggiunto lo scopo: far passare a Gesù i suoi discepoli.

4- La testimonianza prepara la sequela

In Gv 1,29-34 la testimonianza del Battista ha per scopo la rivelazione di Gesù a Israele (v. 31): è l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29). Probabilmente, alla base dell’espressione greca “l’agnello di Dio” sta l’aramaico taljā’, che significa sia “agnello”, sia “ragazzo, servo”. Cristo come “agnello di Dio” si ricollega direttamente all’agnello pasquale dell’Esodo e, forse, anche al servo di YHWH, mite come un agnello (Is 53,7 è riferito esplicitamente a Gesù in At 8,32). La designazione enigmatica all’inizio del Vangelo – afferma Vanni – rimarrebbe tale senza la ripresa nel contesto della crocifissione («Non gli sarà spezzato alcun osso» preciserà Gv 19,36). «È lì che Gesù si realizza proprio nello stato di crocifissione “dando la sua vita”, supera le peccaminosità dell’uomo, si rivela come re di tutto il nuovo popolo di Dio (cf Gv 19,19-22)[9].

In Gv 1,35-36, fissando Gesù che passa, Giovanni richiama per i suoi discepoli la sua testimonianza precedente: «Ecco l’agnello di Dio». «E udirono i due discepoli lui che parlava e seguirono Gesù» (v. 37): la vocazione dei primi discepoli è intimamente connessa con la testimonianza del Battista. La confessione pubblica e solenne che Gesù è l’agnello di Dio (ossia il Messia atteso per la fine dei tempi) prepara la fede dei primi discepoli, che riconosceranno in Gesù il Messia (Gv 1,41), il figlio di Dio e il re d’Israele (Gv 1,49). L’apostolo che rende testimonianza è dunque l’anello indispensabile tra la nostra fede e Gesù.

5- Assolto il suo compito, il testimone si fa da parte

Il verbo “seguire”, tipico nella tradizione sinottica per indicare il discepolato (un’autentica sequela di Gesù), è usato in Gv 1,37-38 prima di tutto nel suo significato letterale. In senso traslato significa l’adesione di fede. Colui che bisogna seguire è Gesù: la chiamata alla sequela ha il carattere di un invito e insieme di una promessa (Gv 8,12; 12,26a).

Udita la testimonianza di Giovanni, i discepoli abbandonano il loro maestro per seguire Gesù (Gv 1,35; 3,26). «Ma per l’evangelista ciò non è sufficiente, in quanto ci vuole anche una rinascita mediante la fede (1,12), perché soltanto coloro che credono possono diventare “figli di Dio”. È proprio quanto succede a Cana: i discepoli credettero in lui (2,11)»[10]. Il compito di Giovanni, comunque, è terminato: ora può e deve farsi da parte. È il testimone che resta fedele a Gesù, proprio come l’amico dello sposo, che gli sta vicino, lo ascolta, esulta di gioia per la sua voce, ma sa anche che deve diminuire, mentre il Messia deve crescere (Gv 3,29-30). Il verbo “crescere” utilizzato in Gv 3,30 traduce l’ebraico prh (termine tecnico in Gen1,22: «Crescete/siate fecondi e moltiplicatevi»). La frase di Giovanni è chiara: tocca allo sposo la vita coniugale e la fecondità.

Si è chiamati per adempiere la propria missione, non per la realizzazione dei propri piani personali o per la propria affermazione. Il Battista, inviato per preparare l’incontro col Signore che viene (Gv 3,26), una volta assolto il suo compito, sa farsi indietro per lasciare il posto e lo spazio alla crescita del nuovo. La sua missione sarebbe in pericolo se il popolo, la comunità volesse fermarsi con lui (cf 3,26-30).

Giovanni è solo «voce che grida nel deserto» (1,23), la voce di un testimone che rende testimonianza perché tutti credano per mezzo di lui (1,7): l’unica maniera per andare a Gesù è la voce di un testimone.

«La rivelazione manifesta della realtà e della volontà di Dio – afferma Guardini – mi giunge unicamente attraverso uomini. Quand’Egli crede, ne chiama uno e parla apertamente con lui. Chi è chiamato paga sempre a duro prezzo il dono della elezione; ricordiamo (…) cosa vuol dire sottostare alla parola diretta: come strappi rudemente l’uomo dalla vita abituale, e come sottragga inesorabilmente le care cose di questa esistenza. Colui che è stato chiamato, ascolta la Parola e la trasmette agli altri: Così parla il Signore! (…). L’uomo è all’uomo via a Dio, e sta bene per l’uomo che la Parola di Dio abbia ad illuminare il cuore, ma annunziata dagli altri. Da labbra umane raccogliamo la parola di Dio: è la legge della nostra vita di fede. Esige umiltà: l’obbedienza di cui parlavamo, l’inchinarsi ai messaggeri inviati. Nello stesso tempo però aiuta, perché chi parla non porta una parola arida, ma passata attraverso la sua propria vita. Dietro la sua parola sta lui, quegli che fu direttamente eletto. La sua convinzione porta la sua parola. Al calore della sua fede si accende la fede altrui. Eppure l’essenziale non è qui, perché la parola attinge la sua vera forza non dalla fede del predicante, ma da Dio, ed anche se chi l’annunzia è indifferente o incerto, rimane parola di Dio. Però, per chi ascolta, la fede del predicante è un aiuto»[11].

6- La domanda fondamentale

Ai discepoli che lo seguono, Gesù, prendendo l’iniziativa, pone una domanda fondamentale per tutti coloro che vogliono seguirlo per diventare suoi discepoli: «Che cercate?» (Gv 1,38). Non si vuole ottenere un’informazione, ma fare riflettere, costringere a chiarire innanzitutto a se stessi cosa si cerca: innanzitutto, si cerca qualcosa o Qualcuno? E quanto è importante quello che si cerca? Quanto si è disposti a sacrificare per ottenerlo? Soprattutto la domanda vuole avviare un dialogo, in quanto ha il potere di costringere in qualche modo la persona interrogata a rispondere.

In Gv 1,38 la domanda ha un profondo valore teologico: la rivelazione è manifestazione di Qualcuno, non di qualcosa. Lo scopo della narrazione giovannea è la ricerca di una persona divina: «Chi cerchi?», chiederà Gesù a Maria, al sepolcro, in Gv 20,15.

Alla domanda di Gesù i discepoli che lo seguono rispondono con un’altra domanda: «Rabbì, che, tradotto, significa Maestro, dove dimori?». È evidente l’interesse dei due per la persona di Gesù: lo chiamano Rabbì, maestro. Hanno appena abbandonato il Battista per mettersi alla sua scuola. Vogliono giungere dove Cristo dimora, vogliono abitare con lui. Non una rapida sosta, ma abitare insieme per restarvi a lungo. Sono disposti ad abbandonare tutto per seguire questo Rabbì. Nel giudaismo rabbinico «il discepolo viveva a stretto contatto col maestro, acquistava cosi conoscenza del suo comportamento quotidiano ed apprendeva in modo pratico la halakah. Anche per i normali spostamenti e per i viaggi egli accompagnava il maestro e così aveva pure l’opportunità di essere presente quando qualcuno presentava al maestro problemi halakhici e d’altro tipo»[12].

Ma la loro domanda, al di là di un significato locale, ha un ricco senso teologico. Qual è l’esistenza di Gesù? Qual è il mistero della sua persona? E dove risiede questo mistero? «Se, prima di essere mostrata dal Battista, la vera identità di Gesù era un mistero, per la stessa ragione è importante indagare sulla localizzazione della sua dimora. Quale è dunque la dimora di Gesù? (…). La sua casa, quella del Padre consiste nello stare con quelli che egli gli ha affidato (1,11 e 17,24.21) e lì bisogna cercarlo (1,38 e 20,13.15)»[13].

La risposta dell’evangelista è che Gesù abita nel seno del Padre e vuole che con lui siano anche i suoi discepoli (Gv 14,3): Cristo è la via che conduce al Padre, la verità che lo rivela, la manifestazione della vita che non muore (14,6). Gesù, rispondendo, non indica un luogo, ma invita a camminare con lui. Non chiede fiducia, non mette condizioni; avvia ad un’esperienza, inizia immediatamente un rapporto vitale con i suoi; li porta via con sé: «Venite e vedrete» (Gv 1,39). È l’invito a fare una esperienza personale diretta. Ha quasi il tono d’una promessa, come le parole a Natanaele (1,50) e quelle che seguono, indirizzate a tutti i discepoli (1,51). Un invito a seguire il Maestro per essere partecipi di quanto accade a lui e intorno a lui. “Seguire” significa quindi camminare con Cristo, come già diceva il profeta Michea: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8).

7- Sequela e testimonianza

«Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno rimasero con lui» (Gv 1,39). Emerge nettamente la totale e immediata disponibilità dei chiamati a lasciare tutto per seguire unicamente il maestro. «Signore, da chi andremo? – chiederà Pietro in Gv 6,68 – Tu hai parole di vita eterna».

Andarono: perché la testimonianza del Battista aveva una forza particolare. Da lui i discepoli sono spinti a seguire Gesù, a camminare con lui, a fare un’esperienza diretta (videro). L’andare a vedere ha una funzione decisiva nella vocazione dei primi discepoli. Il giorno dopo anche Filippo dirà a Natanaele: «Vieni e vedi!» (Gv 1,46). Dal contatto personale nascerà la fede nel Messia. E Natanaele getterà nuova luce su questo Messia che viene da Nazaret, confessando: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (Gv 1,49). L’atto di seguire, compiuto dai due discepoli, è il primo passo verso la fede in Gesù, al quale segue il fatto di restare, e non soltanto quel giorno. L’evangelista non dice altro: le parole non servono. Rimanere presso di lui, in costante comunione con lui, non è tanto una sosta, quanto un’intensità di vita, che porta a una nuova testimonianza. La pienezza dell’esperienza dei due discepoli è espressa dall’entusiasmo con cui Andrea si rivolge subito a suo fratello Simone: «Abbiamo trovato il Messia!» (Gv 1,41) e lo conduce immediatamente da Gesù (v. 42). È significativo che i primi discepoli arrivino ben presto a sapere che Gesù è il Messia annunciato da Mosè e dai profeti (1,41.45). Questa scoperta di fede è il risultato del contatto personale con Gesù: «Abbiamo trovato il Messia!». Era la scoperta più entusiasmante e sensazionale per un ebreo: trovare il Messia tanto atteso! Non c’è altro da dire. Ma è il punto d’arrivo di un cammino di ricerca e di attesa: sono parole in cui risuona la gioia della scoperta e la speranza per il futuro.

 

Note

[1] R.E. Brown, Le lettere di Giovanni. Commenti e studi biblici, Cittadella, Assisi 1986, p. 262.

[2] B. Maggioni, La prima lettera di Giovanni, Bibbia per tutti, Cittadella, Assisi 19892, p. 13.

[3] R. Guardini, Tre interpretazioni scritturistiche, Morcelliana, Brescia 1985, p. 17.

[4] Ibidem pp. 17-18.

[5] Ivi, p. 19.

[6] R. Guardini, La figura di Gesù nel Nuovo testamento, Morcelliana, Brescia 20004, p. 62.

[7] M.A. Ouaknin, Le dieci Parole. Il Decalogo riletto e commentato dai Maestri ebrei antichi e moderni, Paoline, Milano 2001, pp. 24-25.

[8] Sembra preferibile “l’Eletto” (solo qui e in Lc 23,35; cf Lc 9,35), titolo inconsueto, particolare, dal quale è più comprensibile il passaggio al corrente “Figlio di Dio”. In questa testimonianza potrebbe avvertirsi l’eco della voce celeste (l’eletto di Dio è una variante di “il diletto”: Mc 1,11; Mt 3,17; cf Lc 9,35). Cf Is 42,1.

[9] Cf U. Vanni, L’Apocalisse. Ermeneutica, esegesi, teologia, EDB, Bologna 1988, p. 181.

[10] l. Alonso schökel, La lettura simbolica del Nuovo Testamento, in Per una lettura molteplice della Bibbia. Atti del convegno tenuto a Trento il 23-24 maggio 1979, EDB, Bologna 1981, pp. 65-66.

[11] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Vita e Pensiero, Milano 1949, pp. 310-311.

[12] R. Neudecker, «Il rapporto maestro-discepolo nel giudaismo rabbinico», in S.A. Panimolle (diretto da), Dizionario di Spiritualità Biblico-Patristica. I grandi temi della S. Scrittura per la “Lectio Divina”, Borla, Roma 1993, p. 66.

[13] L. Alonso Schökel, op. cit., pp. 66-67.