N.03
Maggio/Giugno 1994

Il servizio di volontariato al mondo della sofferenza: un itinerario di maturazione vocazionale

Alfred Delp, gesuita tedesco, giustiziato nel febbraio del 1945 (a 37 anni) vicino a Berlino dai nazionalsocialisti di Hitler, ha lasciato scritto: “Nessun uomo crederà al messaggio della Salvezza e del Salvatore finché noi non ci saremo arrabattati fino al sangue nel servizio dell’uomo malato psichiatricamente, fisicamente, socialmente, economicamente, moralmente e in altro modo ancora”.

Oggi sembra crescere sempre di più il numero dei cristiani, giovani e meno giovani, che la pensano come P. Delp. La nota CEI sulla Pastorale della salute nella Chiesa Italiana sottolinea al n. 59 l’emergere del fenomeno del volontariato anche in Italia che può essere considerato un vero e proprio “segno dei tempi”, indice di una presa di coscienza più profonda e viva della solidarietà che lega reciprocamente gli esseri umani. E sempre nella stessa nota è detto che “il volontariato risponde ad un bisogno profondo di attivo scambio tra la comunità dei sani e la comunità dei malati che non potrà mancare di dimostrarsi un potente incentivo ad una generale crescita nella carità”.

 

 

Come il buon Samaritano

Al n. 60 la nota CEI, citando la Cristifideles Laici (n. 53), l’esortazione post-sinodale sulla vocazione e missione dei laici, afferma: “la solidarietà umana iscritta nella vita e nel destino degli esseri umani, diviene più evidente ed assume un maggiore spessore in una visione di fede. Alla luce della rivelazione, infatti, emerge evidente il compito dei cristiani a farsi carico dei fratelli, ritrascrivendo la parabola del buon Samaritano nella comunicazione ai sofferenti dell’amore di guarigione e di consolazione di Gesù Cristo”.

E ricordiamo che la parabola del buon Samaritano è inserita e commentata da Giovanni Paolo II nel cuore della sua enciclica: Salvifici doloris (nn. 28.29.30).

L’esortazione Christifideles laici afferma inoltre che l’attualizzazione e la ritrascrizione, lungo i secoli, della parabola del buon Samaritano è avvenuta “mediante la testimonianza della vita religiosa consacrata al servizio degli ammalati e mediante l’infaticabile impegno di tutti gli operatori sanitari” e aggiunge: “Oggi, anche negli stessi ospedali e case di cura cattolici si fa sempre più numerosa, e talvolta anche totale ed esclusiva, la presenza di fedeli laici, uomini e donne: proprio loro, medici, infermieri, altri operatori della salute, volontari sono chiamati ad essere l’immagine viva di Cristo e della sua Chiesa nell’amore verso i malati e i sofferenti” (n. 53).

C’è dunque anche una vocazione che interessa coloro che sentono di dover consacrare la loro vita interamente al servizio dei fratelli sofferenti, continuando la missione di Cristo stesso accanto ai malati, prolungando il miracolo dell’amore di guarigione e di consolazione di Gesù buon Samaritano.

 

 

Come matura questa vocazione

Ma attraverso quali vie può maturare, oggi, nella Chiesa e nel mondo questa vocazione? Una prima risposta la dà il Papa nella Salvifici doloris: “Attraverso i secoli e le generazioni è stato constatato che nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia. Ad essa debbono la loro profonda conversione molti santi, come ad esempio San Francesco d’Assisi, Sant’Ignazio di Loyola, ecc. Frutto di una tale conversione non è solo il fatto che l’uomo scopre il senso salvifico della sofferenza, ma soprattutto che nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la sua vita e della sua propria vocazione” (n. 26).

Ciò è vero innanzi tutto per chi scopre di “soffrire insieme a Cristo” (Salvifici doloris n. 26). Ma diventa vero, in qualche modo, anche per coloro che offrono il loro servizio ai fratelli sofferenti.

Sappiamo che Francesco e Chiara proprio incontrando i lebbrosi hanno fatto la scoperta sconvolgente e determinante del Dio fattosi uomo, in tutto simile a noi eccetto il peccato. Del resto lo aveva detto Gesù: “tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

Lo scrittore giapponese Shiro Hibino, di fronte all’atroce spettacolo della sofferenza scriveva nel suo Giornale da campo (Tokyo 1939): “Ma qui c’è qualcosa che mi ha colpito fortemente. Era il volto dei feriti che volevano nascondere le loro orribili sofferenze. Questi volti sudici, con la barba incolta e smagriti, che dovevano lottare ogni giorno e notte con i loro dolori, assomigliavano tutti a un volto, al volto del Crocifisso, quale lo conosciamo delle immagini” (citato da K. Kitamori nel suo libro: Teologia del dolore di Dio). Si intuisce allora come il servizio di volontariato al mondo della sofferenza può diventare un terreno estremamente fecondo per la nascita di vocazioni orientate alla missione tra chi soffre.

Lo ricorda la già citata nota della CEI sulla Pastorale della salute nella Chiesa italiana, che al n. 62 così esorta: “la comunità cristiana, i sacerdoti, l’assistente religioso e le istituzioni apostoliche hanno il compito di scoprire ed educare vocazioni di servizio per gli ammalati e gli handicappati, aiutando i volontari ad approfondire le motivazioni del loro impegno”.

 

 

Impegno evangelicamente motivato

Ed ecco, appunto, un altro momento importante: l’approfondimento delle motivazioni che spingono all’impegno di volontariato (soprattutto nel mondo della sofferenza). Ci possono essere, infatti, motivazioni di tipo solo “personale” (qualche esperienza personale di malattia o di qualche persona cara); oppure motivazioni “sociali” (desiderio di uscire dal proprio piccolo mondo e impegnarsi per gli altri, per la soluzione di tanti gravi problemi sociali); ci possono essere perfino motivazioni meno nobili e autentiche, come quelle di tipo “compensatorio”, o addirittura “esibizionistico”; ancora motivazioni di tipo “esplorativo” (il volontariato diventa occasione e spazio di ricerca e verifica delle proprie intuizioni e inclinazioni).

Quest’ultima potrebbe essere già una buona premessa anche alla ricerca della propria vocazione, ma è soprattutto la motivazione “religiosa” che, in una prospettiva vocazionale, dà la spinta più efficace determinante.

Solo chi ha incontrato Gesù Cristo nel fratello sofferente, sa percepire la voce che lo chiama a darsi completamente nella stupenda missione a servizio dei sofferenti.

 

 

Coltivare nella preghiera il senso dell’Assoluto

L’incontro con Cristo deve essere, però, consolidato e approfondito ogni giorno. Ed ecco la meditazione della Parola di Dio ed ecco la vita sacramentale e, in parole più semplici, l’esperienza della preghiera.

“Essere cristiano – ha scritto il teologo Ladislaus Boros – è essenzialmente un essere che prega. Ogni preghiera esplicita del cristiano non è che la successiva attuazione di questo essenziale pregare della nostra realtà”.

Chi comincia a intuire la strada della propria vocazione non può non scoprire, contemporaneamente, l’urgenza e la necessità della preghiera. Certo rimane sempre importante e preziosissima l’opera di un direttore spirituale, che aiuta a discernere la chiamata di Dio. Ma, per chi prega veramente, si rinnova puntualmente l’esperienza di Teresa di Lisieux, che aveva scoperto nel Signore il suo vero direttore spirituale.

Josef Sudbrack, nel suo libro “Direttore spirituale” dopo avere ricordato alcuni grandi direttori spirituali (Evagrio Pontico, Bernardo di Chiaravalle, Ignazio di Loyola, Francesco di Sales) conclude: “La loro direzione spirituale si colloca ad un livello che va oltre le possibilità psicologiche; orientata verso una fiducia in Dio che, in ultima analisi, non può essere compensata da successi intramondani; verso una identità che non trova la sua pienezza nel tempo presente; verso un Dio le cui strade dobbiamo capire e percorrere, ma che, alla fine, sfociano nel mistero della sapienza e dell’amore di Dio, non di un uomo”.

 

 

Dedizione e fedeltà nella ferialità

Un’altra condizione importante affinché il germe della vocazione a servizio dei sofferenti, maturato nel volontariato, possa sboccare in una vocazione definitiva, di totale consacrazione, è la verifica della capacità di dedizione e di fedeltà nella ferialità.

D’altra parte, se si scopre Cristo nel fratello sofferente, se si riesce a percepire la sua voce che chiama al dono totale, se nella preghiera si rende sempre più chiara e certa questa chiamata, viene da sé che uno scopre come tutta “la santità si può ricondurre ad un unico fatto: alla fedeltà alla missione di Dio”, come affermava Jean-Pierre Caussade (1673-1751) gesuita.

E sempre lo stesso P. Caussade scrive: “L’esercizio di questa fedeltà consiste nella amorosa accettazione di ciò che Dio ci invia momento per momento… Il momento presente è sempre pieno di infiniti tesori. Contiene più di quanto l’uomo possa prendere. Forse, per l’anima che accoglie dalle mani di Dio il suo presente non vi sono più libri e, spesso, non avrà bisogno di padri spirituali. Quest’anima trova nella dedizione ciò che gli altri trovano con le loro fatiche”.

E, ancora, se è vero che il “momento presente” è sempre carico di immense grazie del Signore, è anche vero che è proprio nella “ferialità” che troviamo la verifica più sicura dell’autenticità di una vocazione (anche nei suoi inizi).

Nelle sue Lettere sull’autoformazione Romano Guardini rivolgendosi ai giovani scrive: “Non ci si accorge della schiettezza di un alto scopo, di un sentimento di entusiasmo, prendendo in considerazione le ore solenni; bisogna invece rifarsi a ciò che è di tutti i giorni. Non attraverso le grande decisioni è dato di scorgere il grado di serietà dell’azione, bensì nel piccolo lavoro quotidiano. Fare sul serio, concepire la realtà con alti intendimenti, significa informare di tali disposizioni di spirito la propria vita quotidiana e le mille piccole circostanze di ogni giorno”. E ancora: “Fare sul serio non consiste nel dire parole sonore, e fare a gara nell’esprimere grandi esigenze. Agisce seriamente colui che vede i compiti dove essi sono in realtà: nella vita di ogni giorno, nell’ambiente più vicino a lui; agisce seriamente chi pone mano decisamente a questi compiti e li porta a termine giorno per giorno”.

 

 

Verso una vita consacrata

Quando un giovane o una giovane si è incontrato realmente con Cristo proprio nel servizio di volontariato nel mondo della sofferenza, approfondisce sempre di più questo incontro in una forte esperienza di preghiera e verifica nella ferialità i suoi progetti, si può legittimamente sperare che diventi più facile per lui (o per lei) pensare seriamente a una vita di totale consacrazione al Signore e proprio nel servizio ai fratelli sofferenti.

Tutti nella Chiesa, vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose, educatori, famiglie, dobbiamo sentirci impegnati a creare i presupposti per la nascita di autentiche vocazioni, anche in questo campo vasto del servizio al mondo della sofferenza. E non dimenticando una verità fondamentale, che il Card. Martini riafferma in un suo contributo nel volume Bibbia e vocazione: “Si potrebbe dire che la vocazione è Cristo; ma appunto per questo bisogna collocare e ordinare in Cristo le diverse esperienze che noi ed altri facciamo, e collegarle in una unità. Senza questa unità le nostre esperienze, i nostri carismi, possono degradarsi e svanire, perdere di vista la loro origine e il loro fine”.

E accennando in modo specifico a chi si dedica agli ultimi, ai bisognosi, avverte: “Quando, ad esempio, il carisma del servizio ai bisognosi si chiude in se stesso, pretende di essere l’unico carisma, e diventa una specie di servizio sociale, escludendo tutto il resto, ponendosi come l’unica realtà valida capace di cambiare il mondo, si taglia fuori da tutta la dinamica della vita cristiana”. E aggiunge: “Ecco perché tutte queste esperienze debbono essere continuamente collegate, perché le singole vocazioni cristiane devono sapersi ciascuna ‘servo inutile’. E servo inutile è chi fa quel tanto che gli è indicato ma poi, per il resto, ha bisogno dell’aiuto di tutti, della solidarietà e del conforto degli altri”.

Di ciò sono profondamente convinti coloro che seguono un’autentica chiamata a donarsi nel servizio ai fratelli e alle sorelle sofferenti.