Le discipline scolastiche aprono la persona alla verità?
Dal Vangelo di Giovanni: “Gli dice Pilato: Che cos’è la verità?” (Gv 18,38). La domanda è stata e continua ad essere di tutti. Ma “trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri quale sia la verità; oppure scoprirla da se medesimi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi ad una rivelazione divina” (Platone)[1].
“Gli rispose la donna: So che deve venire il Messia, cioè il Cristo: quando egli verrà ci annunzierà ogni cosa. Le disse Gesù: Sono io, che ti parlo” (Gv 4,25-26).
“Se rimanete fedeli alla mia parola… conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi” (Gv 8,31-32).
“Gli (a Tommaso) disse Gesù: Io sono la Via, la Verità e la Vita” (Gv 14,16).
Questa è la rivelazione cristiana. Ha bisogno della fede per essere accolta. La fede è il viatico più sicuro e con minor rischio nella traversata del mare della vita. Affianca ed autentica i ragionamenti umani meno facili da confutare, che, comunque, ogni uomo ha il desiderio ed il dovere di cercare e produrre. Possono le discipline scolastiche educare a questa fede, aprire alla Verità totale che essa contiene?
La fede è un dono di Dio, non un merito dell’uomo. Lo Spirito soffia dove vuole. Non è possibile, perciò, articolare un itinerario di conoscenza che porti a possederla. Cadremmo nella pretenziosità della gnosi. Cristo non è una sophia, un’ideologia. Se lo fosse verrebbe dagli uomini. Ma è la Via, la Verità e la Vita: Dio, appunto. Noi uomini abbiamo una via, una verità e una vita delle quali non siamo mai certi e sicuri, per quanti sforzi facciamo per renderle tali.
Non ci resta, perciò, che il massimo impegno umanamente possibile per riconoscere questo dono d’amore assoluto, universale e gratuito, consapevoli in ogni caso del rischio intrinseco di fraintendimenti e misconoscenze storiche. Abbiamo questo dovere anche nella scuola, evidentemente. Come farvi fronte? Indichiamo tre linee di azione, allo stesso tempo criteri per giudicare l’adeguatezza della pratica educativo-didattica esistente alla Verità che occorre cercare.
Il valore del “ricercare”
Nella scuola, i saperi disciplinari non possono fermarsi all’esaltazione del particolare e alla indebita trasformazione psicologica o culturale del particolare in ciò che potrebbe apparire totale e completo non più bisognoso di integrazione e di approfondimento. Il Diavolo è BA’ AL ZEBUB, lo spregevole dio filisteo del dettaglio. La traduzione letterale è “il signore delle mosche” o del “letame”, come dice la Bibbia, perché è sul letame che volano a stormi le mosche, ciascuna tronfia del proprio piccolo mondo, scambiato per l’unico mondo esistente. Se ci si vuole mantenere aperti alla Verità, invece, serve che le discipline scolastiche trasmettano tre fondamentali consapevolezze.
Anzitutto, che ogni sapere scientifico vale per la classe di oggetti di studio a cui si riferisce, non in assoluto (nessuna scienza dice tutta la verità o ha titolo ad un’egemonia sulle altre, ma tutte predicano il vero relativamente ai punti di vista determinati e circoscritti attraverso i quali leggono, interpretano la realtà).
In secondo luogo, che pur all’interno di questi confini, il sapere scientifico deve essere sempre critico, cioè capace di dar ragione di sé (spiegare e/o dimostrare), e non solo di descrivere od ostendere gli asserti di cui si sostanzia.
Infine, che esso è sempre aperto e rivedibile non nel senso relativistico che ciò che è vero oggi diventi falso domani, bensì nel senso che la verità di ogni sua proposizione è relativa alle condizioni di conoscenza e di verificabilità poste o storicamente disponibili (in questo senso, la fisica galileiana non è stata resa falsa da quella einsteiniana e quantistica, ma resta vera per ciò che non sia riferito e riferibile all’infinitamente piccolo o all’infinitamente grande, ambiti considerati, come si sa, dalla fisica contemporanea).
Per risultare veramente educativo, in sostanza, l’insegnamento di ogni disciplina scolastica dovrebbe consegnare agli allievi il messaggio che Raimondo Lullo (1235-1315) affidò alla cultura cristiana medievale e alla società occidentale nel suo Libro del Gentile e dei tre savi. Tre savi espongono a lungo le loro dottrine, con tutta la forza e la convinzione di cui sono capaci. Ma nessuno presuppone di aver raggiunto la verità. Sanno invece che dovranno continuare a dibattere con tutto l’impegno e la concentrazione della loro ragione. Senza nessuna indifferenza, negligenza o vuota tolleranza; ma perennemente a caccia di un vero che non riescono mai a catturare e a dominare del tutto, tanto è complesso e profondo e tanto deve essere sempre depurato dall’errore. Abyssus abyssum vocat (Sal 42,8): l’abisso, nell’araldica medievale, divenne il centro dello scudo, in cui, però, si dipingeva ancora uno scudo, il quale aveva al suo centro ancora uno scudo: e così via, vertiginosamente. È il senso di questa inesauribile militanza della ricerca che apre l’uomo alla Verità.
L’onestà degli “strumenti”
Non esiste una conoscenza che non sia buona. Il vero è, allo stesso tempo, buono (oltre che bello). Non tutti i mezzi che l’uomo ha a disposizione per poter raggiungere conoscenze vere e, in quanto tali, buone, si rivelano, tuttavia, leciti, cioè moralmente accettabili; in ultima analisi buoni. Nel campo della ricerca scientifica, questo vuol, per esempio, dire: per entrare in possesso di un documento storico esclusivo ed importante, posso ricorrere alla dissimulazione, all’inganno o alla violenza? Quale comportamento devo invece assumere? Perché? Per confermare un’intuizione fisica matematicamente dimostrata posso manipolare i dati di una sperimentazione? Per diffondere una verità di qualsiasi natura (scientifica, letteraria, artistica, religiosa, etica ecc.), è giusto che io ricorra all’impostazione autoritaria, alla minaccia, alla violazione della libertà dell’altro? Quali sono, piuttosto, gli itinerari leciti per far condividere a tutti la verità o ciò che io reputo in ragione e coscienza tale? Che cos’è, d’altra parte, che li fa leciti? Sono gli eterni problemi dell’etica.
Entriamo in una scuola. Leggiamo i programmi delle discipline previste nei suoi piani di studi. Seguiamo le scelte effettivamente compiute dai docenti nell’insegnamento delle discipline loro affidate. Quasi mai, si vedrà, si fanno i conti con gli interrogativi che si sono richiamati. Come pretendere, allora, che sia una scuola che dispone all’incontro con la Verità?
Risposte di “salvezza”
Analizziamo ora, brevemente, due parole: sacro e meraviglia. Sacro indica per definizione qualcosa che è sottratto al “potere” di intervento dell’uomo, che è indisponibile alla nostra misura e ai nostri interventi “tecnici” artificiali. Sacro, in sostanza indica, per noi, il, un totalmente altro. Dio, in questo senso, è il sacro per eccellenza; assoluto.
Sacro tuttavia, non è soltanto il, un totalmente altro in senso intrinsecamente assoluto. È anche ciò che noi vediamo, sentiamo, sperimentiamo, oggi, con le forze e le capacità che ci ritroviamo, come “altro”, come sottratto alla nostra dipendenza: il miracolo di un’alba, il “sublime” negativo di un mare in tempesta, la morte che viene anche quando non la desideriamo, l’amore che sboccia quasi contro il nostro volere ecc.
Per gli uomini primitivi, al pari dei bambini, i confini del sacro erano, sono larghissimi. Per l’uomo contemporaneo, al pari della persona matura e cresciuta, sono più ristretti. L’esperienza del sacro, comunque, ha sempre accompagnato l’uomo e lo continua ad accompagnare. Insuperabilmente.
La seconda parola: meraviglia. I Greci, ed Aristotele in prima fila, le attribuivano due significati allo stesso tempo intrecciati e speculari. Meraviglia era anzitutto l’angoscia, la sottile inquietudine che si prova dinnanzi al non conosciuto, al sacro, appunto. Meraviglia, però, era anche il gioioso e compiaciuto sentimento che ci pervade quando conosciamo qualcosa che non conoscevamo, controlliamo una realtà che ci sfuggiva, addomestichiamo il selvaggio, “umanizziamo” il sacro.
Meraviglia, perciò, allo stesso tempo come timore e sicurezza, gioia e dolore, angoscia e consolazione, sospetto di servitù e volontà di dominio: un’anfibolia strutturale.
Perché l’uomo soffre di queste ambivalenze? Ne può fare a meno? C’è stato un periodo in cui ne ha fatto a meno o ha solo potuto volere di farne a meno? Quando, perché, come, dove gli è potuto crescere e gli cresce ancora dentro il desiderio di sbarazzarsi di questa sua intrigante condizione di complessità, per abbracciare semplificazioni più rassicuranti? Che senso ha, al fine, tutto questo voler dominare tutto senza riuscire mai a farlo del tutto? Voler conoscere tutto senza arrivarci? Voler vivere per sempre ma scoprire ogni giorno di morire?
La religione è stata storicamente ed è teoreticamente l’orizzonte che ha consentito e consente a ciascun uomo di dare un senso a queste domande e di trovarvi risposte di salvezza, senza rimanere nel nichilismo e nella disperazione.
Ma sono presenti questi problemi nella scuola? Ci si interroga sulla circostanza se la storia o la matematica o la biologia ecc. sono capaci di offrirci “salvezza”? Oppure hanno altri scopi? Quali “esperienze”, quali “saperi” hanno, invece, questa pretesa, e perché? Si tratta di pretese fabulatorie oppure sorrette da fondamenti? Quali, dove, perché? In questo senso, la religione è una componente opzionale o ineliminabile di qualsiasi paideia? E i saperi disciplinari comunque presenti nei curricoli scolastici si confrontano, come e in che senso, con essa? Oppure gli sono estranei?
Se l’insegnamento scolastico delle discipline di studio vuol essere educazione alla Verità fa i conti con questi interrogativi e non dà loro risposte evasive. Li elegge, anzi, a fulcro della propria funzione.
Note
[1] Platone, Fedone, 85, c.d.