«Sono stato conquistato da Cristo e corro per conquistarlo» (Fil 3,12)
L’itinerario vocazionale dell’apostolo Paolo
Paolo l’uomo nuovo
Per accostarci alla figura di Paolo e al suo itinerario vocazionale prendiamo come riferimento il versetto della Lettera ai Filippesi che fa da titolo a questo incontro. Si deve premettere che la conoscenza dell’Apostolo passa per quanto lui ha scritto nelle sue lettere. Esse nascono dal desiderio di aiutare i suoi cristiani ed i suoi collaboratori a realizzare la loro vocazione. Paolo è un universo talmente complesso che si rischia di avvicinarlo o solo attraverso la sua biografia, o solo per qualche aspetto che appena sfiora i contenuti ricchissimi del suo pensiero. Più difficilmente ci si accosta a Paolo che vive, agisce e pensa da cristiano. L’argomento principale che Paolo porta alle sue comunità o ai singoli cristiani per incoraggiarli, per stimolarli, per aiutarli a superare qualche disorientamento, non è il suo pensiero, ma la sua vita.
Paolo è la nuova creatura che nasce dalla creazione nuova. Questo uomo nuovo, che corrisponde alla visione biblica dell’uomo, non è un composto di anima e di corpo dove il corpo funziona da prigione e limite dell’anima; ma è un’unità che cammina verso la salvezza che si concluderà con la liberazione del corpo, non dal corpo, ma del corpo[1]. La liberazione del corpo è la risurrezione, ultima tappa della salvezza.
Paolo presenta se stesso in questo cammino di liberazione, narra la sua storia in termini molto concreti, per niente addolciti da una visione spiritualista, anche se la sua è una visione molto spirituale, dal momento che è lo Spirito che opera la creazione e la creatura nuova.
Io corro
Nella Lettera ai Filippesi, volendo parlare della sua vita, Paolo scrive: «Sono stato conquistato da Gesù Cristo e corro per conquistarlo» (3,14). Per presentarsi Paolo non sceglie un verbo come studiare, pregare, riflettere… anche se tutte queste dimensioni sono sue. Dice: io corro. La visione atletica dell’impegno della vita è, plasticamente, la rappresentazione dell’uomo che supera i suoi limiti, le sue pesantezze. Anima e corpo, spirito e materia insieme diventano energia. Un uomo che corre, preso in un fotogramma, è confusione di linee e, di fatto, forza le regole dello spazio e del tempo.
Nella Lettera ai Filippesi, Paolo usa queste parole in un contesto polemico perché vede l’energia della comunità occupata per altri scopi, diversi da quello di raggiungere il traguardo posto alla fine della corsa. Dunque li richiama e pone se stesso come esempio[2]. Paolo è in prigione, limitato al massimo, ma non dice, come farà alla fine del suo ministero: «Ho corso» (cf 2Tm 4,7). Egli dice: «Corro».
Questo linguaggio e questo contesto aiutano a delineare un primo aspetto della vocazione che Paolo sente essere non solo sua, ma dell’intera comunità. Si tratta di muoversi verso un traguardo che ancora non si è raggiunto, di una perfezione che ancora non si possiede. Qual è questo traguardo che si pone come obiettivo dell’Apostolo e di tutti i credenti? Si è già accennato alla risurrezione, ed è una prospettiva da non dimenticare. Forse, però, la meta della corsa è l’essere perfetto. In qualche maniera il traguardo, la vocazione, è questa perfezione che si deve comprendere come assimilazione a Cristo.
Un cristiano ha come traguardo quello di ricalcare Cristo. Se si può prendere in prestito dall’apostolo Pietro un’immagine della vocazione del cristiano, essa viene descritta come un impegno a ricopiare nella propria vita i tratti di Cristo (cf 1Pt 2,21).
Corsa e lotta
Paolo pensa alla vita del cristiano come ad un cammino. Per comprendere la sua prospettiva è molto prezioso il capitolo 8 della Lettera ai Romani.
Il punto di partenza di ciascuna persona è quello di essere “nella carne” e, dunque, in una situazione segnata dalla fragilità. La fragilità non deve essere intesa come incertezza morale, ma come incapacità ontologica di fare scelte che producano vita. L’uomo regolato dal principio della carne, della debolezza, si scopre profondamente disorientato ed incapace di porre azioni capaci di produrre vita.
L’incarnazione di Cristo e il dono dello Spirito liberano l’uomo da questa legge della morte e lo mettono nel mondo della vita. Tutto il cammino dell’uomo sarà quello di realizzare l’essere figlio di Dio. Correre è, in questa prospettiva, il cammino verso la realizzazione di questa identità di figlio di Dio. Corsa e lotta danno l’idea che Paolo ha dei cristiani: una fortissima plasticità e una grande grinta.
Bisogna tenere a mente alcune situazioni nelle quali Paolo si scontra con il modo di vivere secondo la carne dei suoi discepoli, o dei suoi amici. Ad esempio nella Lettera ai Galati (2,11) racconta di Pietro che si comporta secondo il principio della carne, poiché, dal momento che ha paura di urtare i Giudei, si comporta male con i pagani. Il suo modo di fare è segno di paura, di disorientamento. Paolo rimprovera Pietro perché un figlio di Dio non deve essere dominato dal pregiudizio, dal timore… dalla carne, appunto.
Soprattutto segno di questa evoluzione verso la perfezione può essere il biglietto che Paolo scrive a Filemone. La storia è conosciuta, ma colpisce sempre per il grande affetto che Paolo dimostra non solo per Onesimo, ma anche per Filemone, che viene invitato a superare per amore il suo diritto su Onesimo. Una spinta decisiva che muove questo suo amico a sconfiggere il principio della carne, che avrebbe giustificato ogni sua azione contraria allo schiavo, per entrare nel mondo dello Spirito, anzi, per permettere allo Spirito di entrare nel suo mondo. Non solo non deve punire Onesimo, ma lo deve anche riconoscere come fratello[3].
Una vita inquieta
Paolo, in Fil 3,12 usa un altro verbo dinamico che viene tradotto così: «Continuo a correre per raggiungerlo». La vita dell’Apostolo non è un possesso statico di alcune certezze, ma descrive la sua vita come una vita inquieta. L’inquietudine dell’Apostolo nasce dall’importanza del traguardo, dal non dare per scontato il suo raggiungimento. Subito, però, Paolo precisa che questa corsa non è un affanno (cf 1Cor 9,26). La corsa di cui qui si parla non è una corsa nella quale uno deve farcela da solo, la corsa di uno preoccupato solo di se stesso. La corsa di Paolo è la risposta ad un momento della sua vita nel quale il suo camminare è stato interrotto e messo su un’altra strada.
Il riferimento è all’ora di Damasco[4]. In queste poche parole ci sono due elementi importanti: quello del traguardo e quello dell’origine della vocazione.
I Filippesi non hanno avuto la stessa esperienza di Paolo, ma sarebbero delle persone poco realiste se cercassero il loro incontro con Cristo come un’imitazione dell’esperienza dell’Apostolo.
L’incontro con Cristo non può essere per tutti straordinario come per l’Apostolo; ma per tutti accade nel momento della professione di fede e del battesimo. Ogni cristiano ha, nel giorno del suo battesimo, la sua Damasco. Da lì inizia il cammino verso il traguardo, che è descritto come un cammino nel quale il desiderio di afferrare Cristo fa superare le linee dei tanti condizionamenti che si vivono e indicano, appunto, il cammino verso la perfezione.
Il tempo di Saulo e il tempo di Paolo
Che cosa è quest’ora di Damasco che Paolo richiama come fondamentale per la sua vocazione e per quella dei cristiani di Filippi?
Non ci si chiede che cosa sia successo in quell’ora, ma il senso di quell’ora. La domanda che ci facciamo è: «Chi è il cristiano Paolo più di quanto sia Saulo, il giudeo della diaspora?». Questa risposta aiuta anche a comprendere che cosa il Vangelo aggiunge all’esistenza di chi lo accoglie.
C’è un tempo di Saulo e un tempo di Paolo. Questo significa che Paolo deve rinnegare Saulo? Nelle sue lettere c’è la risposta: fermamente radicato nella sua identità di cristiano, Paolo è orgoglioso della sua identità di Saulo. Giudeo della diaspora, rivendica di essere stato educato a Gerusalemme alla scuola di Gamaliele. A Damasco non muore Saulo e nasce Paolo, ma Paolo conquista Saulo.
C’è qualcosa che accade a Damasco che non è riconducibile ad un episodio, ma è qualcosa di più. Si parla dell’ora di Damasco come del momento in cui emerge un’esperienza centrale attorno alla quale ruota tutto. Il punto da cui, nella vita di Paolo, tutto riprende e a cui tutto fa riferimento. Per Paolo la sua fede diventa la sua vita nel momento in cui ha una visione che lo atterra, quando vede il Messia e sente la sua voce. Quella visione immediatamente diviene e resta l’esperienza centrale di Paolo. Su tale esperienza non si può discutere e bisogna partire da essa per comprendere Paolo, la sua personalità e anche le sue convinzioni. Un’esperienza che lo ha afferrato per l’ebreo che egli è e che non cessa di essere e il cui mondo spirituale, intellettuale e morale è la Bibbia; tale visione ha il senso di una chiamata; una chiamata su una nuova strada; mai più Paolo potrà percorrere quella passata[5].
Ciò che sorprende è che questa ora è riservata ad ogni discepolo di Cristo. La vocazione, così come appare nelle parole della Lettera ai Filippesi, vede quest’ora come inizio del cammino, ma anche come traguardo del cammino. È così, è scoccata questa ora nella vita di ogni cristiano che si deve impegnare perché tutte le conseguenze di quest’ora si realizzino realmente.
Come diventare Vangelo
Vedere le conseguenze di quest’ora nella vita di Paolo è utile per imparare il cammino di Paolo, che è Vangelo, per coglierlo come un cammino imitabile. A Paolo dobbiamo chiedere come diventare Vangelo.
La prima scoperta che Paolo fa come conseguenza di quest’ora è la scoperta di Dio. Incontrando Cristo, Paolo si rende conto che in lui c’era stato un fraintendimento drammatico della stessa immagine di Dio. Paolo credeva in Dio in maniera formidabile. Che Dio era quello in cui Paolo credeva? Certamente il Dio della Bibbia.
Era scritto da qualche parte nella Bibbia di un Dio che lo voleva indifferente di fronte alla morte del giovane Stefano? C’era in qualche parte della Bibbia un Dio che lo voleva protagonista della persecuzione dei cristiani anche fuori dai confini della città santa? La fede degli ebrei non è una ideologia, non è questione identitaria. Per gli Ebrei Dio, più che essere uno che è, è uno che fa: Dio crea, Dio chiama, Dio libera, Dio perdona, Dio promette, Dio comanda, Dio riscatta.
Il credo che Paolo recitava ogni giorno affermava infatti: «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do ti stiano fìssi nel cuore» (Dt 6,4-6)[6]. Paolo comprende di aver frainteso Dio. Questa sua scoperta diventerà una delle costanti della sua missione: già dal primo viaggio, infatti, si rende conto che le persone avevano un’immagine sbagliata di Dio (cf primo viaggio missionario: At 14,11-18; l’esperienza di Atene At 17,22-31). Paolo comprende dunque che Dio non si può dare per scontato, che tutta la rivelazione e l’incarnazione hanno lo scopo di rimettere Dio nell’orizzonte del mondo e liberarlo dalla legge della disperazione e della morte (cf Rm 1,23).
Come matura Paolo questi pensieri? Il luogo della maturazione del suo pensiero, ma sarebbe meglio dire della sua vocazione cristiana e apostolica, è la strada[7].
La strada
Ci sarà un motivo per cui si incontra Saulo in una piazza ad assistere al martirio di Stefano, sulla strada di Damasco nel momento in cui incontra Gesù? E ci sarà poi un motivo per cui, cieco, è condotto fino ad una casa che viene indicata ad Anania con un indirizzo preciso: «Va’ sulla strada chiamata diritta e lì troverai Saulo» (At 9,11 )? È proprio per strada che Saulo diventa Paolo e impara a comprendere la sua vocazione.
Sulla strada Paolo comprende i confini dell’evangelizzazione. Per mandato della Chiesa di Antiochia inizia il suo primo viaggio (At 13-14). Un viaggio molto breve che lo porta a Cipro e poi ad Antiochia di Pisidia. I suoi destinatari erano i Giudei, che in gran parte rifiutavano la sua predicazione. Si rende invece conto che i pagani la abbracciano con entusiasmo.
La seconda verità che Paolo impara per strada è che le strade di Dio non sono le strade prevedibili dagli uomini. C’era l’idea che l’annuncio del Vangelo potesse essere un affare interno al mondo dei Giudei e che la diffusione del Vangelo potesse riguardare i Giudei della diaspora, circa il 10% della popolazione dell’impero. La sorpresa della strada sta nel fatto che una moltitudine di persone si rallegrarono e glorificavano la Parola del Signore e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero (cf At 13,48).
La novità di un Vangelo che conquista soprattutto i pagani, cioè quelli che non erano considerati, deve essere accolta da tutti e a Gerusalemme, in una riunione degli apostoli, si decide di accogliere questa lezione che Paolo e Barnaba avevano appreso. Nella Lettera ai Galati Paolo accenna alla difficoltà di compiere questo passaggio. Un passaggio che in teoria Paolo non avrebbe mai fatto perché era un giudeo convinto: mettere da parte il Giudaismo, senza con questo mettere da parte la Legge e i Profeti, era un’operazione che cambiava completamente la prospettiva del rapporto fra l’uomo e Dio, affermando che la relazione è quella della fede. È la fede che conta e non, parlando in maniera paradossale, la religione. Tutta questa esplosione di novità giustifica l’ostilità dei Giudei, ma, soprattutto, è una testimonianza impressionante di come Paolo obbedisse allo Spirito.
Sempre ai Galati Paolo dirà che è proprio la libertà di chi obbedisce allo Spirito che caratterizza come cristiani. Paolo impara dalla strada, di fronte alla libertà di Dio che chiamava tutti alla fede, un modo di essere uomo diverso da quello che conosceva. Si tratta dell’uomo spirituale, uno che non è schiavo della carne.
La Lettera ai Galati spiega bene che cosa sia vivere nella carne (cf Gal 5,19-21). L’uomo che vive secondo le opere della carne tende a cercare tutte le sicurezze possibili, ma generalmente la sua ricerca fallisce. Anche l’appartenenza, l’identità giudaica, tutte quelle cose che facevano parte di Saulo, possono essere un segno della fragilità. Certamente l’uomo della carne non è libero. Chi è libero è l’uomo spirituale, quello che vive secondo la legge dello Spirito (cf Gal 5,22-23).
Questo è l’uomo libero che Paolo vuole essere, l’uomo perfetto che vuole diventare alla fine della sua corsa e che propone a tutti i suoi cristiani.
La strada maestra di umanità
Come arriva a formulare questo sogno che certamente ha profonde radici bibliche? Ancora la strada è maestra per Paolo. Sulla strada l’Apostolo fa un’esperienza profonda di umanità. Nei suoi viaggi che, per quanto regolati dalle leggi dell’impero, erano per forza viaggi avventurosi, lui tocca con mano la realtà dell’uomo.
Viaggiando, Paolo scopre che cosa sia la legge del peccato e quanto sia forte. Il pensiero dell’uomo abbandonato da Dio è la sintesi che Paolo dà del peccato.
Viaggiare era un’impresa per nulla semplice: ogni giorno si rischiava, in cammino e nelle locande, di perdere i propri beni, se non la stessa vita. Camminando senza potersi fidare di nessuno, Paolo fa esperienza della crudezza e della universalità del male e comprende come non esistano persone, o popoli, che siano meno soggetti di altri alla legge del peccato.
Lo scriverà ai Romani proprio all’inizio della sua lettera quando scrive che sia i Giudei che i pagani, tutti sono sotto il segno del peccato (cf Rm 2). Solo una carovana sicura, solo la presenza di uno che veglia sugli altri, è garanzia di un viaggio tranquillo. Nella sua mente l’idea della redenzione, che a volte sembra tanto astratta, prende forma proprio camminando, proprio facendo l’esperienza di persone che sembrano una cosa e sono un’altra, o di persone che sono costrette a fare quello che non vorrebbero. La redenzione è la liberazione da questa legge del peccato per la quale nessuno è libero di essere ciò che desidera. L’uomo spirituale è proprio quello che si libera da questo dominio. È l’uomo che veglia sull’amico quando, nella stanza della locanda, tutti dormono.
Mentre cammina, Paolo scopre anche la ricchezza delle persone e delle culture che incontra. Si sa che uno degli elementi più importanti della sua personalità era quello della multiculturalità. Egli scopre che una delle leggi del peccato è proprio quella della divisione.
Paolo fa suo il pensiero della filosofia greca del tempo, che sognava un mondo senza confini, ma comprende che solo Cristo può operare questa universalità in cui «non c’è né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28-29). Dio non è una cosa da custodire, da collezionare, da usare, ma è una persona che ci crea, che ci libera, che ci fa delle promesse. Questa è la sua scoperta ed è la scoperta che cerca di far fare agli altri.
La corsa del Vangelo
C’è un momento dell’itinerario di Paolo che più di altri mostra come sia maturato nella sua vocazione. Paolo non è uno che perfeziona il suo pensiero per gusto di dialettica, ma racconta quello che gli accade e come questo gli abbia cambiato la visione delle cose. Più volte si è fatto cenno ad Atene: ma che cosa è successo in quella città?[8] Quando si è parlato dell’ora di Damasco si è detto che quella era stata l’ora nella quale Cristo si era manifestato a lui. Ma nella Lettera ai Galati Paolo chiama questa rivelazione apokalupsis (1,12) e cioè qualcosa che si realizza nel tempo e non una cosa avvenuta una volta per tutte. È soprattutto camminando che Paolo scopre il volto di Cristo. Nel suo progresso spirituale Paolo ha dovuto scoprire la croce[9].
Ad Atene scatta il momento critico del suo apostolato perché lì si rende conto che il suo disegno di rendere meno duro l’impatto con Cristo, mettendo tra parentesi la croce e ricorrendo a nozioni filosofiche e poetiche, non funziona. Nel discorso di Atene, Paolo non parla della croce. È il momento di una profonda crisi dell’Apostolo, che scopre come la sua sapienza non serva a molto, che l’unica sapienza è quella della croce, che per i Giudei è bestemmia e per i pagani è pazzia (cf 1Cor 1,23). Paolo scopre che l’unico modo per entrare in comunione con questa sapienza è quello della fede: per noi che crediamo questa croce è «sapienza di Dio e potenza di Dio» (1Cor 1,24).
Paolo scopre che, predicando Cristo crocifisso, il Vangelo smette di essere una parola perbene e diventa una forza di liberazione. Lo scopre vedendo come i cristiani di Corinto, persone che provenivano da condizioni fortemente compromesse da tutti i punti di vista, accolgono con entusiasmo la croce di Cristo. La scoperta della croce cambia il suo modo di essere e lo conduce a comprendere come la forza del Vangelo è nel Vangelo stesso. Nella debolezza del Vangelo legge la sua debolezza, nella sua prigionia, nell’essere impedito a causa del Vangelo, vede il Vangelo che cammina. Nella Prima Lettera ai Corinzi si legge: «Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli; mi sono fatto ogni cosa a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni. E faccio tutto per il vangelo, al fine di esserne partecipe insieme ad altri» (1Cor 2,22-23).
Fino a dire che è «quando sono debole che io sono forte» (2Cor 12,10): Paolo può essere debole, ma Cristo non lo è. Di questa consapevolezza è testimone quando scrive a Timoteo presentando se stesso prigioniero come uno che è in catene per il Vangelo, ma che di questo Vangelo non si vergogna (cf 2Tm 2,8-9). Che significa vergognarsi della sofferenza? Bisogna riflettere sul fatto che la condizione di prigionia non fa certamente pensare bene di una persona che la subisce e chiaramente il giudizio negativo si estende anche ai motivi che l’hanno determinata. Nel caso di Paolo il motivo della sua prigionia è il Vangelo.
Paolo scopre che il Vangelo è potente perché ha trasformato lui stesso in Vangelo.
Scelto, chiamato, santificato
Spesso Paolo quando vuole fare sintesi della sua esperienza di cristiano e di apostolo dirà: «Cristo mi ha scelto, mi ha chiamato, mi ha santificato» (cf Rm 1,1). Non si smetterà mai di essere affascinati dal cambiamento di un cuore che passa dalla prospettiva del merito a quella della grazia. Un cuore che smette di pensare a quello che deve fare e comincia a contemplare quello che Dio ha fatto in lui. Nella Lettera ai Colossesi Paolo esclama: «Per questo mi affatico e lotto con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza» (Col 1,29).
Tutta l’esperienza di Paolo potrebbe essere letta come una contemplazione di quanto la grazia ha fatto in lui e continua a fare in quelli che accolgono il suo Vangelo.
L’amore per la Chiesa
Certamente non si può parlare della strada di Paolo senza pensare al frutto del suo cammino: le chiese da lui fondate. Paolo scopre i fratelli, la comunità, la missione. Paolo non si potrebbe nemmeno immaginare senza Chiesa, sia all’inizio del cammino, quando incontra Anania, sia dopo, quando incontra gli Apostoli, le colonne della Chiesa. Non lo si può pensare senza Chiesa quando, avendo fatto esperienza che i pagani più che i Giudei si entusiasmavano all’ascolto della Parola, vuole predicare a loro questo Vangelo, ma prima chiede alla Chiesa di Gerusalemme l’approvazione per realizzare questo suo desiderio (cf Gal 1,18-19).
Quanto amore Paolo ha per la Chiesa! Si pensi ad esempio alla colletta che promuove per la Chiesa di Gerusalemme sofferente per una grave carestia.
Egli è fondatore delle chiese ed è proprio la relazione con esse a determinare uno dei segni del cammino di Paolo. Quello che Paolo prova per le sue chiese è una passione che definisce in molti modi: una gelosia, una partecipazione alla gioia e alla sofferenza di tutti i cristiani che le compongono. Da queste chiese Paolo riceverà anche molte prove, molti motivi di sofferenza e di delusione; in qualche momento sarà oggetto di insulto e di tradimento. Proprio alla comunità che più di ogni altra lo ha messo alla prova scrive: «La nostra lettera siete voi» (2Cor 3,3).
La comunità è il segno e il motivo del suo cammino. Paolo non è un viaggiatore solitario che decide di girare il mondo. Cammina perché deve annunciare Cristo crocifìsso e risorto e pensa che questa notizia sia tanto importante da valere tutti i rischi e tutte le fatiche, ogni tipo di sofferenza.
Tutto questo perché ha presente il suo obiettivo e se fra le sofferenze si contano anche quelle che gli provenivano dalle Chiese, si può comprendere come uno dei poli che scopre nel suo cammino siano i fratelli, che danno il senso al suo camminare.
Definisce i cristiani “una lettera che tutti possono leggere” perché ognuno può rendersi conto del Vangelo che li ha trasformati: il Vangelo è come una luce che irradia (cf 1Ts 1).
È una vera passione per la Chiesa che determina l’esperienza di Paolo. Quando parla del rapporto che lui ha maturato con le sue chiese, usa termini che richiamano la paternità e la maternità, immagini di tenerezza come tutte quelle che ricordano la sua protezione nei confronti dei cristiani. Gli altri non sono un incidente nel cammino di Paolo, un qualche ostacolo nel suo progresso. Ai Filippesi dirà che li porta nel cuore e che li ama con un affetto profondo (cf Fil 1,9).
Le comunità gli fanno comprendere che il Vangelo cammina in maniera straordinaria e conosce la gioia di vedere che il Vangelo può camminare anche senza di lui, quando è prigioniero. Il fratello che crede è motivo della sua gioia, perché fa quello che lui non può fare. Le comunità gli fanno comprendere che Dio è custode del Vangelo. Se l’esperienza di Atene lo aveva riportato all’umiltà della croce, le altre esperienze lo aiutano a comprendere la presenza continua del risorto nell’opera dell’evangelizzazione.
Il fondamento della speranza: Cristo risorto
Camminando, Paolo deve fare i conti anche con la delusione di chi misurava la debolezza della presenza di Cristo risorto nella storia, soprattutto la delusione di quelli che pensavano che Cristo immediatamente sarebbe diventato Signore della storia, che sarebbe ritornato glorioso. Questo, però, non accade e in molti nasce il pensiero che il cielo sia vuoto, che non ci sia niente da attendere.
Paolo scopre nel confronto quotidiano con la storia che un cristiano non può vivere se il suo cielo è vuoto e lo scrive nelle sue lettere, soprattutto in quelle che scrive ai Filippesi e ai Tessalonicesi.
Paolo scopre una dimensione essenziale della vocazione: la dimensione della speranza. La vacuità del futuro, il cielo vuoto del futuro, rappresentano una dimensione che una comunità cristiana è chiamata a contrastare vivendo l’attesa, cioè vivendo un rapporto attento con la storia e con il tempo.
Vivere la speranza è vivere protesi nel futuro con lo statuto del Risorto, cioè essere capaci di cambiare, di introdurre un’immissione di vita nella creazione, che sembra votata alla morte, nell’attesa del compimento definitivo riservato alla fine dei tempi. Questa interruzione nel nome della speranza, suggerisce a Paolo tutte le parole con le quali incoraggia e consola, tiene sveglia l’attesa dei suoi cristiani; ma, soprattutto, suggerisce a lui, con il passare del tempo e con la limitazione sempre più forte della sua libertà, il pensiero della vera potenza: «Non lo dico perché mi trovi nel bisogno, poiché io ho imparato ad accontentarmi dello stato in cui mi trovo. So vivere nella povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e per tutto ho imparato a essere saziato e ad aver fame; a essere nell’abbondanza e nell’indigenza. Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica» (Fil 4,11-13).
La vocazione alla gioia
Questo cielo pieno di Cristo risorto è forse il tratto vocazionale del quale più di ogni altro oggi si sente il bisogno. Scoprire Cristo risorto nell’orizzonte della storia è scoprire la gioia.
La vocazione alla gioia è una cosa della quale si parla sempre, ma qualche volta con un linguaggio da premio di consolazione. In Paolo la gioia è il frutto della consapevolezza della potenza di Cristo vivo in lui e che lo ha scelto. A questa vita risponde vivendo, con la sua fede, la sua carità e la sua speranza. La gioia è la garanzia che la forza di Dio, lo Spirito di Dio è su di lui. Evidentemente si parla di una gioia essenziale ed esistenziale, testimonianza formidabile in una cultura segnata dalla tristezza.
La gioia rende possibile la testimonianza e la predicazione. La tristezza rende difficili i progetti, rende stanco il cammino, rende malata qualunque esperienza e spesso fa cominciare ogni cammino con la sensazione che quello sarà un cammino inutile.
La tristezza ha riempito di sé la filosofia del ‘900 e ritorna, sembra con maggiore forza, nelle analisi odierne. Essa viene chiamata ospite inquietante ed è identificata con il nichilismo. Papa Benedetto la chiama “relativismo”. Con questo ospite sconosciuto – l’insistenza del Papa ci deve aiutare a prenderne coscienza – ci dobbiamo confrontare. La sua presenza è indicata non nei libri di catechismo, ma nelle analisi più pretenziose del nostro tempo, nel fenomeno della svalutazione di tutti i valori.
Il valore dei valori è Dio. Questo non sorprende, anzi, giustifica filosoficamente la insistente volontà di eliminare dalle persone il riferimento a Dio. L’espressione “passioni tristi”, che oggi si usa tanto, ha un velo di romanticismo e probabilmente è usata anche a sproposito. Essa intende un cambiamento di prospettiva per cui dal “futuro promessa” si passa al “futuro minaccia”. Gli analisti pensano, in genere a partire da un versante ateo, che questa crisi nasca dalla morte di Dio, intendendo, volta per volta, la morte della religione, del progresso, della scienza, della tecnica e di tutte quelle cose che hanno originato una qualunque speranza e rispetto alle quali noi ci collochiamo “post” (post-cristiano, post-industriale, post-etico…).
Paolo collega la tristezza a Satana, così come la gioia allo Spirito di Dio. Le sofferenze alle quali l’Apostolo allude sono, se si usa questa chiave di lettura, non delle sofferenze qualunque, ma delle vere tribolazioni, che nascono dall’azione contraria al Vangelo, da tutto ciò che si oppone a Dio.
Vi è un modo per reagire a tutto questo ed è racchiuso nella parole che Paolo rivolge ai cristiani di Corinto, parole che possono essere la risposta definitiva alla domanda sull’itinerario vocazionale dell’Apostolo: «Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). L’imitazione dei Corinti non è solo un fatto morale esauribile a livello di comportamento, ma vera e propria partecipazione al destino degli apostoli, che definiscono la loro missione come imitazione di Cristo.
Un cammino di essenzialità
Sembra giusto, alla fine di questa conversazione, accennare all’esperienza spirituale di Paolo come ad un cammino di essenzialità. Paolo esprime chiaramente questo itinerario quando scrive ai Corinti: «Pur se volessi vantarmi, non sarei un pazzo, perché direi la verità; ma me ne astengo, perché nessuno mi stimi oltre quello che mi vede essere, o sente da me. E perché io non avessi a insuperbire per l’eccellenza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi affinché io non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me; ed egli mi ha detto: “La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza”. Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me» (2Cor 12,6-10).
Questo itinerario di essenzialità è evidente soprattutto nella prigionia. Paolo vive, soprattutto la prigionia romana, con la sensazione che i suoi progetti non si realizzeranno come vuole lui. Dalle parole che si leggono nella Lettera a Timoteo, sembra di poter intuire che i cristiani di Roma non danno a Paolo tutta la collaborazione che lui si aspettava. Paolo racconta all’amico tutta la sua sofferenza in quella condizione di abbandono. La frase che meglio esprime questo pellegrinaggio all’essenziale è quella che rivolge a Timoteo nella sua Seconda Lettera: «Tutti mi hanno abbandonato, nessuno mi ha assistito durante il processo, però non sono deluso di chi mi ha chiamato, anzi posso dire adesso: ho conservato la fede» (cf 2Tm 4,7-16). Essa fa da conclusione alla frase che dà il titolo a questa conversazione. È una frase che descrive concretamente la meta di ognuno: una frase che si dice a cammino inoltrato e che ha il sapore della conquista, dell’essenziale della vita come ricerca continua del cammino vocazionale.
La regola della vita spirituale è sempre quella di cercare ciò che conta veramente. Per farlo però bisogna essere allenati a comprendere che molte cose non contano veramente. Come per Paolo, queste scoperte non si fanno sui libri, ma si fanno per strada. Per strada ognuno impara ad alleggerire il peso dello zaino, per strada si impara la libertà di avere come forza solo quella della fede.
Note
[1] S. Lyonnet, «L’antropologia di San Paolo», in G. De Gennaro (a cura di), L’antropologia biblica, Napoli 1981, pp. 753-787
[2] Cf J. Gnilka, La lettera ai Filippesi, Paideia Editrice, Brescia, 1972.
[3] Cf E. Lhose, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, Paideia Editrice, Brescia, 1979.
[4] F. Rossi De Gasperi, Paolo di Tarso evangelo di Gesù, LIPA, Roma 1198, pp. 49-76
[5] Per queste riflessioni sull’ora di Damasco rimando al libro citato di Rossi De Gasperi, che approfondisce per ogni situazione della vita e della fede di Paolo il senso di Damasco. Anche i due autori citati, Jeremias e Leo Baer, insieme a molti altri, sono contenuti nel lavoro citato.
[6] CM. Martini, II coraggio della Passione, Piemme, Casale Monferrato 2008, pp. 15-24.
[7] J.M. O’Connos, Paolo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, pp. 69-75.
[8] G. Schneider, Atti degli Apostoli, Paideia Editrice, Brescia 1986, pp. 303-322.
[9] Martini, R. Cantalamessa, Dalla Croce alla Perfetta Letizia, Ancora, Milano 2001, pp. 83-98.