N.04
Luglio/Agosto 2009
/News

Passi di crescita… per la guida spirituale

Dialogo con Anna Bissi e Roberto Roveran

Riportiamo i passaggi essenziali delle risposte date da Anna Bissi e Roberto Roveran alle domande di approfondimento delle loro relazioni, formulate nei gruppi di studio. Sono ri­sposte che nascono dalla loro esperienza educativa di accompagna­tori vocazionali e formatori, ma anche dal lungo cammino di stu­dio e consulenza psicologica che offrono a molti in discernimento vocazionale. Risposte che orientano, ma soprattutto motivano ad attrezzarsi sapientemente per questo delicato servizio dell’accom­pagnamento spirituale – vocazionale.

 

Quale rapporto può esistere tra la scelta vocazionale e le inevitabili ferite della vita?

Roberto R.

Se dovessimo chiedere a Paolo di rispondere a questo interroga­tivo ci ricorderebbe la sua esperienza e quel «Ti basta la mia grazia» (2Cor 12,9) che ha sostenuto la sua esperienza di debolezza.

Paolo percepisce la presenza in sé della legge del peccato, ma la percepisce non come una condanna, ma come tendenza a fare ciò che non vorrebbe (cf Rm 7,14-24). L’attenzione di Paolo è tutta sulla grazia che strappa da questa tendenza, che libera e sostiene a superarla e permette di servire ciò che Dio vuole.

Quante volte anche il giovane che si accosta a noi, di fronte ad una sua ferita, a qualche errore commesso, vorrebbe quasi buttarsi via, confondendo così quell’aspetto di sé con tutta la propria esi­stenza. Il rischio grave è eliminare con questa realtà ferita anche tutta la parte positiva di sé che non è ferita, o non lo è del tutto. Credo davvero che la fatica, oggi, sia quella di tenere insieme la par­te più vulnerabile di se stessi con quell’altra che è invece piena di risorse. Spesso oscilliamo dall’una all’altra, fatichiamo molto ad in­tegrare queste due parti. Credo che Paolo, proponendoci di “vivere in Cristo”, ci mostri come non ci sia ferita che ci impedisca di vivere la vita nuova del Risorto, proprio perché nel Signore Gesù abbiamo ottenuto la vittoria su ogni ferita. Questo non significa eliminare le nostre realtà ferite, ma un modo nuovo di viverle. Nelle nostre ca­techesi diciamo spesso che il Risorto mantiene sul suo corpo i segni delle ferite della Croce e quando incontra i suoi li mostra come nuo­va realtà non più eliminabile, ma accolta, fatta sua (cf Gv 20,20).

Come le ferite della vita possono diventare positive in un cam­mino di accompagnamento vocazionale? Innanzitutto credendo che non sono per la distruzione, non sono per la morte, ma posso­no essere delle feritoie di grazia, delle opportunità per crescere. Noi accompagnatori possiamo vedere che una vocazione sacerdotale, o religiosa, o matrimoniale può scaturire dalla convinzione che quella particolare ferita della vita, ad esempio, apre alla compassione verso gli altri. Provare sofferenza, sperimentare un dolore personale, ti fanno comprendere meglio gli altri, ti fanno essere più compassio­nevole, ti fanno sentire “viscere di misericordia”, ti fanno vivere la tenerezza, perché puoi capire, puoi entrare, nella sofferenza dell’al­tro. Da qui puoi comprendere che puoi coinvolgerti per lenire le sofferenze di tante altre persone; dalla propria esperienza ferita può nascere una chiamata particolare a mettere la propria vita a dispo­sizione per…, può sorgere l’invito a rispondere ad una vocazione specifica.

 

Fino a che punto il direttore spirituale può prestare at­tenzione nei confronti della dimensione affettiva e psicolo­gica di chi accompagna?

Anna B.

È una domanda che si può prendere in considerazione a partire da due punti di vista. Il primo è il punto di vista di chi si apre con il direttore spirituale. E qui vorrei attingere la risposta dalle parole di Guglielmo di Saint-Thierry, che nella Lettera d’oro dice: «Arrossisci ma rivela tutto». Il secondo punto di vista è quello del direttore spiri­tuale. Io non credo che la questione riguardi il “fino a che punto”, come la domanda ha formulato, ma “in che modo”.

Direi che si può intervenire ampiamente, ma prudentemente, perché è difficile tracciare una linea netta tra dimensione spiritua­le e dimensione affettiva e psicologica. Ciò che è importante è la modalità. Il direttore spirituale deve rendersi conto che non è com­pito suo fare lo psicologo e che, di conseguenza, deve accostarsi in punta di piedi a questo tipo di problemi. Non è quindi questione di quantità, ma di qualità dell’approccio. Talvolta ci possono essere dei problemi di natura patologica, per cui forse è bene non dire nulla, perché sono realtà talmente delicate che bisogna lasciarle alle persone competenti. A mio parere il problema riguarda soprattutto la modalità di intervento e anche di competenza e preparazione in certi settori del direttore spirituale.

 

Come riuscire a non rimanere imbrigliati in una sola chiave interpretativa della vita delle persone che accompagniamo, evitando così il rischio di un accompagnamento viziato?

Roberto R.

Si supera la tentazione di un’unica chiave di lettura nei confronti delle situazioni di vita che incontriamo, se anche per noi stessi ricor­diamo che nella nostra identità ci sono una serie di aree da tenere presenti. Qui mi premerebbe dire una cosa che potrebbe sembrare marginale: spesso siamo portati ad essere sempre più indulgenti nei confronti delle persone che il Signore fa accostare alle nostre realtà vocazionali (seminari, istituti, parrocchie). Più indulgenti nel sen­so che certe difficoltà si potranno affrontare in seguito, magari in un’altra tappa del cammino formativo, dopo che il seminarista è stato ordinato o la novizia ha fatto professione religiosa… Rischia­mo di mancare di quell’oggettività necessaria per vedere tutti gli aspetti della personalità, innanzitutto della nostra e, di conseguen­za, anche di coloro che il Signore ci mette di fronte.

In questo modo però non serviamo bene le persone, non fac­ciamo loro del bene. Da cosa dipende? Lo possiamo intuire: tutti di difendiamo abbastanza da molte realtà e questo, sostanzialmente, è un ottimo meccanismo di difesa. Indagare di più, cercare di più, farci altre domande significa faticare, significa anche rischiare che la rela­zione non si presenti più facile, accessibile, gratificante! Andare un po’ più in profondità significa provocare la persona sul vivo, farla an­che soffrire e per questo diventare persone un po’ antipatiche, poco gratificanti… Il rischio contrario, però, è non fare seriamente il no­stro servizio di accompagnatori. È il rischio di andare in profondità.

 

Quale sinergia tra azione della grazia e crescita umana? Ci sono delle attenzioni particolari da parte di chi accompagna perché questa sinergia avvenga?

Anna B.

Prima di rispondere desidero fare una premessa. Studiando psi­cologia, un poco per volta siamo stati aiutati a renderci conto che non esiste una dicotomia tra lo spirituale e lo psicologico, ma esiste piuttosto una continuità. Io sono convinta, nonostante tutto, che la psicologia sia una scienza contemplativa, perché, guardando ai pro­cessi della psiche, si coglie il segno della presenza di Dio e si scopre che noi davvero siamo fatti a sua immagine e somiglianza. Questo mi sembra particolarmente evidente nella psicologia evolutiva.

Io ho affrontato la psicologia pensando che fosse la scienza che forniva i “raggi X” per scrutare all’interno delle zone oscure della persona. La psicologia ti permette innanzitutto di vedere/entrare nella tua interiorità; poi l’ho davvero scoperta come una scelta con­templativa.

La sinergia tra l’azione della grazia e l’umano, di cui ho già parla­to, è una sinergia tra i dinamismi di crescita che sono presenti den­tro di noi, nella nostra psiche, e l’azione dello Spirito in noi. Cerco di spiegarmi con un piccolo esempio: il processo evolutivo di una persona si attua per distinzione e unificazione. Lo Spirito Santo non è forse colui che è stato definito come colui che integra, che crea il legame, che fa essere la comunione?

I dinamismi presenti in noi sono un riflesso di Dio, non opera­no in una direzione, che è la crescita umana, su cui poi si inserisce la grazia. Crescita umana e grazia operano nella stessa direzione, per cui crescere in umanità vuol dire acquisire una libertà che ti permette di accogliere la grazia che ti orienta verso Dio. L’idea di fondo è che noi siamo fatti ad immagine di Dio e questa immagi­ne è inscritta, secondo me, anche dentro i dinamismi psichici della persona. Francis Collins, uno dei più grandi genetisti del mondo, guardando l’ingrandimento del DNA sentì l’impulso di mettersi in ginocchio, perché in questo mistero coglieva la presenza del divino. Io penso che si possa dire la stessa cosa a proposito dei dinamismi psichici della persona. Non mi sono ancora inginocchiata davanti ad una delle persone che accompagno, però a volte mi pare di percepi­re tangibilmente questo mistero, questa apertura dell’umano fatta per accogliere il divino.

La seconda parte della domanda chiede qual è il nostro compi­to di accompagnatori. Innanzitutto, penso che la prima attenzione debba essere rivolta al nostro sguardo, al modo in cui ci avviciniamo alle persone che accompagniamo. Una falsa psicologia ci ha dato spesso uno sguardo cupo, orientato a cogliere il limite che, una vol­ta individuato, può diventare risorsa.

Il nostro sguardo deve essere anche un sguardo che promuove. La vera guida spirituale è lo Spirito Santo e i cammini di accompa­gnamento sono cammini in cui l’accompagnatore osserva prima di tutto dove lo Spirito vuole condurre la persona che ci chiede aiuto. E lo Spirito vuole condurre la persona ad una capacità di mettersi da parte. L’accompagnatore cerca di capire quanto c’è di egocentri­co per aiutare la persona a fare un salto qualitativo nella sua rispo­sta. Non quindi in un’ottica di umiliazione, di distruzione dell’io, ma per una vita più grande.

La via da percorrere è quella dell’interiorizzazione, quindi dell’ac­compagnare a fare esperienza di tutti quegli stimoli che aiutano ad interiorizzare, fare esperienza di gratificazione non immediata, di non sopportazione della frustrazione. Dice una regola d’oro che amo citare: «La gratificazione crea la relazione, ma la frustrazione crea la struttura». Quindi è necessario un equilibrio tra frustrazione e gratificazione, perché è attraverso questo modo che i valori ven­gono interiorizzati.

Se noi non ci riconosciamo per quello che siamo, non possiamo accogliere l’azione di Cristo in noi. Anche l’accompagnatore deve percorre la via dell’interiorità per fare spazio allo Spirito dentro i suoi dinamismi e così riuscire a mettersi in giusta relazione con chi accompagna e a porre le domande al momento giusto, nel rispetto di ciò che lo Spirito sta compiendo nella persona.

 

Cosa deve fare l’educatore per andare oltre la prima im­magine che si fa dell’accompagnato?

Roberto R.

La primissima immagine che ci facciamo di chi viene da noi -ma in genere la primissima idea che abbiamo della persona quan­do la incontriamo – è importante perché solitamente è quella più oggettiva. Quindi dovremmo tenerla a mente anche proseguendo nell’accompagnamento. Per andare oltre quell’immagine un po’ standardizzata è necessario aprire dei fronti, cioè chiedere, fare del­le domande, cercare di capire… Per esempio, potremmo esserci fatti l’idea di quel giovane come di una persona che non reagisce, un po’ passiva, poco collaborativa.

In realtà ci potremmo accorgere che, affidandogli dei piccoli/ grandi impegni a casa, che lo portano a riflettere su di sé, o ad usci­re da sé, questo giovane si attiva, si impegna, fa dei piccoli passi che poi riporta nel colloquio successivo… Questo ci aiuta a cambiare l’immagine che ci siamo fatti di lui.

 

Quali criteri per rispettare gli ambiti di competenza tra direttore spirituale, psicologo e formatore, che in alcuni casi sono persone diverse?

Anna B.

A mio parere, in questi casi il vero problema è relazionale. Se c’è un accordo tra le persone che hanno competenze diverse e aiutano la stessa persona, soprattutto se c’è il prendersi a cuore la vita del seminarista, del novizio/a, non ci sono difficoltà. Gli ambiti di com­petenza sono abbastanza definiti e là dove c’è un intendersi sulle questioni che competono a diverse persone, se c’è un rapporto di collaborazione, non dovrebbe esistere nessuna difficoltà.

Potrebbe emergere la distinzione tra foro interno, di competen­za del confessore, e foro esterno, proprio di ogni formatore. Il foro interno, come il segreto professionale, è a tutela della persona, biso­gna però vedere come viene utilizzato dal formatore/direttore spiri­tuale/guida. Qualche volta mi è capitato di avere l’impressione, ma più come docente in contatto con dei formatori, che dietro al foro interno ci fosse quasi un trincerarsi del direttore spirituale, magari non prendendo sufficientemente a cuore il problema presentato.

Il foro interno comporta anche una responsabilità: per esempio la responsabilità del direttore spirituale di invitare il ragazzo a parla­re con il formatore di determinate realtà, o di far comprendere che possono esistere dei problemi su cui bisogna riflettere. Così anche lo psicologo è tenuto al segreto professionale, però può confrontare la persona molto seriamente fino al punto di dire che può anche rifiutarsi di continuare un cammino psicoterapeutico se ci sono dei problemi nascosti che non vengono mai alla luce e che il ragazzo/a continua a tenere nascosti.

Lo psicologo ha un intervento anche di tipo tecnico, ha una com­petenza per agire in alcune zone specifiche della persona che sono appunto quelle dell’inconscio, quelle zone della psiche che devono essere liberate. Egli ha acquisito una competenza specifica e ciò che è inerente alla sua professione va lasciato a lui.

Questo non indica una superiorità sua, né un’inferiorità degli altri. Se il formatore volesse fare lo psicologo, e quindi intervenire con le tecniche della psicologia, uscirebbe dal suo ambito di com­petenza e potrebbe operare interventi che risulterebbero pericolosi. Così come se lo psicologo si limitasse ad entrare nell’area spirituale senza mettere in atto la sua competenza.

Il formatore ha una componente anche a livello di trasmissione di contenuti. Nella vita consacrata il formatore è colui che trasmet­te il carisma; in seminario è colui che dice cosa significa diventare sacerdote.

Personalmente credo che se c’è una collaborazione tra le diverse figure non dovrebbero esistere particolari difficoltà. Le difficoltà esi­stono dove ci sono rivalità, gelosie, un senso di “proprietà privata” nei confronti della persona da formare.

 

Cosa fare quando le persone che accompagniamo si lega­no a noi in modo sbagliato? Troncare la relazione o lasciare che avvenga, magari approfittando della situazione?

Roberto R.

Per noi psicologi il fatto che le persone, in un certo senso, si leghino a noi è positivo: è un modo per capire se c’è alleanza tera­peutica, se c’è quella idealizzazione necessaria, o se veniamo visti come i salvatori. Quindi questo attaccamento è positivo, ha una sua funzione, perché è un segno che veniamo accettati come ac­compagnatori. Però ci sono anche dei rischi. Nella relazione di ac­compagnamento il legame/attaccamento con chi accompagniamo va sfruttato in modo serio – certamente non per tirare l’acqua al nostro mulino – perché il giovane ammiri te e tu diventi il non plus ultra di modello di religioso/a, prete, consacrato/a… confondendo così il carisma con la tua figura. Sfruttare questo legame significa far comprendere cosa c’è a fondamento della nostra persona, di chi noi siamo testimoni.

È necessario porre al giovane le domande giuste: «Perché ti senti così legato a me? Forse non è la prima volta che questo succede nella tua vita… ci sono state altre figure significative in parrocchia, a scuola…?». Si fa notare che questo modo di legarsi alle persone può essere una modalità di comportamento. Allora questo legame lo si sfrutta facendolo diventare occasione di comprensione delle proprie dinamiche. La risposta più opportuna, a mio parere, è quin­di non troncare, ma piuttosto valorizzare perché la persona possa crescere.

 

Anna B.

Il mondo femminile, sotto questo aspetto, è un po’ diverso da quello maschile, perché credo che l’attaccamento sia una dinamica più femminile che maschile. Mi è capitato di trovare, nella vita re­ligiosa, sorelle “chewing gum” o “ventosa”, che non si staccano più. Sono quelle che se non le guardi piangono, o quando entri in stanza trovi sempre il bigliettino, o la letterina lunga sette pagine, dove scrivono quanto soffrono perché tu ti sei seduta a ricreazione vicino a quell’altra/o e non vicino a lei… Gli uomini in questo sono molto più autonomi.

Nel mondo della vita religiosa l’attaccamento è un ostacolo alla vita comune. Come formatrice partirei anch’io dalla prospettiva di sfruttare l’opportunità del legame, ma sono anche realista… e mi pare, purtroppo, che questo non sia sempre realizzabile. Allora cre­do sia più necessario troncare: non con la persona interessata, ma con le modalità del suo comportamento. Per esempio: al decimo bigliettino in una settimana io lo strapperei e glielo riconsegnerei senza averlo letto. Queste sono dinamiche che creano un’ansia in­credibile; cioè, una persona apre la porta e si domanda quale segno troverà, quale colpevolizzazione le verrà fatta… si creano così di­namiche di ansia, di colpevolizzazione, Ci si sente sempre oggetto dell’attenzione dell’altro/a e, soprattutto, queste sono dinamiche che non lasciano spazio per Dio. È la persona a cui ci si attacca che diventa l’oggetto d’amore, e quindi idolo. Io credo che su questo si debba essere abbastanza fermi e proporre un cammino chiaro. In una comunità si entra per il Signore, non per le persone che ne fanno parte.

L’attaccamento è comunque una modalità relazionale primiti­va, segno spesso di un arresto nello sviluppo. L’attaccamento av­viene nella primissima infanzia. Paradossalmente una persona può evolvere dal punto di vista intellettuale, ma rimanere in quella fase infantile/primitiva dal punto di vista affettivo. Queste modalità re­lazionali dovrebbero essere individuate prima che la persona sia ammessa nella comunità formativa, o comprese e gestite quanto prima con competenza.

 

Quando non c’è alleanza educativa chiara, quando cioè qualcuno viene da te ma va anche da altri, o non si fida fino in fondo, cosa fare? Come accompagnatori ci si sente talvol­ta un po’ spiazzati, usati…

Roberto R.

Innanzitutto mi verrebbe da dire: cerco la modalità giusta per conquistarlo/a? È necessario creare una fiducia tale per cui la perso­na capisca che deve essere accompagnato da una sola persona. Però, se non c’è questa alleanza educativa chiara, è necessario crearla sul­la base di ciò che si sa, che si vede. C’è chi dice: «Sono venuto anche da te, dopo essere andato da x, y, z…». Ti viene subito da chiedergli che cosa abbia ottenuto facendo questo itinerario!

Ci sono persone che hanno bisogno di mille consiglieri e alla fine restano con i loro punti interrogativi aperti, perché più chiedi e più chiederesti; più opinioni hai, più ne vorresti avere… Evidentemente alla base c’è una difficoltà profonda. È necessario aiutare la persona a capire che questo elemosinare consigli non la porta a nessun ri­sultato, perché rimane sempre alle dipendenze di qualcuno. È una sfida aperta anche per noi: tu puoi dare anche la “rispostina” e farlo contento, ma alla fine, probabilmente, non è la vera risposta che sta cercando. Io credo che il ragazzo/a colga subito quando gli proponi qualcosa di più serio. In qualche modo, però, è necessario accat­tivarsi l’attenzione, cioè dargli una prima risposta, ma fargli com­prendere che c’è qualcosa di più da approfondire. E far capire che si è a disposizione per continuare. Questo è un mostrarsi disponibili ad andare più in profondità rispetto alla semplice risposta immediata.

 

Come aiutare le persone che accompagniamo a prendere contatto con il mondo emotivo, con quelle emozioni conge­late o che non si vogliono sentire, visto che facciamo tanta fatica noi a riconoscere le nostre?

Anna B.

Per prima cosa bisognerebbe cercare di non fare noi così fatica a riconoscere le nostre emozioni! Questo mi sembra un problema da affrontare seriamente, perché una guida spirituale è chiamata a conoscere le proprie emozioni.

In secondo luogo: come aiutare le persone a prendere contatto con il mondo emotivo? Le emozioni emergono dal modo di raccon­tare, sono presenti nel contenuto di ciò che viene raccontato. È ne­cessario cogliere i segni di una determinata emozione che possono essere ignoti alla persona che ci sta di fronte. Nel colloquio non è tanto importante “quanto” si racconta, ma “come” lo si racconta.

La guida spirituale dovrebbe essere abbastanza esperta da coglie­re, nel modo e nello stile di ciò che viene detto, i segni di un’emo­zione. Probabilmente sarebbe meglio avere o acquisire una minima competenza psicologica, accessibile a tutti. Per esempio potrebbe essere utile conoscere i meccanismi di difesa. Senza essere psicologi ci si può rendere conto che, se qualcuno parla di un avvenimento doloroso sorridendo, applica una difesa di “formazione reattiva”, sta cioè cercando di nascondere o di annullare la sofferenza che l’evento comporta.

 

Qualche criterio per accompagnare persone con difficoltà di identità sessuale.

Roberto R.

Rispondo nella maniera più semplice e rapida. Innanzitutto è importante chiedersi quale sia la difficoltà. Con quale difficoltà si presenta la persona? Qual è il grado di difficoltà nell’identità ses­suale? È chiaramente una vera omosessualità, con incontri sessuali già avvenuti con un partner, o non lo è? È più una pseudo omoses­sualità? Quindi è necessario prima di tutto capire come la persona presenta questo suo problema, capire se c’è uno spazio di cammino di conversione, di ravvedimento.

Comprendere se questa manifestazione omosessuale è “ego sin­tonica” o è “ego distonica”, cioè se la persona sta bene con questa difficoltà e non vuole cambiare, oppure se percepisce un disagio e vuole, desidera, modificare il suo orientamento. Ecco, in base a questo primo chiarimento si può poi vedere nel tempo. Credo che il criterio fondamentale non sia dire subito “sì” o “no”, ma chiedersi su quali elementi la persona sia disponibile a fare un cammino di crescita personale per cambiare.

 

Anna B.

Aggiungerei a quanto già evidenziato: il problema di identità sessuale che cosa indica di fatto? Accanto a questo problema ce ne potrebbero essere altri che sono i problemi veramente preoccupan­ti. L’identità sessuale cosa indica? Indica un arresto dello sviluppo della persona, oppure indica un problema sopravvenuto più tardi? Se è un problema sopravvenuto più tardi, per esempio nell’adole­scenza, credo che sia molto più facilmente gestibile; se è un arresto nello sviluppo si manifesteranno altri tratti facilmente riconoscibili e che possono creare difficoltà ad altri livelli: difficoltà di tipo re­lazionale, emotivo, a empatizzare, a creare alleanza con gli altri… Allora il vero problema, in questo caso, non è tanto la difficoltà nell’identità sessuale, ma il fatto che ci sia stato un blocco nello sviluppo e quindi delle difficoltà nel percepire se stessi e nel vivere le relazioni: queste difficoltà rendono più difficile anche l’assimila­zione dei valori evangelici.

Se il problema di identità sessuale si è manifestato più tardi è più facilmente risolvibile.

 

Come introdurre un aiuto di supervisione per la guida?

Roberto R.

La prima cosa che mi viene da dire riguardo la necessità di una supervisione è che quattro occhi vedono meglio di due… Ma so­prattutto per non presumere di noi stessi e delle nostre capacità.

Confrontarsi con qualcuno, per esempio per conoscere più a fondo cosa sperimentiamo noi interiormente, mentre ascoltiamo qual­cuno: perché siamo irritati a volte mentre l’altro parla? Che cos’è che ci ha fatto irritare? Non sono interrogativi superflui! Cresciamo mentre facciamo crescere. Ecco l’importanza di un supervisore che ci aiuti. Credo però che il termine più corretto non sia supervisore, ma sia fratello/sorella maggiore che ci aiuta a svolgere meglio il mi­nistero a cui siamo stati chiamati.

 

Cosa fare quando, come guida, ti accorgi di non essere in grado di far decollare una persona o che non sei la perso­na giusta per aiutare? Come gestire il passaggio ad un’altra guida?

Anna B.

L’umiltà rimane il grande valore della guida spirituale. Ricor­do come ero rimasta colpita e favorevolmente impressionata dalla umiltà della mia psicoterapeuta. Forse mi ha aiutato più con questa sua virtù che con le sue interpretazioni. Penso che si possa gestire il passaggio ad un’altra guida spiegando con chiarezza e semplicità i motivi, se possono essere detti, per cui si pensa che un altro possa essere più utile.

 

Come aiutare una persona fragile affettivamente a non cadere in un possibile spiritualismo disincarnato?

Anna B.

Si aiuta realmente la persona quando, in un certo senso, la si obbliga a parlare della vita concreta. Non è bene permettere grandi elucubrazioni, ma è bene esigere di parlare della sua realtà in modo concreto. Si può parlare per un anno intero del “perché il rettore ha dato da mangiare al gatto usando il mio piatto”. Un tema apparen­temente molto banale, ma che può avere grandi significati simboli­ci. Ed è un argomento molto concreto. Nel colloquio personale non si devono accettare elucubrazioni spirituali, ma bisogna riportare sempre tutto alla realtà. È a partire dalla storia concreta della vita che si impedisce di cadere in quello spiritualismo disincarnato che non giova a nessuno.

 

Quali domande sono realmente ‘“domande centrali” per la persona che accompagniamo?

Anna B.

Ancora una volta siamo chiamati a partire dalla storia personale di chi accompagniamo. L’accompagnatore può cogliere la persona in profondità soprattutto lasciandosi guidare dallo Spirito e aiutan­do a riconoscere anche quali sono gli ambiti più difensivi, le resi­stenze più chiare che la persona può porre. Un esempio concreto: la storia familiare. È un ambito che ha un’influenza molto forte sulla scelta vocazionale delle persone, su cui però in genere la per­sona accompagnata ha delle letture molto parziali e molto distorte. Questo è un ambito da prendere in considerazione perché è molto importante per la libertà di scelta dell’individuo, per la liberazione dai condizionamenti.

La figura della madre, in genere, è quella che più cambia nella descrizione dall’inizio alla conclusione di un cammino di accompa­gnamento. All’inizio la madre è molto idealizzata, soprattutto nel mondo maschile e nel procedere del cammino si inizia a vederla anche con tutte le sue debolezze e fragilità.

Dunque è importante che l’accompagnatore, ponendo domande molto concrete, abbia in mente il tipo di percorso che la persona può fare, almeno i primi passi, e dall’altra abbia in mentre le gran­di resistenze che può riscontrare nella sua vita. Resistenze che na­scono appunto dalla lettura della sua famiglia, dall’approccio con i valori, dall’identità vocazionale che ha. Non è inutile verificare se una giovane inizia il cammino di accompagnamento già decisa che si sposerà, riconoscendo che questo può essere il progetto di Dio sulla sua vita, oppure perché ha paura di fare una scelta diversa… Quindi l’accompagnatore deve riflettere bene prima di iniziare un accompagnamento in merito alle aree più resistenti della vita della persona. E proprio riscontrando le resistenze può introdurre le do­mande che rompono queste barriere.

 

Quale “kit base” dell’accompagnatore vocazionale?

Roberto R.

Più che di “kit base” io parlerei di “setting base” per l’accompagna­tore vocazionale! Pongo per questo alcune domande che possono sembrare banali, ma che invece sono molto necessarie per riflettere sul nostro modo di fare accompagnamento.

Che luogo, ambiente scegliamo per l’incontro di accompagna­mento?

In questo luogo c’è un telefono che squilla e può disturbare il colloquio? Il cellulare lo teniamo spento o acceso? Rispondiamo sempre alle chiamate?

Che tipo di impostazione diamo all’incontro? Stiamo seduti l’uno di fronte all’altro, divisi da una scrivania piena di libri? Dob­biamo spostare quanto c’è sopra la scrivania per vedere chi ci sta di fronte?

Abbiamo uno spazio adeguato, degno, rispettoso? Questo spazio non è solo uno spazio fisico ma è anche spazio nella nostra mente.

Come ci siamo liberati da tutti gli altri impegni, le altre preoc­cupazioni per accogliere bene questo giovane che deve arrivare ad quell’ora precisa? Arrivare puntuali all’appuntamento non è una cosa relativa, dice da subito accoglienza.

Ho a disposizione dei fazzoletti? Anche questi servono a dare la possibilità di piangere e acconsentire al pianto

Il momento del colloquio lo iniziamo con una preghiera? Lo fi­niamo con una preghiera?

Non è bene prendere nota davanti al giovane di quanto dice; è importante invece farlo dopo, soffermandoci a descrivere quanto è successo nell’incontro. Così sarà possibile riprenderlo in un mo­mento successivo.

Possono sembrare attenzioni banali, ma dimostrano la nostra at­tenzione globale a questo servizio.

 

Quali segni vocazionali nei giovani di oggi?

Anna B.

I segni vocazionali sono quelli dei giovani di sempre. Faccio dif­ficoltà a pensare che i segni vocazionali siano cambiati. Intravedo indispensabili due segni vocazionali per aprirsi alla scelta di vita: la ricerca di Dio e la capacità di fidarsi di qualcuno. Per San Benedet­to il segno vocazionale fondamentale, e che è necessario ci sia nel novizio, è la ricerca di Dio. Per vivere un rapporto con Dio bisogna potersi fidare di Lui. Una fiducia che può essere anche tormentata, può far sudare sangue… ma una fiducia che c’è, si sperimenta, si vive. La fiducia è fondamentale per il rapporto con Dio e per la di­mensiona paterna che ogni vocazione è chiamata a vivere.

E poi la capacità di fidarsi di qualcuno è l’altra componente es­senziale: sapersi fidare di chi accompagna, del proprio formatore, della guida spirituale… Dare fiducia è un requisito fondamentale per sapersi affidare. Io ho visto persone affette da patologie abba­stanza serie vivere e crescere nella vita comune perché erano capaci di fidarsi, certo con fatica, con tormento, però si affidavano alla gui­da, al superiore. Il criterio che ci deve essere non è tanto l’assenza di patologia, quanto che ci siano questi due elementi: una ricerca seria di Dio e una capacità di fiducia.