“La Chiesa e il grembiule”: aspetti ecclesiologici della diakonia
Nel Vangelo di Giovanni leggiamo che Gesù, la sera del Giovedì Santo, «si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto» (Gv 13,4-5). È un’immagine in se stessa dirompente: il Signore e il Maestro chino a servire i discepoli, in un’inversione
dei ruoli che lo assimila addirittura all’ultimo degli schiavi. L’atto di lavare i piedi, infatti, era ritenuto tanto umiliante da non poter essere richiesto ad uno schiavo ebreo, ma solo agli stranieri.
Lungo i secoli questo racconto non ha perso nulla della sua potenza: chiunque si soffermi un momento a riflettere sul gesto di Gesù ne riconosce la profondità, le molte implicazioni per la vita personale ed ecclesiale. È una prospettiva così provocatoria da correre il rischio di venire sottilmente “addomesticata”: anche il rito che oggi la ri-presenta può essere inteso, riduttivamente, come un insieme di gesti capaci di generare un’elevazione spirituale, ma che faticano a determinare l’autocomprensione ecclesiale. Lo diceva molto bene don Tonino Bello: «La Chiesa che cinge il grembiule,
con gli abiti tirati un po’ su, sembra un’immagine troppo ancillare, indegna della sua grandezza»1. Eppure, puntualizzava, la veste liturgica indossata da Gesù nel corso della prima Messa era stata proprio un asciugatoio, un grembiule, segno della vocazione nativa al servizio per la Chiesa che in lui trovava origine.
1. La prassi della diakonia
«Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15). In obbedienza all’insegnamento del suo Signore, la Chiesa primitiva si impegna immediatamente nella diakonia verso i fratelli, specialmente verso i più poveri, facendone uno dei propri tratti costitutivi: nel libro degli Atti (6,1-7) Luca racconta come il servizio alle mense si sviluppi parallelamente al servizio della Parola.
Anche gli scritti dei Padri testimoniano come la condivisione dei beni e il soccorso degli indigenti siano temi molto sentiti: ricordiamo solo Giustino, che parla della tradizione per le mense delle vedove e degli orfani, ben viva nelle comunità del suo tempo e fortemente ancorata alla celebrazione eucaristica2.
È una prassi che, pur nelle trasformazioni legate al mutare delle vicende socio-politiche, permane nel tempo, che ha una dimensione spicciola e locale, ma passa anche attraverso il ruolo di ammortizzatore sociale rivestito dalla Chiesa nei momenti più bui della storia e la creazione di strutture di sostegno e assistenza che permeano capillarmente la società cristiana (ospedali, ospizi per orfani e anziani, scuole ecc.) e nelle quali sono spesso coinvolti insieme laici e ministri ordinati.
È con l’epoca moderna e la secolarizzazione che interviene il cambiamento più sensibile: la Chiesa viene privata di molti dei propri beni, mentre cresce la coscienza della necessità di intervenire sulle cause sociali e politiche della povertà. Si intensifica quindi l’impegno ecclesiale su questo piano, mentre il servizio diretto a favore dei poveri è vissuto con maggior forza da alcune famiglie religiose, da gruppi e organizzazioni che si raccolgono intorno a questa sensibilità, e in terra di missione. Nel 1950, su impulso di Pio XII, nasce a Roma Caritas internationalis, che riuniva le 120 organizzazioni nazionali già attive all’epoca e che, nella sua struttura stabile e visibile, rappresenta significativamente la dimensione costitutiva, per la Chiesa, del servizio agli ultimi.
Anche in merito alla diakonia il Vaticano II è un momento importante: in Lumen gentium si afferma che «la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo» (LG 8); in generale, i testi conciliari affrontano il tema nelle sue diverse implicazioni, assistenziali e politiche, ma soprattutto ne recuperano lo spessore ecclesiologico3.
La riflessione conciliare e post-conciliare sulla prassi della diakonia ai più poveri è ricchissima e ha trovato nel magistero di Papa Francesco espressione particolarmente frequente.
2. La diakonia e il ministero ordinato
Esiste però, fin dalle origini, una struttura di carattere istituzionale che più radicalmente rimanda alla dimensione della diakonia insita nella Chiesa.
Si tratta del ministero del diaconato. La sua esistenza è attestata già nel Nuovo Testamento dove ne vediamo il progressivo configurarsi come categoria distinta dai presbiteri e dagli episcopi: Paolo scrive «a tutti i santi in Cristo Gesù che sono a Filippi, agli episcopi e ai diaconi» (Fil 1,1); nella Prima Lettera a Timoteo vengono enunciate le caratteristiche richieste ai diaconi: «Siano dignitosi, non doppi nel parlare, non dediti al molto vino, né avidi di turpe guadagno; essi inoltre devono conservare il mistero della fede in una coscienza pura» (1Tm 3,8-9); la lettera prosegue sottolineando che devono essere fedeli al matrimonio, educare bene i loro figli, dirigere bene la loro casa (cf 1Tm 10-13).
Le testimonianze della Tradizione parlano sempre del diaconato come grado inferiore della gerarchia ministeriale, prospettiva ripresa dal Concilio, che ha ristabilito il diaconato permanente. Col passare del tempo, infatti, il diaconato si era ridotto ad un semplice grado sulla via del sacerdozio, perdendo la propria specificità. La scelta dei padri conciliari di riprenderne la figura rispondeva ad una sensibilità crescente, in ambito teologico e pastorale, verso l’importanza di questa declinazione del ministero ordinato.
In Lumen gentium leggiamo: «In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani “non per il sacerdozio, ma per il servizio”. Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella “diaconia” della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e con il suo presbiterio […]. Essendo dedicati agli uffici di carità e di assistenza, i diaconi si ricordino del monito di S. Policarpo: “Essere misericordiosi, attivi, camminare secondo la verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti”» (LG 29).
Con questa scelta il Concilio non ha semplicemente restaurato il diaconato antico, ma ne ha disegnato una forma nuova, che si inserisce nell’azione di ripensamento delle modalità di servizio ecclesiale e della soggettualità ministeriale, «come spesso è avvenuto nella storia, tra assunzione della memoria che dà identità e sviluppo di figure inedite maggiormente adeguate alle esigenze della evangelizzazione e missione pastorale»4.
Giovanni Paolo II affermava che, attraverso le motivazioni alla base del ristabilimento del diaconato permanente, pur legate alle circostanze storiche e pastorali, «operava misteriosamente lo Spirito Santo»5. Per la Sua grazia, quindi, esiste oggi nella Chiesa una figura ministeriale strutturata, visibile, permanente, chiamata a testimoniare nei vari ambienti (famiglia, lavoro, scuola) una scelta di vita alla sequela del Signore, il quale si è fatto servo di tutti: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27).
Tale figura, pur nella sua specificità, conserva un profondo legame con gli altri gradi ministeriali: «La dottrina cattolica insegna che i gradi di partecipazione sacerdotale (episcopato e presbiterato) e il grado di servizio (diaconato) sono tutti e tre conferiti mediante un atto sacramentale chiamato “ordinazione”, cioè dal sacramento dell’Ordine» (CCC 1554).
Tutto questo consente di assumere una prospettiva complementare alla classica lettura del diaconato in chiave gerarchica, ossia come grado inferiore: il diaconato come ministero del servizio può essere compreso anche come grado fondamentale. In tal modo il sacramento dell’Ordine, così come è venuto sviluppandosi nella Chiesa occidentale, si struttura sul servizio: «Il diacono non riceve le potestà specifiche del presbitero o del vescovo, ma, attraverso il suo ministero […] manifesta in modo sacramentale la fondamentale struttura diaconale, orientata al popolo di Dio, del ministero ecclesiale in generale. Il ministero ecclesiale altro non è se non servizio agli uomini: proprio per questo è espresso mediante un grado sacramentale distinto, che perciò non è da considerarsi tanto come un grado “inferiore” della “gerarchia d’ordine”, ma piuttosto come il “segno” sacramentale previo sotto cui sono posti tutti i gradi dell’ordine»6.
La diakonia appartiene allora alla struttura gerarchica della Chiesa e la caratterizza nativamente, secondo il comando del suo Signore: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuol diventare grande tra di voi sarà vostro servitore e chi vuol essere primo tra di voi sarà vostro schiavo. Come il figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,25-28).
3. Implicazioni ecclesiologiche
La diakonia è quindi una prassi consolidata nella vita della Chiesa, tanto originaria da aver dato forma ad uno specifico ministero.
Ciò che è interessante sottolineare è che, se la prassi di sostegno ed aiuto ai poveri potrebbe essere fraintesa circoscrivendola a livello prevalentemente morale, l’esistenza di un ministero ordinato, di carattere quindi sacramentale, strutturato su tale prassi mostra come la dimensione della diakonia coinvolga la Chiesa nella sua natura profonda.
La diakonia è costitutiva per l’essenza della Chiesa e non può essere riservata ad uno specifico “settore” ecclesiale, ma ne connota ogni dimensione: si tratta di un’affermazione impegnativa, che può essere sostenuta sia su base filosofica che teologica.
a. La diakonia come prassi
Dal confronto con la riflessione filosofica emerge il valore costitutivo dell’agire quale espressione dell’essere7. Se è vero che «non si pensa che dopo aver agito, agendo e per agire»8, è altrettanto vero che l’azione prodotta è rivelativa, mostra l’agente a se stesso e lo svela al mondo: le azioni strutturano un sistema di significato a partire dal quale si può comprendere la realtà del soggetto agente, sia esso individuale o collettivo9.
Nel contempo ogni agire volontario modifica ineludibilmente la realtà, sia essa esterna che interna all’agente: dopo ogni atto compiuto, né il mondo né il soggetto che agisce saranno più quelli di prima.
Ogni azione volontaria è quindi tanto rivelativa che costitutiva dell’identità personale; ma questo implica che la prassi della diakonia sia tanto rivelativa che costitutiva dell’identità ecclesiale: è un agire che mostra e struttura l’essere della Chiesa.
b. La diakonia come segno sacramentale
Nell’ampiezza dei riferimenti a questo tema, viene qui privilegiato un brevissimo approccio alla prospettiva emersa in Concilio. Il primo capitolo di Lumen gentium delinea il mistero della Chiesa: essa «è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). La Chiesa trova cioè in Cristo il termine con cui pensare se stessa e la propria missione, in un parallelismo Cristo-Chiesa che si fa via via più stretto: «Come Cristo ha realizzato la sua opera di redenzione nella povertà e nella persecuzione, così la Chiesa è chiamata a percorrere la stessa via, per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG 8).
Persecuzioni e povertà, le prime subite, la seconda cercata consapevolmente, sono i primi due tratti identitari che il Concilio delinea in forza dell’esempio di Cristo e che vengono ulteriormente rafforzati sulla linea del servizio: «Cristo Gesù, “pur essendo di natura divina, svuotò se stesso, prendendo la forma di servo” (Fil 2,6-7) e “da ricco che era, si fece povero” (1Cor 8,9), la Chiesa è chiamata a fare altrettanto». Non solo, quindi, «la Chiesa nei poveri e nei sofferenti riconosce l’immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevare la loro miseria e in loro intende servire Cristo» (LG 8), ma attraverso tale agire, più radicalmente, mostra ed invera la propria natura.
Misurando se stessa e la propria missione su Cristo, e ancor più accogliendo da Cristo, che le si dona nella dinamica sacramentale, la luce e la forza per farlo, la Chiesa percepisce nel contempo il proprio limite, le difficoltà legate alla sua componente umana, e invoca il suo Signore impegnandosi in una continua azione di riforma, interiore ed esteriore, che coinvolga singoli ed istituzioni e conduca i cristiani alla santità a cui sono chiamati (cf LG 42).
4. La diakonia come stile ecclesiale
La continua, ed oggi quanto mai necessaria, riforma missionaria della Chiesa è desiderio ardente di Papa Francesco, che ne delinea i tratti in particolare nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Il concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo: “Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazione (…). La Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua riforma, di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno” (UR 6)» (EG 26).
Evangelii gaudium è un testo ad impronta eminentemente pastorale. Non si tratta di una caratteristica che ne sminuisca il valore, come alcune visioni ingenue potrebbero suggerire. La pastoralità è quella dimensione immergendosi nella quale la Chiesa riconosce che non ci può essere annuncio del Vangelo di Dio senza farsi carico dei destinatari. Nella pastoralità la Chiesa vive la duplice apertura, a Dio e all’uomo, che la connota nativamente (LG 1).
In Evangelii gaudium, di conseguenza, il tema della riforma missionaria non viene affrontato proponendo grandi trasformazioni di carattere istituzionale (che pure sono presenti nell’idea di un ripensamento del primato e del ruolo delle conferenze episcopali – EG 32), ma attraverso la sfida di una conversione pastorale, da vivere in fedeltà alla propria vocazione originaria, a livello sia strutturale che personale, con «generosità e coraggio», superando il comodo criterio del si è sempre fatto così.
A tale scopo, Papa Francesco delinea «un determinato stile evangelizzatore», che egli invita «ad assumere in ogni attività che si realizzi» (EG 18). Quella che emerge è quindi una proposta di stile, termine che nell’esortazione ritorna per ben ventidue volte e che può essere inteso come «emblema di una maniera di abitare il mondo»10.
Ebbene, nonostante il termine diakonia non compaia mai nel testo, è proprio su di essa che viene commisurato lo stile evangelizzatore della Chiesa.
Il punto di riferimento fondamentale è Cristo, Signore e Maestro, a cui la Chiesa è chiamata a configurarsi: «Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” (Gv 13,17). La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo» (EG 24).
La diakonia come stile si colloca su di un livello che integra tanto la prassi di servizio ai poveri quanto il servizio che l’autorità offre nella Chiesa.
Parlando dei poveri, tema a cui l’esortazione dedica ampio spazio (EG 186-213), Francesco sottolinea come per la Chiesa l’opzione preferenziale per i poveri sia categoria teologica, prima che sociologica o politica: «Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro “considerandolo come un’unica cosa con se stesso”. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene. Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede. L’amore autentico è sempre contemplativo, ci permette di servire l’altro non per necessità o vanità, ma perché è bello, al di là delle apparenze. […] Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno?» (EG 199).
A proposito del ministero ordinato, l’affermazione sulla sua natura di servizio è recisa: «I laici sono semplicemente l’immensa maggioranza del popolo di Dio. Al loro servizio c’è una minoranza: i ministri ordinati» (EG 102).
Tuttavia la diakonia come stile non si esaurisce in queste due sue espressioni, la prassi di sostegno ai poveri e la comprensione dell’autorità come servizio. Si tratta piuttosto di una dimensione che diventa pervasiva e caratterizza ogni scelta, riguarda ciascun cristiano.
A pochi mesi dall’apertura del Concilio, Congar pubblicava un piccolo libro dal titolo all’epoca assai provocatorio: Per una Chiesa serva e povera11.
Egli ricordava come Dio si fosse manifestato a noi nella forma di doulos (servo) e come, per l’effetto a cascata della sua missione, gli apostoli e tutta la Chiesa fossero chiamati a seguirlo e ad imitarlo: «Ogni ministro del Vangelo, ogni cristiano, è un “doulos”».
Evangelii gaudium rimodula questa verità, affermando che ciascun cristiano è un’anfora: «È evidente che in alcuni luoghi si è prodotta una “desertificazione spirituale, frutto del progetto di società che vogliono costruirsi senza Dio o che distruggono le loro radici cristiane. “[…] Nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la Terra promessa e così tengano viva la speranza”. In ogni caso, in quelle circostanze siamo chiamati a essere persone-anfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio sulla croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di acqua viva» (EG 86).
Ogni cristiano è chiamato ad essere anfora che porta il Signore, acqua viva, ai fratelli.
La diakonia è quindi lo stile della missione e si sviluppa in due direzioni: verso Dio e verso il prossimo.
In primo luogo, ciascuno risponde alla propria vocazione battesimale facendosi servo del Signore, accogliendolo nella propria vita come Maria, la prima dei discepoli: «Eccomi, sono la serva del Signore» (Lc 1,38).
È solo in questa radicale apertura, che è il volto più originario della fede, che diviene possibile fare della diakonia il proprio stile di vita, lo stile di una vita che evangelizza sempre, «se fosse necessario, anche con le parole»12.
NOTE
1 T. Bello, Cirenei della gioia. Esercizi spirituali predicati a Lourdes sul tema: «Sacerdoti per il mondo e per la Chiesa», San Paolo, Milano 2004.
2 Cf Giustino, Apologia 67, 1, 6.
3 Cf AA 8; GS 27; 42; 86.
4 S. Noceti (a cura di), Diacone. Quale ministero per quale Chiesa?, Queriniana, Brescia 2017, p. 18.
5 Cf Giovanni Paolo II, Cat. Il diaconato nella comunione ministeriale e gerarchica della Chiesa (Lc 22,24-27), 6 ottobre 1993,in
https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1993/documents/hf_jp-ii_aud_19931006.html
(11 agosto 2017).
6 M. Kehl, La Chiesa. Trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, p. 419.
7 Si tratta di una delle sottolineature basilari del pensiero contemporaneo, a cui qui viene fatto un semplice cenno: cf p. es. le riflessioni di Blondel, Arendt, Habermas, Ricoeur.
8 M. Blondel, L’azione, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993, p. 204.
9 Cf P. Ricoeur, La semantica dell’azione, Jaca Book, Milano 1998.
10 C. Theobald, «Il cristianesimo come stile. Fare teologia nella postmodernità», in «Rassegna di teologia» 32 (2007), pp. 280-303, qui pp. 280-281.
11 Cf Y.M.-J. Congar, Pour une Église servant et pauvre, Éd. du Cerf, Parigi 1963.
12 Cf U. Sartorio, Anche le parole se necessario. Dalle prime fonti a Papa Francesco, in «L’Osservatore
Romano» (6 ottobre 2013), p. 4.