La vita è fatta di attimi
«I passi del mio vagare tu li hai contati» (Sal 55,9)
Forse, per Mosè, la difficoltà maggiore non consistette tanto nel trascinare il popolo fuori dall’Egitto, quanto nel restare in viaggio per tutta la vita, resistendo alla tentazione di piantare tutto lì, di sedersi per sempre, o di tornarsene alla terra di Madian[1]. La vera sfida non fu la partenza ma la ferialità imprevedibile, con le sue incertezze, le fatiche, le situazioni che non si erano messe in conto, gli smarrimenti e le attese. Non importa se poi lui, alla fine, nel nuovo mondo non ci sarebbe entrato: muore alle pendici del monte Nebo interrompendo la sua vita come se fosse una sinfonia incompiuta. Così come non conta se un’intera generazione di israeliti non poté possedere la terra agognata, ma solo trasmetterla in eredità ai propri figli. La loro vocazione si consumò nel deserto, tra prove da superare e speranze da tenere accese, mantenendo vivo un sogno che all’inizio appariva sì eroico e avvincente, ma che col tempo rischiò di avvilirsi in una quotidianità mortificante. Ha avuto senso partire? Ha avuto senso consegnare la propria vita a un sogno, a un’utopia, a un’ideale di gioventù, alla voce di Dio che parla?
Questa tensione tra slancio iniziale e resistenza nel tempo attraversa molte vocazioni bibliche.
Il profeta Elia, infiammato dallo zelo per Jahvè, si reputava invincibile, sicuramente capace di abbattere qualsiasi ostacolo gli si profilasse davanti: un giorno si ritrovò accasciato e tremante sotto un ginepro, figlio anche lui come tutti della paura, come sbeffeggiato da un demone interiore. La ferialità ci denuda: ci rende a volte così ridicoli nei nostri progetti di trasformazione del mondo. Pensavamo di valere tanto, e invece non siamo niente. Il profeta Elia si domandò in quell’istante quale fosse il senso del suo cammino e concluse con amarezza di non essere «migliore dei suoi padri» (1Re 19,4).
Discepoli in cammino
La vita non è un evento istantaneo, ma un percorso che si snoda nel tempo, rivelando progressivamente la verità di ciò che siamo. Anche per i discepoli dei Vangeli, il cammino ha seguito una parabola del tutto simile: un’illuminazione improvvisa segna l’inizio, ma la vera sfida arriva dopo, quando l’entusiasmo iniziale si affievolisce e la realtà della vita presenta il suo conto. All’inizio, il richiamo di Dio appare come un dono di grazia, un’esperienza intensa e luminosa che scuote l’animo e spinge a lasciare tutto per seguirlo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni abbandonano le reti senza esitazione; Matteo lascia il banco delle imposte senza voltarsi indietro. Tuttavia, la storia ci insegna che questa partenza non è il traguardo, ma solo il primo passo di un viaggio che richiederà forza, costanza e fiducia.
Quando la grazia degli inizi sembra esaurirsi, si fa spazio il dubbio, la fatica, la tentazione di tornare indietro. Gesù stesso lo sa: per questo avverte i suoi discepoli che la sequela non è un cammino di sola gloria, ma anche di croce. Il demonio non tenta i novizi, dicevano gli antichi maestri dell’anima. La vera prova arriva quando la vocazione si scontra con la quotidianità e con le inevitabili difficoltà. Nella sinagoga di Cafarnao per un attimo Gesù stesso si trasforma in tentatore: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). Non c’è bisogno di ammutinamenti: la via d’uscita sta lì bell’e pronta.
Eppure, è proprio attraverso questi momenti che la vocazione si purifica e si fortifica. Il cammino non è mai lineare, ma fatto di cadute e ripartenze, di oscurità e nuova luce. Ciò che conta non è l’assenza di dubbi o la perfezione immediata, ma la perseveranza nel continuare a camminare, affidandosi alla grazia che, anche quando sembra lontana, non abbandona mai chi in cuor suo ha deciso il santo viaggio (Sal 83,6).
Gesù feriale
Gesù fu un maestro della quotidianità, fin nel suo primo giorno di ministero, così come ci viene descritto nel vangelo di Marco (Mc 1,21-34). A Cafarnao, in un attimo, tutto prende forma: nella sinagoga, Gesù predica con un’autorità mai vista prima, lasciando tutti stupiti. Non è solo il contenuto delle sue parole a impressionare, ma anche il modo in cui le pronuncia. Subito dopo, si manifestano i prodigi, e sono un po’ casuali, senza che uno potesse prevederli prima: uno spirito impuro viene scacciato dal suo scranno con un semplice comando, la suocera di Simone viene guarita dalla febbre. Mentre il sole tramonta sul primo sabato di gloria, una folla di bisognosi si raduna alla porta. Sarebbe stato bello poter scrivere già allora: «Tutto è compiuto», senza dover attendere l’agonia del Golgota. Ma il cammino di Gesù è appena iniziato. Mentre albeggia il secondo giorno, Simone, sopraffatto dall’entusiasmo, lo cerca e, quando finalmente lo trova raccolto in preghiera, la sua prima esclamazione è: «Tutti ti cercano!» (Mc 1,37). Potrebbe sembrare il coronamento perfetto della missione, il segno evidente del successo. Eppure, Gesù non si lascia trattenere. Non vuole essere sequestrato dall’entusiasmo della gente di Cafarnao. La sua risposta è chiara: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1, 38).
L’erranza diventerà una caratteristica distintiva di Gesù: un camminare instancabile, apparentemente senza approdo, senza casa, senza nemmeno una pietra su cui posare il capo. Solo bastone e passi. La sua missione non conosce confini, non si ferma di fronte al successo né al rifiuto. I Vangeli si compiranno proprio lungo questa strada: tra sconfitte dolorose e incontri che sono spiragli di luce.
L’ambivalenza di ogni viaggio
Ogni viaggio racchiude in sé un’ambiguità profonda: è una promessa di scoperta, ma anche una possibilità di smarrimento. Partire significa avventurarsi nell’ignoto, senza sapere se si raggiungerà una nuova riva o si affonderà in un naufragio. Ogni uomo reagisce in modo diverso alla strada che percorre: per alcuni sarà un’occasione di crescita e trasformazione, per altri una prova terribile che li renderà uomini malvagi.
La strada è sempre ambivalente: è un luogo di smarrimento e di risurrezione. Gesualdo Bufalino scriveva: «C’è chi viaggia per perdersi, c’è chi viaggia per trovarsi»[2]. In effetti, la strada può essere il luogo della rinascita o della disperazione, della risurrezione o della sconfitta. Un concetto che ritroviamo anche nella parabola evangelica: il sacerdote, il levita e il samaritano si trovano tutti lungo la stessa via, ma ognuno di loro compie una scelta diversa. La strada che scende da Gerusalemme a Gerico diventa così il simbolo del viaggio interiore di ogni uomo: c’è chi passa accanto al dolore senza accorgersi di nulla e chi, invece, trova nel cammino l’opportunità di scoprire se stesso, attraverso la compassione e l’aiuto all’altro. Forse è proprio questa la lezione più profonda del viaggio: non è la meta a definirci, ma il modo in cui affrontiamo il cammino.
Terribile quotidiano
Se partire è lo slancio di un momento – un atto che richiede certamente una buona dose di coraggio – ben più coraggiosa è, talvolta, la capacità di affrontare la quotidianità estenuante. È una realtà che molti sperimentano: iniziare qualcosa con entusiasmo è relativamente semplice, così come può esserlo chiudere un percorso con un gesto eroico o eclatante. Ma è nel mezzo, in quel lungo e spesso monotono intervallo di tempo, che si gioca la sfida più grande.
Consapevole di questa legge della vita, la mistica francese Madeleine Delbrêl affermava che l’amore non è qualcosa che brilla, ma una cosa che consuma[3]. Un’affermazione forte, che ci invita a riflettere sulla natura autentica dell’amore e della dedizione. Amare in senso astratto è alla portata di tutti, ma è nell’incontro con i volti concreti, con le imperfezioni e le difficoltà dell’altro, che emerge la complessità del voler bene davvero.
La vera questione, dunque, non è partire con slancio né concludere in modo eroico, ma accettare il giogo della perseveranza, della fedeltà agli impegni quotidiani, della passione delle pazienze, come la stessa Delbrêl la definiva. È lì, nel ripetersi dei giorni, nei piccoli gesti spesso invisibili, che si cela la vera grandezza. Non nel bagliore dell’istante, ma nella luce discreta di chi, giorno dopo giorno, sceglie di rimanere. Così afferma Madeleine in un celebre testo:
La passione, la nostra passione, sì, noi l’attendiamo. Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo viverla con una certa grandezza.
(…)
Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti, è l’autobus che passa affollato,
il latte che trabocca,
gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl’invitati che nostro marito porta in casa e quell’amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più; è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere; è voler uscire quando si è chiusi
è rimanere in casa quando bisogna uscire; è il marito al quale vorremmo appoggiarci e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.
Così vengono le nostre pazienze, in ranghi serrati o in fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando – per dare la nostra vita – un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci son rami che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno per giorno si consumano sul dorso di quelli che l’indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita.
È la passione delle pazienze[4].
Il demone di mezzogiorno
In questo testo c’è qualcosa che richiama le riflessioni degli antichi monaci sulla più insidiosa e terribile delle malattie dell’anima: l’accidia[5]. Essa non è mai stata considerata una malattia tipica della giovinezza, bensì il “demone di mezzogiorno”, il nemico silenzioso che colpisce nel pieno del cammino, quando le fatiche accumulate sembrano svuotare di senso ogni sforzo. Non è un’improvvisa disperazione né un cedimento totale, ma una sottile erosione della radicalità, una stanchezza dell’anima che trasforma ogni cosa in un’ombra priva di significato. All’improvviso, tutto appare vano, e si affaccia il desiderio di fuggire, di immaginarsi altrove, lontanissimo da quel luogo e da quella realtà che, fino a poco prima, ci erano familiari.
Nel percorso della vita, i nemici più pericolosi non sono quelli esterni, bensì i mostri interiori, i demoni invisibili che si annidano nelle pieghe dell’anima. I Padri del deserto hanno saputo dipingere la fenomenologia dell’accidia, tratteggiandola come un’insidia subdola e persistente. Essa si insinua con l’arma della noia, logorando lentamente la volontà e la perseveranza.
Evagrio Pontico, profondo conoscitore delle dinamiche interiori dell’anima, descrive così l’opera dell’accidia:
Il demone dell’accidia, chiamato anche “meridiano”, di tutti i demoni è il più opprimente; attacca il monaco verso l’ora quarta e assedia l’anima fino all’ora ottava. Dapprima fa in modo che il sole appaia lento nel movimento o immobile, mostrando il giorno di cinquanta ore. Poi lo costringe a guardare continuamente verso le finestre, a balzar fuori dalla cella, a osservare il sole [per vedere] quanto dista dall’ora nona, a guardarsi attorno, di qua e di là, se per caso qualcuno dei fratelli… Gli insinua inoltre un odio per il luogo [in cui si trova], per il suo stesso stato di vita, per il lavoro manuale, e [l’idea] che presso i fratelli è sparita la carità e che non v’è chi consoli[6].
Di fronte a questa prova – che, prima o poi, si presenta nella vita di ogni cristiano – i maestri spirituali hanno lasciato preziosi consigli. Tuttavia, su uno in particolare sembrano convergere con fermezza: resistere. Quando l’anima è fiaccata dall’accidia, si può persino sospendere il digiuno, si può alleggerire la disciplina della preghiera, ma vi è una cosa da cui non ci si deve mai allontanare: la propria cella. Essa, nei testi monastici, è spesso descritta come una vera maestra, soprattutto quando la fedeltà alla vocazione diventa più ardua. Non è il fervore passeggero, ma la perseveranza nella regola scelta nei giorni migliori a istruirci e a plasmarci. E proprio lì, in quella resistenza silenziosa, che si cela la via per vincere il demone dell’accidia.
L’importanza dei fratelli
Nel percorso della vita, si alternano momenti di luce e periodi di oscurità, in cui ci si sente smarriti e soli. Proprio in questi frangenti diventa essenziale camminare accompagnati dai fratelli, perché nessuno può affrontare il viaggio da solo. I maestri della spiritualità hanno sempre messo in guardia i cristiani dal rischio di percorrere sentieri solitari, se non dopo un lungo apprendistato. La vita anacoretica non è mai stata proposta come una forma di misantropia, e anche nei momenti di isolamento il legame con la Chiesa non si spezza. Non si cammina mai da soli: ogni passo è compiuto sotto lo sguardo di qualcuno e nella compagnia dei fratelli.
Così, ogni membro della comunità, con i suoi limiti e le sue fragilità, è chiamato a vivere in una relazione di aiuto. Forse Dio chiede a ciascuno, a turno, la responsabilità di sostenere un fratello nel momento del bisogno e, al tempo stesso, il coraggio di accettare l’aiuto quando si trova in difficoltà. La Chiesa non è un’assemblea di giusti impeccabili, ma una comunità di persone umili che si sorreggono a vicenda: poveri che amano altri poveri e che ricevono amore da chi è povero come loro.
Questa dinamica di sostegno fraterno risale alle origini della Chiesa stessa. Leggendo gli scritti dei Padri, troviamo la testimonianza delle prime comunità monastiche nate nel deserto, fondate da san Pacomio. I monaci di questi cenobi conducevano una vita di radicale ricerca di Dio nel silenzio e nella semplicità, ma anche nella solidarietà reciproca.
Si racconta che, talvolta, gruppi di monaci venissero sorpresi da violente tempeste di sabbia, perdendo l’orientamento tra le dune e le rocce che li separavano dal monastero. In quei momenti critici, la soluzione non era disperdersi nella ricerca individuale della via, ma restare uniti. I monaci si tenevano per il lembo della veste, formando una catena umana in cui i più esperti e chiaroveggenti guidavano il cammino, mentre gli altri seguivano con fiducia. Solo così si poteva raggiungere la salvezza. Uno scritto descrive con un’immagine potente questa esperienza:
I fratelli avanzano tenendosi uniti, l’uno dietro l’altro, per timore di perdersi a causa della profonda oscurità. Quelli che stavano davanti avevano, per rischiarare il cammino, la piccola luce di una lampada; quattro fratelli soltanto la vedevano, mentre gli altri non vedevano assolutamente nulla. Nostro padre Pacomio osservava il loro modo di procedere: se uno smetteva di stare attaccato a quello che lo precedeva, si perdeva nell’oscurità, portando con sé anche quelli che lo seguivano. E allora Pacomio chiamava per nome i fratelli prima che si distaccassero dagli altri: «Tienti attaccato a chi ti sta davanti per non perderti»[7].
Questa immagine è una splendida metafora della vita di fede di una comunità. Nessuno si salva da solo, e la luce della fede non è sempre visibile a tutti con la stessa intensità. Alcuni possono scorgerla più chiaramente e guidare gli altri, ma ciò che conta è non spezzare il legame. Restare uniti significa riconoscere che, nella Chiesa, ognuno ha bisogno degli altri: chi oggi guida, potrebbe domani aver bisogno di essere guidato.
Mistica del camminare
È nella quotidianità che ogni uomo acquisisce profondità, e sono talvolta i momenti più difficili a permetterci di guadagnare in spessore. Anni fa mi colpì la testimonianza di un pellegrino che aveva percorso il Cammino di Santiago. Mi raccontò che il momento più significativo della sua esperienza, la vera tappa mistica, non fu né il superamento dei Pirenei né l’attraversamento della foresta galiziana, ma la Meseta: quell’altopiano sconfinato, sempre uguale, bruciato dal sole e punteggiato da paesi così distanti tra loro da sembrare irraggiungibili. Si cammina per chilometri, eppure hai l’impressione di non avanzare mai. Il paesaggio è immutabile, come se ci si trovasse su un tapis roulant: sempre lo stesso orizzonte, sempre lo stesso sentiero, pare che non accada nulla. È in questo vuoto apparente che la mente si accende. È forse la seconda navigazione di cui parlano alcuni filosofi. Si rimane soli con se stessi, e dal cuore affiora di tutto: pensieri positivi e negativi, desideri e frustrazioni. I piedi continuano il loro viaggio, ma la vera avventura è tutta dentro di noi.
Forse è per questo che i sapienti hanno sempre nutrito grande rispetto per le suole delle scarpe: solo chi cammina, pensa davvero. Dalle antiche scuole elleniste fino ai moderni maître à penser è tutto un elogio del camminare, come luogo di genesi della creatività e del pensiero. Tocca diventare tutti un po’ peripatetici, evitando di rinchiudersi in biblioteche dove i pensieri, pur raffinati, rischiano di essere solipsistici e sterili. È nel cammino che il pensiero si fa vivo, concreto. Ed è camminando che si incontra la vita reale. Tutti i giornalisti sanno che le notizie si raccolgono sui marciapiedi, parlando con la gente, respirando l’aria delle metropolitane. La morte di una notizia è quando nasce dal dispaccio di un’agenzia.
Lo stesso vale per la vocazione: anche la più bella del mondo, se non si scontra con il ruvido e l’attrito di una quotidianità, rischia di restare un’illusione. Due sposi comprendono veramente la loro promessa matrimoniale – «nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore» – solo dopo anni di cammino insieme, non dopo pochi metri percorsi lungo la navata della chiesa. Sono i giorni vissuti, le fatiche condivise e le scelte quotidiane a dare significato alle parole. Perché è solo nel tempo che la vita riempie le promesse di realtà.
Luminosa quotidianità
Luogo di resistenza, la quotidianità è anche culla di luce.
In un suo intervento, raccolto a margine di un pellegrinaggio sui luoghi del Santo Curato d’Ars, il cardinal Martini invitava a non concepire l’evento della Trasfigurazione come una semplice parentesi: come se la vita fosse, in fondo, una fatica inutile e la verità ultima risiedesse unicamente nella resurrezione finale[8]. L’evento che si realizza sulla cima del Monte Tabor non è una mera anticipazione della gloria futura, ma la rivelazione che il quotidiano, pur nelle sue fatiche e nella sua apparente banalità, è un luogo di luce insospettabile.
A essere proclamato «Figlio mio» non è il Cristo glorioso della risurrezione, ma il Gesù della Galilea, il Gesù che sperimenta il rifiuto, la fatica, la contraddizione. La rivelazione non si manifesta soltanto nel battesimo, quando tutto ha inizio, o nella risurrezione, quando tutto si compie, ma anche nel mezzo del cammino, quando la vita si fa ordinaria, ripetitiva, perfino dura. Proprio in quel quotidiano a volte faticoso e frustrante si nasconde una dimensione di grazia e di bellezza che spesso non sappiamo riconoscere.
Ci vuole coraggio per decidere di essere persone normali. In un mondo dominato dagli eccessi, dove tutti vogliono esibirsi e attirare l’applauso degli altri, dove il successo e la presenza sui social sembrano il fine ultimo dell’esistenza, scegliere la normalità è un atto rivoluzionario. Vivere nella quotidianità, accettarne le sfide e le piccole gioie, è un gesto di autentica resistenza. Giuseppe Ungaretti, in una delle sue liriche, scriveva: «Il vero amore è una quiete accesa». Come a dire che il vero amore non ha bisogno di clamori, non si nutre solo di momenti straordinari, ma si radica nella costanza, nella pazienza, nell’accettazione della routine.
Amare qualcuno significa anche condividere il peso della quotidianità: le bollette da pagare, le caldaie che si bloccano, la percezione che il tempo passa e ci si scopre meno giovani. Un matrimonio è la fedeltà a quel lampo di bellezza assoluta che un giorno un uomo o una donna hanno aperto nel nostro cuore. Eppure, questi amori della quotidianità sono poco raccontati, poco celebrati, mentre sono gli unici veramente praticabili, gli unici che resistono al tempo e alle prove della vita.
In un romanzo di Heinrich Böll, si legge questa conversazione tra due sposi diventata celebre:
«Vorrei sapere per esempio perché mi hai sposata». «Per via della colazione, spiegai». «Cercavo qualcuno con cui poter fare colazione per tutta la vita, e la mia scelta – così si dice, no? – cadde su di te. Sei stata una magnifica compagna di colazioni. E con te non mi sono mai annoiato»[9].
Alla fine, è proprio in questa semplicità che si trova il segreto di una vita felice: saper riconoscere la luce anche nei gesti più ordinari, nelle abitudini condivise, nel valore di una presenza costante. Perché la quotidianità non è solo trincea di combattimenti, luogo dove si esercita la resistenza alla decostruzione, ma anche casa dove siamo attesi e gioia personale.
Mai senza la grazia
Un’ultima osservazione.
La perseveranza è virtù che gode di larga cittadinanza: non è tema solo religioso, perché essa è circondata di stima anche nelle riflessioni dei filosofi antichi. Comprendiamo tutti, in misura più o meno intensa, che la vita richiede una certa capacità di sopportazione, specialmente quando questa è richiesta dal senso di responsabilità.
Non si tratta di una mera resistenza passiva, ma di un’adesione profonda ai principi che ci siamo autoimposti, anche quando le difficoltà sembrano insormontabili. Ci sono progetti, sogni e valori che meritano di essere perseguiti fino in fondo, non per il vantaggio che potrebbero arrecare, ma per il loro stesso valore intrinseco. Gli ideali più alti non si misurano in base a ciò che rendono, ma in base a quanto ci costano in termini di impegno, dedizione e sacrificio.
Le persone di fede sanno che questo sforzo etico non è mai titanico o vissuto totalmente in proprio: esse non sono mai sole. Nei Salmi, più volte emerge l’idea che i nostri passi sono conosciuti a Dio, anzi, Egli veglia costantemente su di noi, guidandoci nel cammino. La Prima Lettera di Pietro ci ricorda che Cristo stesso ci ha lasciato un esempio da seguire: «perché ne seguiamo le orme» (1Pt 2,21).
Questo pensiero porta conforto e speranza, poiché ci ricorda che non siamo carovanieri in un deserto sconfinato, ma viandanti accompagnati, sostenuti da una presenza invisibile ma reale.
Anche nei momenti più bui, anche quando il dubbio sembra sopraffare la fiducia, c’è sempre una mano tesa, un filo sottile ma indistruttibile che lega la nostra esperienza al mistero di Dio. Dio non è nel terremoto, e nemmeno nell’uragano, ma è un refolo silenzioso di vento leggero (cfr 1Re, 19,22). C’è una congiura di bene tessuta alle spalle di chi crede, un disegno silenzioso ma potente che agisce per il nostro bene, anche quando non ne siamo consapevoli. Sarebbe forse il caso di citare la preghiera di quell’anonimo brasiliano, dedicata alle impronte lasciate su una spiaggia, ma ci esimiamo dal farlo, perché nota a tutti. Così, dopo aver superato l’ennesima prova, anche il credente può esclamare con lo stupore di Giacobbe: «Dio era qui e io non lo sapevo» (cf. Gen 28,16).
Gesù ha promesso a Pietro che non avrebbe camminato da solo. Anche quando Satana lo attendeva per metterlo alla prova (Lc 22,31-32), perfino in quell’istante, non doveva combattere da solo. Ricorda, Pietro: persino nel momento del tuo tradimento, Gesù stava pregando per te. Non ci lascia soli, ed Egli conosce ogni passo del nostro cammino (Sal 139,3).
[1] Per una introduzione alla figura di Mosè si veda: G. Ravasi, Mosè. L’uomo che parlava con Dio, Mondadori, Milano 2018; C. M. Martini, Vita di Mosè: vita di Gesù, esistenza pasquale, Borla, Roma 1984.
[2] G. Bufalino, Bluff di parole, Bompiani, 1994, 9.
[3] Cf. M. Delbrêl, Noi delle strade, Morcelliana, Brescia 1969.
[4] M. Delbrêl, Il piccolo monaco. Un taccuino spirituale, Gribaudi, Milano 1990, 80-81.
[5] Cf. G. Bunge, Akèdia. La dottrina spirituale di Evagrio Pontico sull’accidia, Praglia, Teolo 1992; G. Angelini, J.-C. Nault, R. Vignolo, Accidia e perseveranza, Glossa, Milano 2005.
[6] E. Pontico, Trattato pratico. Cento capitoli sulla vita spirituale, Qiqajon 2008, 93.
[7] Pacomio e i suoi discepoli. Regole e scritti, Qiqajon, Magnano 1988, 192.
[8] Cf. C.M. Martini, Nel mistero della Trasfigurazione, Àncora, Milano 1992.
[9] Cf. H. Böll, E non disse nemmeno una parola, Mondadori, Milano 2010.