Il ritmo dell’universo
L’esperienza della musica
Andate in un bosco, da soli, a camminare. Ascoltate. Percepite il cadenzare ritmico del passo, un piede dopo l’altro. Il suono del terreno calpestato dalle vostre suole è una sinfonia di scricchiolii, tonfi, strusciamenti. Ascoltate ancora. Vi accorgete che a questo ritmo si unisce quello del vostro respiro: l’aria entra, l’aria esce, accogliamo, lasciamo andare. Se siamo in salita, ecco allora farsi notare un terzo ritmo, sempre presente e per lo più inascoltato: il battito del nostro cuore, incessante, a sostenere la fatica, a irrorare di ossigeno ogni cellula. Un intreccio di ritmi che, man mano che ci inoltriamo nella foresta, si fa sempre più regolare, e nel farlo comincia a sciogliere i pensieri aggrovigliati, a liberare pesi che ci opprimevano, ad aprirci lo sguardo.
Tutto è ritmo e musica, dentro e fuori di noi: gli astronomi sono riusciti a catturare il suono delle galassie, i microbiologi quello delle più piccole cellule. Tra la vastità dell’universo e quella dell’infinitamente piccolo racchiuso in un pugno di terra ci siamo noi, esseri umani dotati di sensibilità straordinaria, di meccanismi biologici perfetti quali sono le nostre orecchie, la pelle capace di percepire le vibrazioni più sottili, noi immersi costantemente in un ritmo universale, prodotto della sovrapposizione di molteplici ritmi particolari in armonia tra loro.
Le nostre cellule si comportano come gli alberi del bosco in cui vi trovate: dialogano tra loro attraverso collegamenti che ricordano le radici, si scambiano informazioni, ognuna facendo la propria parte per preservare la salute e la sopravvivenza del corpo/bosco. Ognuna obbedisce alla legge armonica che tutto governa, al ritmo universale che trasforma la corteccia dell’albero morto in nuova vita, che muove le stagioni e i pianeti nel loro peregrinare.
Chi fa musica ha il privilegio di poter vivere molto da vicino la magia di tutto questo.
Cos’è la musica, se non aria mossa, vibrazioni che si propagano nell’aria? Eppure è capace di toccarci nel profondo come poche altre cose al mondo. Da dove nasce una canzone? Da dove nasce il ritmo? Non so se dalle nostre cellule, dal cosmo, dal mondo che ci brulica intorno… ma quando scrivo una canzone le parole e le note saltano in groppa alla ritmica, richiamandosi l’un l’altra da luoghi sconosciuti fino a manifestarsi in una realtà coerente e compiuta.
A dispetto della sua origine misteriosa, la scrittura di una canzone segue regole importanti: l’armonia (il susseguirsi di accordi – insiemi di più note – a formare paesaggi sonori), la struttura (introduzione-strofa-ritornello…), la scelta degli intervalli melodici, il valore delle pause e delle dinamiche (variazioni di volume nell’esecuzione), fino al lavoro di arrangiamento e di registrazione. Comporre e registrare musica è una danza, dove non si ha mai libertà totale né totale sottomissione alla regola. L’armonia, la melodia, la metrica delle parole, l’architettura degli accenti, la struttura dei versi, l’ingresso più o meno graduale degli strumenti, l’uso della voce: tutto segue un ritmo, tutto soggiace alle regole che esso richiede. A volte possiamo sentirle strette, queste regole, possiamo sentire che la canzone in un preciso frangente ha bisogno di uscire dalla cornice precostituita ed esplorare altri territori. Ci sono artisti geniali che di queste digressioni hanno fatto la loro cifra stilistica, creando mondi inaspettati e sorprendenti (pensiamo a Lucio Dalla o Frank Zappa per esempio), e se ne sono assunti il rischio e la responsabilità. Perché se infrangere il ritmo è funzionale all’apertura del brano, al suo volo più alto, allora quell’infrazione sarà la cosa più saggia e benedetta che possiamo compiere. Ma se è invece funzionale al nostro ego, per mostrare a noi stessi e agli altri quanto siamo originali e “liberi”, o alla nostra pigrizia, per non voler imparare cosa significhi stare nella materia, allora sarà un’infrazione nociva, che ci porterà a scrivere cose confuse e senza forma, incapaci di comunicare alcunché e perciò sterili.
Nella vita accade la stessa cosa. Le regole possono essere mortifere quando imprigionano e reprimono l’espressione originale e creativa, ma sono feconde quando nel caos che ci circonda disegnano un sentiero attraverso cui canalizzare il nostro essere e la nostra espressione. La canzone sottende al ritmo che la permea, ma questo non significa che esso debba essere sempre lo stesso. Pensiamo ai cambi di ritmo in «Voglio vederti danzare» di Franco Battiato. Anche nella vita, ci sono fasi a ritmi diversi. Età diverse, periodi frenetici che si alternano ad altri più lenti. A volte arrivano le pause, più o meno lunghe. John Cage sosteneva che il silenzio è esso stesso musica. Non è solo l’attesa delle note che lo interromperanno. E’ uno spazio e un tempo pregno di verità e di vita da ascoltare. Nella nostra vita che valore diamo al silenzio? Quanto siamo capaci di ascoltarlo?
Ovviamente tutto questo vale sì per l’esperienza individuale, ma assume una dimensione ancor più vasta e potente se lo pensiamo calato nella storia e nella geografia della comunità umana.
Quando più persone ascoltano e si affezionano a una canzone e cominciano a riconoscersi in essa, a sentire familiare il suo ritmo e le sue parole, accade qualcosa di molto potente e molto antico: si percepiscono tutt’uno con gli altri esseri attorno. Di certo sapete di cosa sto parlando, se siete stati a un concerto dal vivo del vostro cantante preferito, e avete assistito al fenomeno per il quale a migliaia, uomini, donne, bambini e anziani cominciano a cantare, dondolare, battere le mani insieme. Sono momenti di benessere assoluto: un senso di espansione vi pervade, i limiti del vostro io scompaiono in un Noi pulsante, che palpita e vibra in totale armonia.
Il ritmo ci permea da sempre e in ogni luogo si fa strumento di catarsi collettiva, dalla preistoria ad oggi, dai ritmi tribali africani alle danze balcaniche, dai canti sciamanici degli indiani d’America fino ai mantra d’Oriente: il ritmo unisce, rafforza il Noi e lo consolida. A volte si tratta di un Noi universale, identificabile con l’Umanità intera, quando non addirittura con l’intero ecosistema che la ospita; altre volte invece di un Noi-contro-Voi: pensiamo alle marce militari che incitano alla battaglia, agli slogan delle manifestazioni contro questo o quel gruppo sociale, alle canzoni nate per aizzare gli animi contro qualcuno o qualcosa. Il ritmo è una cosa potente, e come tale andrebbe trattato.
Ci sono periodi in cui non scrivo nulla. Periodi in cui vengo travolta dalla disarmonia che si muove attorno a noi. Giorni in cui vengo sopraffatta dalle pubblicità urlate, dalla tappezzeria musicale che si impone chiassosa nei negozi. Quando accade, sento il bisogno di tornare nel bosco, per ritrovare il mio ritmo interno e rimettermi in linea. Per qualcuno potrebbe essere invece una spiaggia d’inverno, un sentiero tra i campi coltivati, il vicolo di un piccolo borgo antico, un cielo puntellato di stelle. E’ lì, tornando a fare silenzio, lasciando che tutta la spazzatura inutile che mi si è depositata dentro alla testa e al cuore venga liberata con l’andare del passo, che mi ritrovo. E mi ricordo che ogni cosa ha il suo tempo, in musica come nella vita. Che abbandonarsi al ritmo dell’universo non significa abdicare al nostro libero arbitrio, ma armonizzarlo in esso, e ritrovarlo in esso amplificato. Che la mia voce è importante tanto quella di ogni altro essere, che ho il dovere di darle spazio nella sua unicità, senza per questo schiacciare le altre. Che se la musica chiama non devo vergognarmi di seguirla, magari all’inizio con un cenno del capo, un picchiettare del piede a terra… fino a darmi il permesso di danzare, con gli altri, questo sconfinato, commovente, disarmante e magnifico Mistero.