N.05
Settembre/Ottobre 2021

L’autorità è una porta

Il movimento generativo della vita

Nella confluenza di istanze culturali diverse, il nostro tempo è segnato dalla contestazione, prima, e dal rifiuto, poi, dell’autorità. Del resto, la storia dell’autorità pone le premesse per tali esiti.

Ma è davvero possibile una società senza autorità? E che tipo di società ne potrebbe sortire?

Se è vero che è difficile trovare porti sicuri ove ancorare l’autorità, è pur vero che essa risorge continuamente dalle sue ceneri, ricostituendosi con forme e modalità più fuggevoli, ma non per questo meno rilevanti.

Più che riavvolgere il nastro della storia, si tratta di tornare a riflettere su un termine che rimane essenziale e, al contempo, impossibile. Un mondo senza autorità non si regge, se non a costo di perdere la libertà. Semmai il problema è quello di pensare diversamente l’autorità. Riconoscendone il ruolo essenziale di connettore tra chi viene prima e chi viene dopo (sia in senso temporale che simbolico): mediazione necessaria tra ciò che già c’è e ciò che ancora può nascere e prendere forma.

 

Autorità che autorizza

 

Identificare l’autorità con il potere e/o appiattirla su una soltanto delle dimensioni che la attraversano può rassicurare, ma tende a riempire quello scarto che la abita, chiudendo la tensione grazie alla quale essa, invece, diviene generativa.

Il problema non riguarda, tuttavia, solo l’autorità. L’implosione su una soltanto delle opposizioni polari che entrano in una relazione ci riguarda, in quanto figli della modernità, e produce dualismi a-relazionali e sterili. Il pensiero dell’Uno è rassicurante: in nome di un’unità compatta, sostanziale, e di un fondamento esplicativo di tutto, si definisce la realtà.

Ciò accade quanto l’autorità degenera in giustificazioni facenti leva, per esempio, su un ‘fondamento’ che pretende di essere esplicativo della sua costituzione (per nomina o per elezione) e non è invece visto come un ‘terreno’ su cui contribuire a far fiorire qualcosa secondo il suo percorso, in relazione all’esistenza e alla sua verità, dentro una mediazione che interpella colui che ha autorità. Ciò è accaduto a vari livelli: le autorità regolative e quelle autoritarie così come quelle tutelari ne sono un esempio con il loro oscillare tra l’idea di individui pensati come monadi tenute insieme da aggregazioni meramente strumentali e burocratiche, o di individui quali esseri mancanti cui garantire il soddisfacimento di bisogni in cambio di obbedienza e adesione fusionale al sistema.

Tendenze che hanno fatto implodere lo slancio autoriale.

Quando sant’Agostino dà una connotazione spirituale all’autorità e afferma che l’io è abitato dall’inquietudine che lo consegna alla vita e alla libertà, va nella direzione di delineare l’autorità non come qualcosa che è tale perché soddisfa le esigenze delle forme istituite, o perché in grado di controllare la vita sociale, ma perché si orienta – e orienta altri – alla verità dell’esistenza umana (nella sua non coincidenza – eppure reciprocità – tra esistenza e vita, esperienza e realtà, io e Dio).

Colui che incarna l’autorità diventa, quindi, mediatore – e non possessore – nel processo di formazione dell’io nel quale ciascuno rivolge un appello all’altro: quello di essere autorizzato a far crescere la sua natura umana empirica alla dimensione che la eccede, al mistero che la abita. In tale cornice, l’autorità risveglia lo spirito umano, si rivolge alla libertà dell’altro, anzi, implica la libertà e abilita la libertà di colui/coloro cui si rivolge:scrive Guardini che “l’autorità – a differenza dalla costrizione – presuppone proprio la libertà. Ma poi autorità e iniziativa individuale non sono in contraddizione: aut aut – ma opposti dialettici; l’uno presuppone l’altro, senza iniziativa l’autorità diviene sterile, senza autorità l’iniziativa diviene caotica” [1].

La relazione tra autorità e libertà impedisce all’autorità di cristallizzarsi in una forma istituita e alla libertà di girare a vuoto senza sedimentare nulla.

Nella reciproca implicazione tra libertà e autorità, l’autorità non si limita a trasmettere dei contenuti che esigono ripetizione passiva in cambio di rassicurazione circa la soddisfazione di bisogni (ciò che farebbe il potere, come indica emblematicamente lo scontro tra due tipi di ‘autorità’ nel monologo del Grande Inquisitore di Dostoevskij), ma comunica la possibilità di osare.

Ripensare l’autorità dalla sua natura contribuisce a riaprire l’orizzonte che si chiude continuamente laddove il pensiero tendente all’Uno, eliminando ogni tensione, satura la realtà. La relatività delle dimensioni attesta di una trascendenza che abita l’autorità, pur senza scivolare nell’immanenza assoluta. Il momento del cominciamento – di cui l’autorità si fa mediazione – rimane dentro l’istituito e diviene un principio di generazione che rende ciò che ha preso forma lungo la storia trasmettibile e trasformabile (e non immutabile). La stabilità non è intesa come ripetizione. E, al contempo, la creazione istituente non è assoluta, dal momento che è sempre condizionata (pur se non determinata): in essa, infatti, entrano già in scena le cornici di senso, il passato, le esperienze condivise, i valori trasmessi, ecc.

La natura duale rende possibile l’improbabile movimento della stabilizzazione e della apertura, tenendo insieme eredità e novità. Sfuggendo tanto alla assolutizzazione dell’istituito tradizionalista quanto all’esaltazione unilaterale dell’istituente inaugurale. È la natura duale dell’autorità che consente di ripensarla senza rimanere impigliati nella nostalgia (pericolosa) di una autorità che non c’è più ma si vorrebbe veder tornare – e tornare come sicurezza che ordina le cose consolidando il dato della tradizione cui essere fedeli senza separazioni. Ed è sempre la natura duale dell’autorità che consente di non pensarla come coincidente con la sola autonomia individuale orientata a recidere ogni legame con il passato, la memoria, la trascendenza fino a cancellare il debito simbolico di cui è intrisa l’esistenza umana nella sua provenienza dall’altro.

Solo se liberata dalla spirale del potere e del pensiero univoco, l’autorità può trasmettere ciò che essa media (e non possiede, ma da cui si lascia trasformare), divenendo una forza aurorale capace di autorizzare altri a continuare, contribuire, incominciare.

Tale autorità diviene ‘autoriale’: essa autorizza. Agisce in modo tale da mettere altri nelle condizioni di continuare, andando anche oltre l’opera iniziale di chi li ha preceduti, senza definire il percorso e tanto meno ripiegarlo sull’autore che lo ha autorizzato. In tal senso, essa l’autorità diviene un limite al potere.

Il movimento che meglio esprime tale dinamismo è quello del ‘lasciar andare’, che va nella direzione opposta sia al trattenere/controllare che all’abbandonare irresponsabilmente. ‘Lasciar andare’ implica un passaggio di consegne: non una concessione o un atto moralistico, ma risposta a quei dilemmi con cui l’autorità si confronta continuamente (decidere se soffocare la crescita di ciò che viene al mondo o lasciarlo fiorire; se determinare il percorso di altri o liberarlo). Il movimento generativo di vita che contrassegna l’autorità autoriale si compie in questa perdita: un esporsi che mette altri nelle condizioni di divenire autori.

Tale autorità rilancia, riversando su coloro che verranno dopo il compito di esistere, di diventare liberi, consapevoli che con la loro azione modificano il mondo e la storia.

La postura dell’autorità autoriale assomiglia a quella dei maestri di cui abbiamo bisogno: una forza trascinante che sfida la mediocrità dell’appiattimento conformista tipico delle società piatte, che è dotata della capacità di ridestare la persona, far scoccare la scintilla del desiderio coinvolgendo le dimensioni intellettuali e affettive, facendo crescere i discepoli nel riconoscerli ‘autori’ che andranno oltre il maestro. Una autorità che non occupa la scena dei figli o delega sulle loro spalle le proprie irresponsabilità, bensì rimane in cammino, non pretende di essere giudice senza essere giudicato.

Tale autorità ‘autoriale’ assomiglia a una ‘porta’ che rimane aperta: mentre essa delinea una direzione, costituendo una confinazione di qualcosa, non pretende di esaurire la realtà, accordando il meraviglioso sentimento di gettare uno sguardo tra cielo e terra, abilitando il movimento di quel viaggio che ogni generazione può intraprendere.

 

 

[1] R. Guardini (1953), Opera Omnia VI. Scritti politici, Morcelliana, Brescia 2005, 465.