Il delicato inserimento nel ministero
"Tappa pastorale o sintesi vocazionale"
La quarta tappa indicata dalla nuova Ratio è descritta come «pastorale o di sintesi vocazionale». I due aspetti dicono la specificità e insieme la delicatezza di questo nuovo passaggio. Da un lato, come si precisa nelle finalità dichiarate, «si tratta di essere inseriti nella vita pastorale, attraverso una graduale assunzione di responsabilità»; dall’altro, si rimarca la preziosità di un tempo dedicato ad una personale sintesi vocazionale, in cui occorre «adoperarsi per una adeguata preparazione ricevendo uno specifico accompagnamento in vista del presbiterato»[1].
Oltre al tempo fissato dal diritto canonico tra l’ordinazione diaconale e quella presbiterale, molteplici e variegate sono le esperienze in atto e sempre sotto la lente della verifica nelle diverse diocesi. La non facile posta in gioco riguarda, infatti, il delicato tema dell’introduzione al ministero nel contesto attuale, all’interno di un certo senso di fluidità del ministero stesso. Non soltanto, infatti, sono cambiate significativamente le condizioni culturali generali, ma anche il quadro vitale di Chiesa come la percezione dell’esercizio del ministero stesso. Chi è il prete oggi? Come configurare il suo servizio nella Chiesa, guardando al domani, nella «transizione d’epoca» che stiamo vivendo? Quale prete per quale Chiesa? Sono, certo, le domande di sempre, ma non per questo scontate.
Senz’altro, come del resto in tutta la formazione che precede, non è possibile ridurre il tutto ad una più adeguata e opportuna, per quanto insuperabile, calibrazione di obiettivi e metodi della pastorale oggi. Non è soltanto questione di ottimizzare le risposte in termini di efficienza. Rimane, piuttosto, vivo il tema dell’identità del ministero e, in riferimento ad esso, come operare quella sintesi vocazionale sperata, che è sostanza di una certa consistenza e tenuta nell’esistenza presbiterale, mai del tutto scontata. Si tratta di questioni, certo, molto ampie che non possono essere affrontate qui nella loro complessità. Ci accontenteremo, solo per riproporre una riflessione che appare sempre più urgente e improrogabile, di qualche spunto e di un rilancio concreto, attraverso la proposta di inserimento nel ministero della diocesi di Patti (Sicilia).
La carità pastorale, dono di Gesù e della gente
Come operare, dunque, quella sintesi vocazionale auspicata dalla nuova Ratio? A partire dal Concilio Vaticano II, in tutti i documenti della Chiesa fino alla nota esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis (1992) e nel magistero ad essa successivo, è la carità pastorale lo snodo decisivo di una spiritualità presbiterale. Nel tentativo di indicarne il volto essenziale, occorre ricordare che si tratta di un dono di Gesù e della gente. Ed è attorno a questo duplice snodo che è possibile lavorare in vista di una sintesi esistenziale. Come scrive Papa Francesco nella Evangelii Gaudium, indicando per sé l’ideale di ogni cristiano, «la missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo»[2]. È senz’altro in questa luce che la carità pastorale caratterizza e unifica la vita del prete.
Essa è, anzitutto, un dono di Gesù, perché il pastore buono è primariamente Lui, il Figlio obbediente che opera sempre in comunione col Padre e manifesta il suo amore in tutto ciò che compie. Carità pastorale è, pertanto, la partecipazione all’amore di Dio in Cristo Gesù, infuso nei nostri cuori dallo Spirito. È adesione alla misericordia attiva con cui Dio in Gesù ha amato, ama il suo popolo, vede prima di noi le sue sofferenze, ne ascolta il gemito e interviene per liberarlo (cf. Es 3,7-10). È, ancora, in altri termini, l’assunzione dell’amore e la partecipazione all’amore con cui Gesù, buon pastore, dà la vita per il gregge (Gv 10). Tale amore, però, non è frutto di conquista personale o di mero esercizio volontaristico. Piuttosto, è una grazia offerta e, insieme, da chiedere, un dono da accogliere; è il dono stesso dello Spirito che viene invocato su chi diventa prete il giorno dell’ordinazione.
D’altra parte, la carità pastorale è anche un dono della gente o meglio, ancora il dono di Dio che la comunità cui si è inviati riversa sul prete. Attraverso l’affetto, l’accoglienza, l’ascolto, la stima reciproca, la comprensione, la gente contribuisce di fatto a plasmare la carità il prete, la fa crescere e maturare nella disponibilità a donarsi, risvegliando risorse sorprendenti e inattese per la vita stessa del presbitero. Le storie delle singole comunità cristiane sono un racconto vibrante di questo scambio tra il pastore e il suo popolo. Narrano di dedizioni esemplari e commoventi, che hanno edificato nel tempo le comunità, lasciando solchi e semi promettenti per le generazioni future.
Si può comprendere, allora, come il culmine della carità pastorale sia considerare una comunità (e in essa, ciascun suo membro) in qualche modo come parte rilevante della «storia di sè», senza la quale sarebbe difficile comprendersi. Ciascun prete, se ascolta il proprio vissuto, si ritrova in questa grazia, riconoscendosi edificato e unificato dalla ricerca tenace di Dio e dalla testimonianza di fede del popolo di Dio che è stato chiamato a servire. In tal modo, ancora risultano trasparenti quanto riassuntive per il cristiano e in modo particolare per il ministro, le parole di Evangelii Gaudium: «la missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare»[3].
Per il credente e in modo particolare per quel credente chiamato al servizio che è il prete, Dio è riconosciuto come «il mio pastore» (cfr Salmo 22), vale a dire colui che considera «sua storia», parte di sé, la vicenda storica del popolo che si è scelto: «Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (cf Ger 7,23; Ez 36,28). Attorno a questo duplice riconoscimento del dono dell’amore di Dio e del popolo, in Gesù pastore, è possibile operare e verificare la solidità di una sintesi vocazionale che ormai apre al ministero vissuto.
Attenzioni da far maturare
Illuminato, se pur sommariamente il quadro di riferimento complessivo, si tratta di precisare alcuni aspetti da far maturare, tenendo conto della specificità del tratto formativo in questione. La novità dell’ingresso vero e proprio nel ministero, dal punto di vista pedagogico, richiede, infatti, che vengano evidenziate alcune attenzioni specifiche. Due, in particolare, tra le possibili, salvo migliore giudizio, e a costo di qualche non inutile ripetizione. La prima, è favorire occasioni di rilettura del vissuto che possano offrire modalità di ripresa promettenti e abituali per il tempo pieno del ministero. La solitudine nel considerare da se stessi la propria vita è una delle insidie più grandi. I diversi segmenti formativi del seminario possono qui essere rigiocati con immaginazione: la vita spirituale, con la sua attitudine a rileggere in profondità e a unificare il vissuto attorno al rapporto affettivo con Gesù; la scuola di teologia, così utile nella sua versatilità durante il sesto anno; la vita comune nell’esercizio di una fraternità semplice e reale, promessa di relazioni future nel presbiterio; il confronto con gli educatori, quale garanzia contro il rischio o la tentazione di un’implosione autoreferenziale.
La seconda attenzione mi pare l’arte di saper suscitare una domanda di formazione. Non è cosa da poco, perché, soprattutto in questo tempo delicato di soglia, è facile cedere ad una certa retorica lamentosa che sbrigativamente sorvola sulle questioni. Senza questa attenzione il proseguimento dell’unico processo formativo all’interno della grande famiglia del presbiterio diocesano rischia di trovare sorde obiezioni e battute d’arresto. Al contrario, la vita stessa del prete è capace, nel tempo, di porre domande di formazione, di individuare questioni da affrontare e priorità da custodire. Si tratta di ascoltare queste istanze nella loro freschezza e novità.
La proposta del Seminario di Patti (Sicilia)
Il Concilio Vaticano II e le determinazioni successive del Codice di Diritto Canonico e del Magistero sono l’orizzonte normativo entro cui si sviluppano gli intendimenti e i cammini formativi del Seminario di Patti, piccola e periferica diocesi siciliana, che gode altresì di tradizioni religiose che da secoli ne contraddistinguono il contesto storico e culturale, fatto di amore e devozione ai numerosi santi indigeni, e tradizioni di feste caratterizzate da processioni, sagre e folklore ad essi dedicate e ispirate. «In questo contesto», afferma don Dino Lanza, direttore del CRV e vicerettore del Seminario, «per noi ricchezza da rivalutare ogni volta e da motivare cristianamente nel cuore dei fedeli, nascono le vocazioni alla vita sacerdotale, di ancora diversi giovani e meno giovani, spinti dall’esempio di parroci o da esperienze altrettanto significative di appartenenza ad associazioni, movimenti e gruppi ecclesiali, presenti in diocesi».
Quanto al percorso proposto, «l’azione educativa cerca, attraverso un discernimento conclusivo, di far assumere in modo definitivo ed esclusivo il servizio al Vangelo e alla Chiesa nel presbiterio diocesano. L’esercizio concreto del servizio aiuta ciascuno a porre l’accento sulla generosità, sulla magnanimità, sulla sapienza che viene da Dio». Le modalità particolari consistono, invece, nella opportuna riproposizione di strumenti ben collaudati: «istruzioni del Rettore e del Direttore Spirituale; colloqui personali con entrambi, caratterizzati da franchezza, confidenza, profondità; responsabilità dei servizi comunitari e della qualità delle relazioni fraterne; esercitazioni pastorali (attenzioni alle urgenze della missione, familiarità con i metodi e gli strumenti del Piano Pastorale Diocesano, animazione vocazionale); scuola di teologia e verifica degli esami con conseguimento del baccellierato; discernimento conclusivo».
Nello specifico, «la formazione del sesto anno pastorale tiene conto del bisogno di armonizzare formazione umana e spirituale e vita pastorale». Tale attenzione avviene «favorendo dell’ordinando, spesso già diacono, sia l’approccio con una realtà parrocchiale (parroco e comunità), nella quale dopo l’ordinazione continuerà a svolgere il suo ministero; sia con la formazione permanente, della quale il candidato dovrà farsi carico». Quest’ultima prosegue «continuando a frequentare il seminario in giorni specifici», nei quali confrontarsi con la realtà nella quale si vive il proprio ministero, e, soprattutto, «col tema delle relazioni “paterne” nelle quali incanalare, con umiltà e mitezza, le personali risorse umane e purificare i propri limiti, mettendoli a servizio della volontà di Dio». Infine, un’attenzione particolare viene data alla cura dell’inserimento nel vissuto concreto del presbiterio diocesano, in comunione col vescovo. Se durante le tappe precedenti la premura è quella di avviare e inserire nelle diverse realtà pastorali diocesane in cui ci si troverà a vivere, una volta giunti in parrocchia, nel sesto anno, l’attenzione è piuttosto quella di «far maturare il bisogno di relazioni autentiche e fraterne con il presbiterio».
[1] Congregazione per il clero, Il dono della vocazione presbiterale, Paoline, Milano 2016, 74.
[2] Francesco, Evangelii Gaudium. Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale (24 novembre 2013), 268.
[3] ID., 273.