N.03
Maggio/Giugno 1997

Comunicare è difficile

Nel 1990 l’Arcivescovo di Milano C.M. Martini scriveva una significativa e stimolante Lettera pastorale alla sua diocesi sulla “comunicazione pastorale”[1], raccontando nella premessa una curiosa e interessante esperienza personale a riguardo delle complesse dinamiche che una qualsiasi comunicazione potrebbe comportare.

“Questa Lettera pastorale era partita bene. Mi veniva giù quasi di getto. Scrivevo con una certa noncuranza, quasi con innocenza. Sfioravo i problemi più gravi con tanta facilità, come uno sciatore lanciato a volo lungo una pista difficile. Dicevo tra me: ‘com’è bello e com’è facile comunicare, quando si ha davvero qualcosa dentro!’ Poi ho fatto leggere il primo abbozzo a tante persone sperimentate e competenti. Hanno apprezzato il lavoro, il tema, il modo di trattarlo. Hanno sentito che era importante e urgente. Ma insieme mi hanno comunicato centinaia di osservazioni minute e preziose (tralasciare questo, aggiungere quello, sottolineare quell’altro, chiarire un paragrafo, riscrivere un altro). Ho cominciato a farlo diligentemente e mi sono accorto che stavo perdendo in scioltezza. Prendevo coscienza del fatto che le cose da dire su questo argomento (come su ogni tema importante e complesso) sono tantissime; che volendo essere stringati si diventa ermetici; che volendo spiegare e giustificare tutto si diventa pedanti, ecc. E mi sono detto: ‘Com’è difficile comunicare davvero ciò che uno ha dentro!’ (…): comunicare è difficile, richiede un va’ e vieni dialogico, interlocutori pazienti, benevoli e attivi”[2].

 

 

1. I molti linguaggi della vocazione cristiana.

L’aneddoto ha un significato emblematico anzitutto se messo in rapporto al tipo di comunicazione che concretamente si va verificando in una società e in una cultura che i sociologi definiscono sempre più “complessa” In questo senso proprio tali dinamiche comunicative, con tutte le articolate dinamiche che comportano, sono pure rinvenibili all’interno di quella realtà di comunione – e di comunicazione dunque – che è appunto la Chiesa.

Propriamente sono i diversi settori pastorali della vita ecclesiale che meglio esprimono tensioni e ricchezze comunicative. Dunque anche il fatto vocazionale, studiato e favorito dalla pastorale vocazionale, può essere letto alla luce delle categorie proprie della comunicazione. Si potrebbe anzi affermare che l’evento vocazionale cristiano in quanto tale è “comunicativo”.

La vocazione è in questo senso un fatto di comunicazione a un duplice livello. Anzitutto in senso teologico, nella misura in cui si intende guardare alla vocazione cristiana nella luce dialogica e creativa della domanda (la vocazione in quanto tale) e della risposta (vocazionale da parte del credente). Inoltre, in senso culturale, nella misura in cui si volessero applicare al dato vocazionale cristiano le stesse categorie interpretative proprie della scienza della comunicazione sociologica. Tale in fondo è il duplice livello interpretativo che questo numero, dedicato appunto a “I linguaggi della comunicazione vocazionale” vorrebbe tenere sullo sfondo. Non è un compito semplice. I due livelli ravvisati potranno certamente interagire, ma pur sempre nel rispetto delle diverse caratterizzazioni teologico-spirituali e scientifico-comunicative.

Ad esempio, la dialogicità strutturale della comunicazione vocazionale teologica non potrà essere semplificata o ricondotta alle dinamiche proprie delle notizie, delle informazioni o degli input tipici della comunicazione odierna. Si tratta infatti di prendere atto che ci troviamo di fronte a linguaggi qualitativamente diversi, non sovrapponibili. Il linguaggio singolare di Dio “che chiama”, e al quale il credente intende “rispondere”, è di propria natura un linguaggio esplicitamente creativo e reale. Il linguaggio descritto dalle scienze della comunicazione è piuttosto analitico e in ultima analisi virtuale. Quest’ultimo intende descrivere “scientificamente” un dato di fatto, “già dato” e precedente. Non lo genera affatto. Si potrebbe dire piuttosto che “semplicemente” lo constata e, a determinate condizioni, lo potrebbe anche spiegare.

 

 

2. Vocazione cristiana e scienza della comunicazione

È importante dunque stabilire a quale livello comunicativo ci si pone guardando al fatto vocazionale all’interno della azione pastorale della Chiesa. Se è vero infatti che le scienze e le tecniche della comunicazione non generano nuove vocazioni, in quanto queste sono generate propriamente dalla potenza creatrice dello Spirito, resta tuttavia determinante oggi saper riconoscere che alla vocazione cristiana – in tutte le sue possibili configurazioni – può derivare degli interessanti e fecondi vantaggi dalle analisi categoriali proprie delle scienze comunicative. Del resto anche le molte notizie e informazioni, i molti input, se da una parte dilatano enormemente il campo comunicativo, nello stesso tempo lo rendono problematico, arduo e faticoso. 

Si pensi ad esempio alla ormai consumata questione della crisi delle vocazioni, intesa qui anzitutto come crisi numerica delle vocazioni di speciale consacrazione. La scienza della comunicazione, con l’intero apparato dei suoi approfondimenti categoriali, quale apporto potrebbe essere in grado di esprimere a questo riguardo?

Rifacendoci ancora alla Lettera pastorale del card. Martini si potrebbe ricordare l’immagine biblica di Babele, simbolo della confusione dei linguaggi e della fatica che gli uomini e le culture fanno a intendersi tra loro, simbolo di una civiltà in cui la moltiplicazione e la confusione dei messaggi porta facilmente al fraintendimento[3]. Si potrebbe dunque, in riferimento alla crisi delle vocazioni, evidenziare una comunicazione confusa e non autentica; “babelica” appunto? Non è questo il luogo per affrontare in maniera distesa i termini di una possibile risposta. Tuttavia è interessante accennare brevemente almeno al tema della cosiddetta meta comunicazione. Di cosa si tratta propriamente?[4]

 

 

3. Crisi delle vocazioni e meta comunicazione

La scienza della comunicazione ci informa che ogni messaggio comunicativo contiene strutturalmente un contenuto esplicito, ma anche un aspetto che specifica il modo in cui il messaggio deve essere considerato e quale è la natura della relazione fra le persone coinvolte nell’interazione. E questa articolazione del dato comunicativo riguarda naturalmente anche la comunicazione ecclesiale e pastorale.

Nel linguaggio specialistico la modalità che specifica il messaggio e la sua possibile ricezione viene chiamata appunto meta comunicazione. Si tratta infatti di un messaggio complementare, di una comunicazione ulteriore rispetto alla comunicazione già in atto, in grado di fornire informazioni su come l’emittente si autodefinisce e su come definisce la relazione stessa. Il modo di porre il messaggio decide del tipo di relazione che l’emittente instaura e stabilisce con lo stesso destinatario. Insomma: il contenuto della comunicazione non può non essere coerente con qualsivoglia modo di porsi trai soggetti coinvolti nella comunicazione. C’è un nesso vincolante di affinità tra il messaggio comunicato e il modo secondo il quale l’emittente si atteggia nei confronti dell’altro, soprattutto quando gli atti comunicativi hanno per contenuto una promessa, un’offerta di amore.

Occorre dunque prestare molta attenzione alla meta comunicazione, al suo significato e alla forza di comunicazione e di relazione. La meta comunicazione infatti sta dietro le quinte, in secondo piano, è latente e implicita, mentre in primo piano c’è il messaggio e il suo significato esplicito e manifesto. È evidente il rischio di una marcata distonia fra l’esplicito e l’implicito, di una discrepanza vistosa fra il significato manifesto e il significato latente. Tutto ciò può corrompere la bontà stessa del messaggio, può renderlo incoerente, può suscitare la diffidenza in luogo della fiducia[5]. In che termini dunque la meta comunicazione potrebbe spiegare la crisi delle vocazioni, e di certe vocazioni?

 

 

4. Una comunicazione ecclesiale più trasparente e più buona

La domanda che era stata posta a questo intervento editoriale introduttivo era propriamente questa: perché la comunicazione della chiamata di Dio ai nostri giorni sembra “incepparsi”? Come sbloccarla?

Riuscire a rendere piena la verità nell’amore è certo una responsabilità di tutti e di ciascuno nella Chiesa affinché la comunicazione sia idonea, attraverso i modi normali del comunicare della Chiesa e nella Chiesa, a manifestare la verità nell’amore e nell’amicizia in modo che tutti possano scoprire la parola da accogliere come dono. La meta comunicazione richiesta alla Chiesa deve lasciar trasparire l’amore, la cura, il dialogo perché “Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunicazione con sé”[6].

Dunque la Chiesa, per essere se stessa, per svolgere la sua missione, dovrà eliminare quei “rumori di fondo” che disturbano la comunicazione che l’ha fondata e che costituisce il fine del suo essere-operare. Dovrà impegnarsi per una buona comunicazione della fede, e quindi educarsi alla comunicazione. Anche per diventare un buon flautista occorre prima di tutto saper suonare il flauto. Dovrà progettare la comunicazione della fede non in astratto o in termini universali, ma in rapporto a quest’uomo che vive in questa civiltà, in queste situazioni, in questo preciso contesto storico-culturale[7].

 

 

 

 

 

Note

[1] C.M. MARTINI, Effatà. Apriti!, Centro Ambrosiano, Milano 1990.

[2] Ivi, pp. 7-8.

[3] Ivi, pp. 11-12.

[4] G. AMBROSIO, Comunicazione della fede e società complessa, in “La rivista del Clero italiano”, Luglio/agosto 1991, p. 487.

[5] Ivi, pp. 491-492.

[6] Dei Verbum, 2.

[7] G. AMBROSIO, o.c., pp. 492-493.