Discernimento comunitario, direzione spirituale e vocazione
“Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2,7). L’esortazione insistita nei primi capitoli dell’Apocalisse per una vigorosa revisione di vita delle sette Chiese dell’Asia è risuonata con grande intensità per la nostra “Chiesa Italiana” in occasione del Convegno Ecclesiale di Palermo. Non era difficile in quella occasione cogliere la “portata vocazionale” di un tale richiamo per tutta una chiesa in atteggiamento di “ricerca vocazionale” di fronte al grande imperativo della Carità, per una nuova società in Italia. Ma la Parola dell’Apocalisse rimbalza molto attuale e feconda per ogni tipo di ricerca e di cammino vocazionale, per il discernimento stesso di ogni dono dello spirito da accogliere e coltivare nello Spirito. In quella circostanza, l’assemblea di Palermo aveva messo l’accento su un atteggiamento spirituale ben preciso e ritenuto come condizione imprescindibile: il discernimento comunitario, spostando così sulla Comunità ciò che abitualmente si intende come un’operazione strettamente individuale di un io che si mette in trasparenza con un tu (l’accompagnatore spirituale): questo tu deve assumere i connotati del “comunitario”. Non mi pare superfluo richiamare ciò che emerge da una relazione fondamentale del Convegno a proposito del “discernimento comunitario”.
COSA SIGNIFICA DISCERNIMENTO COMUNITARIO?
Da una delle sintesi regionali presentata a Palermo venivano rilevati i seguenti elementi in proposito:
“Prima di tutto verificare lo stile ed il livello di fraternità presente nelle nostre comunità in modo che esso diventi realmente il mezzo privilegiato per leggere la situazione in cui la comunità e i singoli debbono annunciare il Vangelo… La Comunità deve essere effettivamente il luogo dell’invocazione dello spirito per comprendere come dare ragione della speranza che è in noi… In certi casi si è più preoccupati di rispondere a delle questioni e a dei problemi che di accettare una lettura comunitaria dei medesimi”.
Si tratta in sostanza di rendere pienamente possibile l’azione dello Spirito garantendo per così dire i minimali di una comunità riunita nel nome del Signore, sul modello della comunità apostolica dove appunto la comunicazione attorno al perno della Parola e dell’Eucaristia, garantito dal servizio apostolico, gode della presenza di Gesù Risorto e dunque dell’azione feconda e illuminante dello Spirito Santo.
In questo clima si avverte l’assoluta insufficienza di un discernimento che non abbia il suo vigoroso e limpido collegamento con la dimensione ecclesiale della vita cristiana. Esso rischierebbe molto di scadere in un giudizio privatistico, spesso sbrigativo o addirittura improvvisato, forse preoccupato di giungere subito alle conclusioni. Si potrebbe definire discernimento da sacrestia, o sul sagrato, o alla periferia della chiesa o addirittura da postazioni ostili rispetto ad una cosiddetta chiesa ufficiale.
A volte si leggono anche a grandi titoli, specie sui giornali laici, storie vocazionali clamorose: “dalla passerella delle sfilate di moda alla trappa…”, “dal palcoscenico al monastero…”, “dallo stadio al convento o al seminario…” …e cosi via. E non si tratta sempre e soltanto di un po’ di fumo (sensazionale): sono spesso vicende vocazionali autentiche e valide.
È assolutamente vero che oggi come ieri il Signore chiama dalle situazioni più diverse, senza nessun sconto sulla radicalità evangelica, e anche da situazioni le più periferiche rispetto alle strutture visibili della Chiesa, persino dalle strade contro mano, come fu la strada di Damasco, per un’inversione totale di rotta. Tutto questo sembra non aver nulla o poco a che fare con un cammino ecclesiale, con un discernimento comunitario: è una chiamata di Dio e basta!
Ciascuno di noi, avrà avuto modo di notare questo puntiglioso riferimento che si ripropone costantemente alla dimensione ecclesiale e comunitaria di un cammino vocazionale e del suo discernimento. Si tratta effettivamente di un aspetto essenziale del discorso, che non si può saltare o lasciare unicamente implicito anche dopo le relazioni più splendide e tali sono state nello sviluppo dei particolari elementi del discernimento e accompagnamento vocazionale. Non si può dire subito tutto. Non intendiamo certo sostenere che ogni vocazione per essere autentica deve venir via liscia e pulita dai nostri gruppi ecclesiali, dalle nostre parrocchie, dalle nostre Messe… Tutti questi impianti rimangono comunque un imperativo educativo importantissimo.
La vocazione cristiana è certamente un liberissimo dono dello Spirito che può per così dire esplodere o esplicitarsi nei modi e nei luoghi più diversi… ma il filo più o meno lungo di ogni chiamata è riconducibile alla Chiesa di Gesù Cristo e nella Chiesa va verificata e autenticata. Bisogna mettere lealmente in atto il discernimento comunitario, ascoltando ciò che “lo Spirito dice alla Chiesa”.
Si può dunque distinguere tra il dono della chiamata ed il suo definitivo discernimento (che pure è dono dello Spirito). Il dono della chiamata segue la dinamica del seminatore generoso che sparge la semente su tutti i terreni, a dirla noi, con una buona dose di spreco (“Gaspillage”, diceva Pascal).
Ma il discernimento non può prescindere dalla Chiesa e dal buon terreno, e con il discernimento deve intrecciarsi via via il percorso di uno sviluppo vocazionale che per essere tale deve dirsi ecclesiale o comunitario. Proprio la strada di Damasco può essere emblematica. La vocazione di Saulo nella sua apparente eccezionalità segue perfettamente la dinamica ecclesiale. Sulla via di Damasco Saulo è raggiunto personalmente da Cristo Risorto. Ma già questo incontro non è “extra ecclesiam”: anzi si può dire che su questa stessa strada apparentemente così lontana e così contraria, Saulo fa l’incontro con la vera realtà della Chiesa: “Io sono Gesù che tu perseguiti”: io sono la Chiesa! Saulo stava perseguitando la Chiesa.
Anania poi diventa il tramite per l’esplicito riferimento alla Chiesa e per il discernimento. Anania è il rappresentante della Chiesa che lo inserisce nella Chiesa, lo battezza e gli fa da Padre spirituale per le scelte più immediate. Barnaba farà il resto, la comunità in preghiera ad Antiochia darà voce allo Spirito Santo per la missione a cui è stato destinato. Per non dire di quel confronto sofferto con le “colonne della Chiesa” che Paolo mette in atto per non rischiare di correre invano.
Un ultimo riferimento vocazionale che nella sua eccezionalità viene a confermare la tesi: Charles De Foucauld. È diventato giustamente famoso quell’incontro decisivo presso il confessionale di P. Huvelin. Non era andato per confessarsi in quella chiesa… voleva solo discorrere con quel suo amico, sottoporgli ancora i suoi dubbi… “Confessati, poi discorreremo…” gli dice il prete. Quella confessione, atto ecclesiale di prim’ordine, divenuta l’esperienza della sua reale conversione e vocazione. Charles De Foucauld non ebbe mai il minimo dubbio circa il momento della sua chiamata: egli affermava con assoluta certezza che il momento stesso della sua conversione coincideva con la sua vocazione: una vita radicalmente per Dio. Ed il momento è stata quella confessione.
VIVERE E CRESCERE NELLA CHIESA
Ad una Chiesa per essere capace di accoglienza e di discernimento è richiesto innanzitutto che sia “viva”. La Chiesa Apostolica accoglieva sempre nuovi figli e poteva discernere carismi e ministeri nuovi (vedi, ad esempio, il diaconato) perché era viva: cioè abitata e condotta dallo Spirito di Gesù Risorto.
È indispensabile rifarci a questa condizione di vitalità della Chiesa quando ci poniamo il problema del discernimento. È logicamente un discorso ecclesiologico, è come sviluppare una “nota” della Chiesa: “La Chiesa è una – santa – cattolica – apostolica”, e proprio perché è santa e apostolica… è capace di discernimento. Lo sviluppo della vitalità ecclesiale avviene sempre sulle tre coordinate fondamentali: la Parola – l’Eucaristia – (il Sacramento) – la Carità.
La Parola
La Parola è come il seme che pone le condizioni e le premesse del germoglio. Il discorso non deve ovviamente limitarsi all’astratto o al principio teologico: deve misurarsi nel concreto. S. Ambrogio guardando precisamente a questo tipo di azione nella sua Chiesa di Milano affermava che è necessario “triturare le celesti Scritture fino a rendere la Parola farinosa perché si diffonda in tutte le vene dell’anima dei cristiani”.
È da questa seminagione ed alimentazione assidua che si diffonde una mentalità vocazionale: perché la Parola non può non “provocare vocazionalmente…”: questo è precisamente il suo modo tipico di metabolizzare; la Parola produce chiamata e suscita-sollecita la risposta. Sono note le vocazioni penetrate nel cuore delle persone come un laser irresistibile attraverso la Parola di Dio pronunciata nella Chiesa. Basterebbe richiamarne una fra le tante, come una bandiera: Antonio, il futuro monaco del deserto e padre del monachesimo antico: “Va, vendi quello che hai…”
Ma al di là dell’accadimento eccezionale e folgorante bisogna riconoscere che è proprio la densità della Parola in circolo nelle vene della Chiesa che esprime efficacemente le vocazioni cristiane e le matura. Una Chiesa povera di Parola diventa fatalmente una Chiesa povera di vocazioni o di vocazioni povere (fragili – sottoalimentate).
L’Eucaristia
L’Eucaristia è la forma della vocazione cristiana come lo è fondamentalmente della Chiesa. Certo abbiamo ben presente la riflessione conciliare sull’Eucaristia come culmine e fonte della vita della Chiesa: e ciò va sicuramente ribadito. Dire che l’Eucaristia vissuta è la “forma” significa riconoscere che la vita della Chiesa si struttura sul modello e sullo stampo eucaristico. L’Eucaristia è dono di sé da parte di Cristo: la Chiesa è dono di sé. L’Eucaristia è sacrificio del corpo dato e del sangue versato per amore: la Chiesa è sacrificio. L’Eucaristia è comunione: la Chiesa è comunione. L’Eucaristia è condivisione: la Chiesa è condivisione, servizio, festa. E tutto questo è precisamente la vocazione cristiana: dono di sé, sacrificio, comunione, servizio, festa, segno del Regno. Dunque dall’Eucaristia, la Chiesa ed ogni chiamato prende la sua “forma”.
La Carità
Ugualmente evidente è ciò che si può dire del terzo connotato ecclesiale che è la Carità: è l’espressione, “l’Epifania” della vita nuova in Cristo, assolutamente necessaria. Non c’è Chiesa se non c’è l’espressione della Carità. Non c’è il Vangelo, non c’è l’Eucaristia…, voglio dire non c’è nella storia, se non si sostanzia e non si incarna come carità. Questo è stato modulato a Palermo in tutte le varianti di una grande sinfonia. Lavare i piedi ai fratelli è l’equivalente della stessa Eucaristia (vedi Giovanni), è il risvolto storico della Chiesa che celebra.
Lo stesso va detto di ogni vocazione: lavare i piedi ai fratelli è lo spessore concreto di ogni chiamata cristiana; ogni vocazione è chiamata a lavare i piedi dei fratelli nel nome di Cristo. Sono richiami perfettamente scontati: ma non sempre è così scontato pensare la vocazione in un rapporto così stretto con le 3 dimensioni della vita ecclesiale. Soprattutto non è così scontato di fatto che per verificare, discernere e favorire ogni vocazione cristiana occorra immergere e reimmergere accuratamente ogni cammino vocazionale in queste 3 dimensioni.
Due note finali
Per questo aggiungo anche due note finali che dovrebbero dare al richiamo ancora di più il tono del realismo.
Le condizioni della “fecondità vocazionale”
Che la Comunità dei Credenti rappresenti il “grembo materno” di ogni vocazione è semplicemente una tesi di teologia applicata.
Per questo basta dare uno sguardo alla Chiesa considerata come il “corpo armonioso” di Cristo in cui le membra sono chiamate, secondo il dono ricevuto, a svolgere funzioni diverse e complementari. Basterebbe citare al riguardo i famosi passi paolini di 1Cor 12, 4-27, Rm 12 oppure Ef 4. In quest’ultimo brano troviamo un’aggiunta alla descrizione della fecondità “vocazionale” della Chiesa che riguarda più direttamente il discernimento, decisamente interessante: “Alcuni come Apostoli, altri come Profeti… Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento (Spirito) di dottrina… Al contrario vivendo secondo la verità nella carità (ecco il discernimento comunitario) cerchiamo di crescere in ogni cosa, verso di Lui, che è il Capo, Cristo”.
Che cosa significa questa ecclesiologia applicata sul piano di una concreta storia vocazionale? Se immaginiamo un’esistenza vocazionale come una pianta che spunta, cresce e porta frutto, allora va detto e riconosciuto che “l’humus” su cui germoglia la vocazione cristiana è una comunità viva. Ho citato la Chiesa di Ambrogio nel IV secolo: ricordiamo che quel tipo di Chiesa radicata nella Parola, alimentata da una vita liturgica ammirevole dove Ambrogio ha lasciato certo la sua impronta, e che si esprimeva come minoranza cristiana (i cristiani erano meno della metà nella città), ma come minoranza significativa anche a livello sociale sul piano della carità, era una Chiesa ricca di vocazioni: basti ricordare fra l’altro la presenza molto consistente delle vergini consacrate. Fioriva la vita consacrata.
Era una Chiesa che rappresentava un humus di riferimento anche per i lontani. Basti ricordare un illustre lontano, Agostino, che, respirando sia pure indirettamente ciò che fioriva su quel terreno ha trovato a contatto con quella Chiesa il punto giusto di ignizione per la sua conversione e immediatamente per la sua vocazione monastica.
Se pensiamo alla seconda fase del cammino vocazionale, cioè alla sua espressione e specificazione, non possiamo non riferirci immediatamente alla forza espressiva dei modelli ecclesiali. Lo Spirito agisce nel cuore, ma l’immagine concreta della vocazione la offre la Chiesa stessa e i suoi componenti in cui il chiamato si riconosce per affinità e sintonia di carisma, anche se ogni vocazione non è mai una fotocopia che spegne l’originalità inesauribile dello Spirito e delle Persone.
Questa è la storia evidente di tantissime vocazioni, e anche quando non è evidente, nello scavo profondo di ciascuna non mancano riferimenti vissuti di tipo ecclesiale. In ogni caso proprio a questa viva realtà ecclesiale dovrebbe essere condotta e ricondotta ogni vocazione nel suo sviluppo, in modo che ogni percorso di maturazione vocazionale, anche quando si è già in una casa di formazione rappresenti come una sorta di catecumenato ecclesiale che vada dalla riscoperta del proprio Battesimo, per vivere il proprio modo di incarnare l’Eucaristia.
Va aggiunto che anche il discernimento, in pratica, pur avendo bisogno di un dono personalizzato di consiglio, si avvale di una specie di “sensus ecclesiae”: perché sono gli stessi cristiani vivi che non mancano di riconoscere nei fratelli i segni emergenti di una chiamata. Anche qui mi appello alla storia semplice e vedo che le strade vocazionali di fatto sono disseminate di parole, stimoli, proposte che vengono proprio dalle persone che nella Chiesa stabiliscono delle relazioni significative nella fede: il giudizio vocazionale si compone come un puzzle attraverso i contributi convergenti della stessa comunità.
Non si tratta di un’operazione di tipo esteriore: il disegno si fa soprattutto dentro e necessita di un accompagnamento personalizzato: ma i pezzi utilizzati vengono anche dalla comunità e dalle persone che la compongono (sacerdoti, religiosi, genitori, catechisti, animatori e amici di gruppo, ecc….). Circa poi il frutto vocazionale della pianta nella Chiesa non è il caso di soffermarsi.
Vocazione, comunione, missione
La seconda nota riguarda la “mentalità progettuale evangelica”. Nella storia dei chiamati secondo il dato biblico ciò che balza in primo piano sembra essere a prima vista la Missione: si direbbe che Dio chiami solo per compiere delle imprese.
In realtà ci si rende conto che ogni chiamata fa compiere una missione in se stessi: la prima operazione consiste nel cambiare dentro fino alle radici dell’Essere o fino alla mutazione del Nome, e questa diventa la condizione indispensabile per andare ed operare. Occorre ritrovare dunque questa progressione: vocazione – comunione – missione, per coltivare una vera progettualità evangelica. Una chiesa troppo sbilanciata sull’operare finisce per creare dei funzionari o degli illusi che possono essere presto delusi. Ma il discorso va ripreso a livello del metodo.
LE COMPONENTI DEL DISCERNIMENTO COMUNITARIO
“Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…” (At 15,28). È rimasta giustamente famosa questa formula che caratterizza la prima lettera apostolica (di cui ci riferisce il libro degli Atti), che fa discernimento pastorale sui passi della prima comunità cristiana. Si tratta di un documento collegiale ad alto livello autoritativo e si tratta di “discernimento comunitario”. Lo Spirito Santo è indicato come primo protagonista del discernimento.
Come questo si è reso di fatto possibile e percepibile? Come si è giunti a questa certezza così limpida, in una serie di situazioni non facili, dove non erano mancate né incertezze né divergenze anche nell’ambito del collegio apostolico? Al di là delle modalità esteriori, che possiamo immaginare anche eccezionali e dense di prodigio, come possono sembrare i primi momenti della comunità apostolica, c’è da prendere atto che un tale discernimento spirituale e comunitario è reso possibile da quello “status” di cui si parla nel Convegno di Palermo: uno status che rende possibile l’invocazione dello Spirito. È indubbiamente lo status della Comunione: una Chiesa unita (un cuor solo ed un’anima sola), perseverante ed orante.
Una Chiesa che vive in questa dimensione non è una Chiesa di “oracoli” e nemmeno una Chiesa che non conosce il travaglio sofferto della ricerca, ma è certamente una Comunità cristiana dove ci sono tutte le componenti vive del discernimento e dove si perviene a percepire ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
In concreto per le nostre comunità questo cosa significa? Solo un accenno, da riprendere nella considerazione metodologica. Occorre che la Comunità esista a motivo di Cristo Risorto: senza ambiguità, deviazioni o mescolanze di altro tipo più o meno efficientistico o mondano. Occorre che esista un “soggetto veramente comunitario”, educativo alla fede: non basta il reclutatore o il carismatico isolato.
Ma questo non vuol dire collettivismo: la dimensione personale e diciamo pure individuale è pienamente ritrovata, soprattutto in un rapporto di accompagnamento spirituale. Si tratta piuttosto di una “compresenza” da garantire e da verificare: lo Spirito – la Comunità (soggetto comunitario), i soggetti personali, la guida spirituale con particolare riguardo al Vescovo che ha il compito ultimativo di discernere i carismi nella comunità. Nessuna di queste componenti fa a meno delle altre.
E questo cammino va pensato sia in riferimento al prima, che al durante, che al dopo-discernimento, tenendo conto tuttavia che i confini di questa comunità condotta dallo Spirito non sempre sono così esattamente definibili: c’è anche una presenza ecclesiale invisibile.
A questo proposito aggiungo solo una notazione breve, che riguarda in particolare il “martirio” che è un dato sempre attuale nella Chiesa “Il sangue dei martiri è seme di cristiani” secondo il noto assioma di Tertulliano. Innumerevoli esempi stanno a documentare la verità anche vocazionale di questo assunto. Il martire, testimone per eccellenza, diventa punta emergente dell’iceberg della Chiesa e provoca quella fecondità di attrazione che è tipica della Croce e del Crocifisso, il Martire in assoluto. Basti ricordare il discernimento del Centurione: “Vedendolo spirare in quel modo disse: veramente costui era Figlio di Dio…” (Mc 15,39). O quello delle folle che scendono dal Calvario percuotendosi il petto.
Il martire porta in sé tutta l’attrazione della Chiesa, e questo in certa misura vale anche per l’orante e per il consacrato che diventa segno non solo per la Chiesa ma anche per il mondo. Infine non va dimenticato che il primo, anche se non l’unico imperativo vocazionale è di tipo, per così dire, invisibile. Non si dice nel Vangelo innanzitutto: “organizzate l’animazione vocazionale, preparate itinerari e organismi di discernimento”. Si dice innanzitutto: “pregate il Padrone della messe perché mandi operai nella sua messe…”. I legami tra questa preghiera e le vocazioni sono in gran parte invisibili. Ricordiamo al riguardo la splendida figura di orante missionaria che è Teresa di Lisieux.
METODOLOGIA DEL DISCERNIMENTO COMUNITARIO
Senza pretendere ovviamente di tracciare le linee di un “direttorio” metodologico, possiamo ospitare nel nostro immaginario pastorale, mentre svolgiamo quest’ultima riflessione, una concreta struttura di lavoro vocazionale:
La parrocchia, il gruppo giovanile, la casa di accoglienza spirituale o di formazione… naturalmente con gli opportuni adattamenti applicativi che non mutano la sostanza. A fondamento di un servizio vocazionale di questo tipo è da collocare quel respiro di invocazione dello Spirito che sta ad indicare sinteticamente quello “status” di cui si è detto ripetutamente. A motivo di Gesù Cristo, dunque sul fondamento di Gesù Risorto garantito da una comunione ricercata, ravvivata, vissuta, sofferta e rilanciata di continuo. Un cenacolo dunque, senza pretese perfezioniste o escatologiche, un cenacolo consapevole anche dei propri limiti, paure e dei propri peccati, ma che può invocare lo Spirito e dove sicuramente lo Spirito si esprime.
Questa comunione, e di conseguenza questo “status”, in tutta umiltà, ma anche con tutta chiarezza e forza, va considerato più che un punto di arrivo, o una latenza sottintesa, piuttosto come un punto di partenza. Senza questo fondamento, infatti, si costruisce sulla sabbia; sulle sabbie mobili (e si può costruire anche molto!), o si corre invano.
Con mentalità comunionale
La pastorale vocazionale unitaria (così detta), è un cardine fondamentale che i Vescovi italiani stabiliscono per il piano vocazionale come il frutto più immediato del Concilio. E tradotto in parole povere è questo: a tutti nella Chiesa stanno a cuore tutte le vocazioni.
Ora questo non è solo un principio di tolleranza, nel senso che gli Istituti non si fanno guerra ma accettano pacificamente una compresenza sul campo. Significa molto di più: significa che la vocazione legata ad un altro carisma mi sta a cuore come la mia ed insieme collaboro perché sboccino tutte le vocazioni e tutte arrivino alla loro maturazione.
È questione di mentalità. Ognuno vede come una tale mentalità non sia solo in funzione di una spartizione caritatevole dell’universo vocazionale, ma sia una condizione indispensabile per la libertà nel discernimento e dunque per la verità. Il cammino unitario a servizio della verità.
Ciò non significa che il Seminario non debba coltivare dei cammini vocazionali in ordine al Seminario, che i religiosi e le religiose non debbano fare altrettanto attorno al proprio Istituto e carisma…, ma ognuno sa di operare nella Chiesa e per la Chiesa. Inoltre questa comunione di intenti non solo va dichiarata, ma deve trovare anche i modi concreti di esprimersi in momenti di condivisione e di collaborazione, primo dei quali la preghiera. Per una tale impostazione comunionale opera il servizio del CDV.
A servizio di tutti
Il n. 6 della “Presbiterorum Ordinis” descrivendo il ministero presbiterale lo definisce come un servizio al progetto vocazionale di ogni cristiano:
“Spetta ai sacerdoti, nella loro qualità di educatori nella fede di curare, per proprio conto o per mezzo di altri, che ciascuno dei fedeli sia condotto dallo Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione specifica secondo il Vangelo, a praticare una carità sincera e operosa, ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati”.
Trovo questo passo fortemente significativo per il discernimento comunitario. È un modo di vedere e impostare tutta la pastorale. Ciò che si dice del prete, vale analogamente per ogni educatore nella fede. Ne deriva una metodologia pastorale decisamente centrata sul discernimento comunitario e protesa al servizio personalizzato e differenziato, a partire dai presbiteri in comunione con il Vescovo. Tutti centrati sul discernimento e il progetto vocazionale di tutti.
La Direzione Spirituale
Ma non è tanto sull’azione in sé della direzione spirituale che qui va l’accento, perché di questo si occupano altre riflessioni più specifiche. Qui i verbi sono richiamati per mettere in relazione l’accompagnamento spirituale, che è un rapporto individuale, con il tessuto comunitario e oggettivo per un completo discernimento ecclesiale. Correlazione comunitaria. I verbi vanno letti in coppia: sono 4 coppie di verbi e di azioni che vanno più o meno dal soggettivo all’oggettivo e al comunitario.
– C’è tempo per “ascoltare” e tempo per “parlare” sino alla formulazione della proposta vocazionale (io non credo che non si debba mai proporre…). Questo tipo di ascolto e questo tipo di proposta che matura in un contesto ecclesiale, come si è detto, deve assolvere al compito di far uscire dal privato il progetto cristiano e ancor prima dall’ambito puramente velleitario. È un vero servizio al singolo che lo assicura realisticamente alla sfera concreta del reale, cioè dell’ecclesiale.
– “Accogliere e coltivare”: è il contrario dell’attendismo intimistico e miracolistico: “Se son rose fioriranno, fioriranno da sé, in modo automatico e dall’alto, stando tu passivamente nel tuo angolino ad attendere”. La guida spirituale deve assumere i germi vocazionali e aprirli al sole e all’aria del campo che è la Chiesa per il Regno di Dio, perché se son rose possano effettivamente fiorire.
– “Oggettivare e sperimentare”: è un servizio prezioso e umile. Occorre normalmente compiere un tragitto per passare da ciò che è eccessivamente imbozzolato nel soggettivo, magari anche sotto l’influsso di un particolare dono o di una esperienza spirituale forte, ma ancora isolata, all’oggettivo della fede, della Chiesa, della completezza ed insieme della semplicità della vita cristiana. E questo a costo di deludere attese eccessivamente cariche di particolarismi emotivi. (Si veda la reazione di delusione di Naaman il Siro nei confronti del profeta Eliseo in 2 Re 5). L’oggettivazione della mente deve accompagnarsi anche con la presa di coscienza esteriore nel fare concretamente esperienza di Chiesa. E deve infine consistere nel presentare l’oggettività dei vari stati di vita e delle vocazioni cristiane.
– “Discernere e affidare”: lo intendo soprattutto in rapporto allo Spirito Santo. Il discernimento al di là delle prime grandi intuizioni, è poi sempre un cammino a piccoli passi: occorre sapere dove mettere il piede, ma occorre anche metterlo subito perché è in questo sporgersi nello Spirito che si comprende il passo successivo.
“Ecclesia Mater”: concretezza di amore e urgenza del Regno
Questo richiamo, collocato al termine di una considerazione metodologica vuole essere appunto una sottolineatura metodologica. Circa la verità della fecondità della Chiesa che è Madre, che è la Madre Chiesa perché vive la Parola, l’Eucaristia, la Carità… perché accoglie o discerne i doni dello Spirito e vive nella ricchezza e nell’armonia carismi e ministeri, si è già detto. Sotto l’aspetto metodologico questa maternità della Chiesa si traduce in premura e concretezza.
“Il tempo si è fatto breve”, dice S. Paolo all’interno di una Chiesa protesa verso il Regno: e questo non è senza conseguenze sul piano vocazionale. Il cap. 7 della 1 Cor fa discernimento vocazionale e puntualizza il pensiero di Cristo e della Chiesa a proposito di matrimonio e verginità, accentuando una spinta al definitivo a cui urgentemente siamo tutti chiamati. “Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo chi in un altro”. Poi il famoso passaggio: “Io vi dico fratelli, il tempo si è fatto breve: d’ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; quelli che piangono come se non piangessero… io vorrei vedervi senza preoccupazioni”, che tradotto significa: “tutti con una preoccupazione fondamentale: piacere a Dio” (cfr. Rm 12,2).
Questo sul piano metodologico-educativo in ordine alla vocazione significa promuovere alla centralità di Dio per tutti, alla ricerca della sua volontà, alla destinazione per il Regno di Dio. Con premura e urgenza. La fondamentale vocazione da discernere subito, nel presente con premura e concretezza è questa: “Metti Dio al centro della tua vita e vivi oggi la sua volontà perché venga il Regno di Dio”.
Questo è assolutamente urgente: non c’è da aspettare che tu capisca quella che è la tua collocazione nella Chiesa, il tuo stato di vita. È su questa strada che occorre imparare a camminare speditamente per leggere anche tutti gli altri segni. Nella comprensione successiva poi la stessa premura concreta ti deve portare a fare subito dei passi concreti, sia pure graduali.
Perché anche per questo vale quell’“ormai il tempo si è fatto breve…”. Anche dopo che hai scelto rispondendo alla tua vocazione specifica, l’animo che deve sospingerti dovrà essere sempre questo: Dio al centro della tua vita, la volontà di Dio, l’essere proteso al Regno.
Una vocazione anche molto viva finisce per avvizzire se si chiude in una sorta di spazio corporativo e si esaurisce dentro una dinamica particolaristica. Paradossalmente anche un prete o un consacrato di fatto potrebbe sorprendersi ateo, idolatra, o quantomeno tiepido e disinteressato alla Chiesa e al Regno di Dio.
“Gloria Dei”: gli orizzonti lunghi e definitivi
Mi riferisco evidentemente al famoso e splendido detto di S. Ireneo: “Gloria Dei vivens homo, vita autem vera visio Dei”. Qui c’è un mirabile intreccio e un rimando speculare tra Dio e l’uomo: la Gloria di Dio è l’uomo che vive; ma la vita dell’uomo è la visione di Dio.
Questa bellissima sintesi breve della totalità dà un respiro grande alla vicenda umana e dunque alla sua vocazione: parlo di orizzonti lunghi e definitivi. E certamente questa nota si collega alla precedente e contribuisce a mio avviso a illuminare il senso pieno del discernimento comunitario. Insomma Dio è per te: tu sei chiamato ad essere una manifestazione della sua Gloria.
E sappiamo che in termini biblici la gloria è lo spessore percepibile di Dio nel mondo: come la nube nel Tempio, come altre forme di teofanie…, il lembo del suo mantello, un riflesso della sua bellezza, nel concreto: questo è l’uomo per vocazione, nei disegni di Dio. Per usare una parola di S. Teresa d’Avila: l’uomo è il cielo di Dio: Dio abita in lui. Per questo Dio impegna tutta la creazione, tutta l’Incarnazione, tutta la Redenzione, tutta la Chiesa… Questo è il respiro della vocazione. Siamo bene al di là di quella visione asmatica della vocazione come pacchetto preconfezionato che esige a tutti i costi che tu faccia una cosa che di solito non ti piace, anziché un’altra…
Dio, tutto Dio è per te! Per contro la vera vita dell’uomo non consiste in un acido ripiegamento sui beni ricevuti ma in un’apertura sempre più piena verso Dio: un giorno sarà la visione di Dio, faccia a faccia. In questo cammino di avvicinamento la visione di Dio è il dono di sé per amore di Cristo nella Chiesa. Nessuno vede ancora Dio, ma chi ama passa dalla morte alla vita. Non vedo di meglio che concludere citando dal vivo un brano di Teresa di Lisieux:
Da quando è stato concesso, anche a me, di comprendere l’amore del cuore di Gesù, confesso che l’amore ha cacciato dal mio cuore ogni timore! Vi sono molte dimore nella casa del Padre mio: Gesù l’ha detto e io segno la via tracciatami da Lui. Se qualcuno è piccolissimo venga a me. Allora sono venuta pensando di aver trovato quello che cercavo… Capii che la Chiesa ha un cuore e che questo cuore arde d’amore. Capii che l’amore racchiude tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che abbraccia tutti i tempi. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa. Nel cuore della Chiesa, mia Madre, io sarò l’amore.