Nella vocazione all’amore prendono vita tutte le vocazioni personali
L’affermazione di Giovanni che Dio è amore, da cui consegue l’esortazione ad amarsi gli uni gli altri, costituisce il culmine della rivelazione e l’essenza del cristianesimo. Il lieto messaggio è questo: che ci amiamo l’un l’altro: “La carità soltanto distingue i figli di Dio dai figli del diavolo. Si segnino pur tutti col segno della croce di Cristo, rispondano tutti ‘amen’ e cantino ‘alleluia – alleluia’, ricevano il battesimo, entrino in Chiesa, costruiscano basiliche; non si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo, se non per la carità. Coloro che hanno la carità sono nati da Dio, coloro che non l’hanno non sono nati da Dio. Grande criterio discriminatorio. Abbi pure tutto, se ti manca solo questo, nulla ti giova. Se non hai altro, abbi questo ed hai adempiuto la legge” (S. Agostino, Comm. 1 Gv. V, 7). L’amore ai fratelli è garanzia che siamo passati da morte a vita (v. 14; cfr. Gv 5, 24), perché ci dà la certezza che siamo uniti a Dio; chi non ama invece rimane nella morte. Chi odia uccide, e l’omicida non ha il germe divino dimorante in sé (cfr. Gal 5,19 ss.), cioè la vita eterna nella sua dimensione non solo escatologica, ma già attuale nel cuore del giusto (v. 15). Noi conosciamo per esperienza l’amore da ciò: Cristo ha sacrificato per noi la sua vita (v. 16; cfr. Gv. 10, 11 ss.; 13, 1) e nessuno può avere amore più grande che di dare la vita per i suoi amici (Gv 15, 13). Così, come il nostro maestro, dobbiamo anche noi, chiamati a tempo pieno alla sua sequela, sacrificare le nostre vite per i fratelli.
Ed ecco le conseguenze dell’amore del prossimo: la coscienza di essere nella verità (vv. 19-20); anche se il nostro cuore ci può rimproverare qualche cosa, lo rassicureremo davanti a Dio, che scruta reni e cuori (Sal 7, 10): Dio infatti è più grande del nostro cuore e conosce tutto; l’amore ai fratelli ci dà la sicurezza di essere figli di Dio e uniti a Cristo, che è la stessa verità (cfr. Gv 14, 16); ed inoltre la certezza di ottenere tutto quanto chiederemo (vv. 21-22); se il nostro cuore non ci rimprovera, abbiamo fiducia in Dio e riceviamo tutto ciò che cerchiamo, secondo la promessa di Gesù che il Padre avrebbe esaudito i suoi (cfr. Gv 14, 13 ss.; 15, 17; 16, 23 ss.).
L’amore è il Dio incarnato nel Cristo
Venuto a noi per essere l’Emmanuele, il Dio-con-noi che “evangelizza i poveri e guarisce i contriti di cuore, annunzia la libertà ai prigionieri, restituisce la vista ai ciechi, rende liberi gli oppressi” (Lc 4, 18), Gesù riafferma l’unione dei due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo (Mc 12, 28 ss. par.; 18, 23-35; Mt 25, 31-46). L’amore per Dio si incarna, si manifesta, si concretizza nell’amore all’uomo. Ora l’uomo, immagine di Dio, si realizza come persona nella responsabilità autonoma e libera del suo essere. La carità è scoperta della dimensione ontologica della persona e rispetto della sua autonomia e della sua libertà.
Ciò vale nella dimensione dei singoli e in quella sociale; la carità non è beneficenza, e non è dovere, entrambi espressioni di un astratto imperativo che risuonerebbe, al di fuori di noi, come qualcosa di estraneo a cui l’uomo tenterebbe di pareggiarsi; la carità è Cristo stesso, che si presenta, si offre, si dona come amico: “non vi chiamo più servi …ma amici” (Gv. 15, 15). Amicizia è avvicinarsi agli altri, partecipare alla loro vita, offrirsi loro riconoscendoli come persone, facendoli uscire dall’anonimo, amandoli uno ad uno, singolarmente.
L’amore vero costruisce, edifica, crea le persone: perché le situa al loro posto giusto, e si pone nel loro riguardi in una posizione armonica, che non è superiorità‚ inferiorità; servizio d’amore, e quindi comunione; – scoperta e custodia di un valore che – insieme mio e dell’altro, e che reciprocamente dobbiamo conservare e alimentare, approfondire e dilatare; che dobbiamo veder nascere e gustare insieme con la trepidazione amorosa di chi incrementa un valore sacro che lo trascende e pure esige per crescere tutta la nostra concreta realizzazione umana.
Questo è passare dalla morte alla vita, uscire dalla prigione dell’io ed entrare nell’avventuroso cammino che attraverso gli uomini, porta a Dio; ma prima ancora conduce ad essere veramente uomini, e non si giunge a Dio se non attraverso una piena, viva umanità. Ognuno di noi ha bisogno, un bisogno fondamentale come la fame d’amore costitutiva del nostro essere, di tutti i fratelli; ognuno di noi ha da farsi perdonare qualche cosa che soltanto l’integrazione con essi sminuisce: i limiti di ogni genere che ci costituiscono, nell’incontro con gli altri vengono meno; la prima donazione, nel donarci agli altri, la compiamo verso noi stessi, perché non c’è incontro col fratello che non ci arricchisca di umanità, non ci segni col sigillo vivo che egli imprime in noi se lo avviciniamo nell’amore.
Bisogna avere un senso profondo della ricchezza della vita per vivere la carità, e quindi bisogna che la fonte della vita (Sal 36, 10) ci irrori in modo sovrabbondante perché ci offriamo agli altri con interezza e generosità, nella libertà vera dell’amore. Bisogna che la sua infinita meraviglia continui a sfolgorare davanti ai nostri occhi, perché possiamo riconoscerla nei fratelli anche dove lo squallore, la miserabilità, la sordidezza dell’apparenza la nascondono del tutto al nostro sguardo. La carità ci distende, ci libera, ci fa più uomini. Ci rende creatori – l’infinita inventiva dell’amore – perché ci fa dare la vita, come Cristo: da questo abbiamo conosciuto l’amore: che egli ha dato la sua vita per noi. Diventando nostro, entrando nella nostra storia, nella vicenda di ognuno e di tutti, Dio, attraverso Cristo, ci ha reso per sempre possibile la ricostituzione di quell’interezza d’amore che è lui stesso: mediante la carità noi cooperiamo alla continua incarnazione di Cristo, e insieme entriamo nella unità primordiale, metafisica di Dio.
Chi non ama rimane nella morte; chiuso in sé, soffocato, uccide la vita: omicida in tanti modi, di cui l’uccisione cruenta costituisce soltanto un’espressione evidente; ci sono molte maniere per far morire i fratelli, e tutti sappiamo purtroppo quanti delitti possiamo compiere non amando.
L’amore ai fratelli nasce dall’amore al figlio di Dio
Pietro, Paolo, gli apostoli, i martiri, i fondatori e le fondatrici di ordini e congregazioni religiose, ogni giovane uomo e ogni giovane donna, appartenenti a razze e popolazioni diverse, tutti hanno risposto sì all’invito di Cristo amatevi come io vi ho amato (Gv 15,12) e hanno dato la propria vita per i fratelli. La chiamata di Gesù a Filippo è brevissima – seguimi – una parola sola. Parola di Gesù. Parola irresistibile. Parola sommessa e umile. Imperiosa e coinvolgente. Ti lascia a te stesso e ti strappa al tuo modo di essere. Non ti toglie la libertà e ti coinvolge: con strappo doloroso e gioioso insieme. “Seguimi”: è lampo improvviso che lacera una situazione di incertezza. È folgorazione subitanea, che apre prospettiva impensata e impensabile. “Seguimi”: è comando repentino. Si comanda una cosa del genere? Sì! Se non fosse comandata, nessuno presumerebbe l’ardimento di intraprenderla. Ma la chiamata alla vita di consacrazione è insieme libertà e impero. La voce non ha alcuna costrizione, ma possiede tutta la persuasione. Se ti afferra di dentro, difficilmente te ne libererai. Tua libertà sarà la sequela. E tuo impegno la libertà dello spirito. “Seguimi”: e la voce si perde. Pochi la raccolgono. Alcuni la temono. Altri la evadono. Le responsabilità così si delineano e si aggravano. Ma il Signore chiama sempre. Finché l’uomo aprirà il cuore. La chiamata è come grano che cade nel terreno. Germoglierà.
La radice dell’ amore costruttivo donativo e creatore, che ci dà la vita, che ci nutre di essere e c’inonda di gioia nell’apprensione continua e nuova della realtà, è Gesù di Nazaret riconosciuto come figlio di Dio. La morte dell’amore è la mancanza di stupore, di scoperta, di fecondità in cui cadiamo non appena, invece del mistero che costituisce l’essenza di ogni creatura, vediamo una serie di atteggiamenti estremi, che troviamo privi d’interesse e di vita. Ma il mistero della persona si radica in quello del figlio dell’uomo che è insieme figlio di Dio. Dobbiamo andare a vedere Gesù con lo sguardo attento e sincero di Natanaele, l’uomo onesto e retto che cerca, che è disposto all’incontro, aperto alla fede. La capacità di ammirazione, e quindi di amore, è alla base di ogni profonda gioia della vita, perché nasce da Dio, la sorgente di ogni ammirazione, l’amore stesso (1 Gv 4, 8).
Abbiamo bisogno di credere nell’uomo per amarlo, e la fiducia nell’uomo consegue alla fede in Dio: solo se l’incarnazione ci risulta in un’esperienza vitale possiamo ritrovare nelle creature l’inesauribile opulenza del creatore, e liberare l’umano dal suo limite per coglierlo e valorizzarlo nella sua positività fondamentale, che deriva dall’incarnazione di Cristo. Il fine dell’incarnazione non è soltanto la possibilità per l’uomo di raggiungere Dio (1 Gv 5, 20), ma di amare i fratelli (1 Gv 4, 10 ss.).
Non dobbiamo cercare Dio per evadere dal mondo ma per entrarvi più a fondo; non per uscire dalla storia, ma per farla in realtà. Vedere nel “Figlio di Giuseppe” il figlio di Dio non è fine a se stesso; è per ritrovare nei fratelli colui che “ha dato la sua vita per noi” e per loro; è ripetere il suo gesto di donazione “non a parole né con la lingua, ma a fatti e nella verità”. Il figlio di Dio che Natanaele riconosce nel figlio di Giuseppe non annulla il figlio dell’uomo, lo potenzia: l’umanità, ad opera dell’incarnazione, ha acquisito una ricchezza e una pienezza che la rendono inesprimibilmente densa e feconda: i nostri orizzonti di creature sono spalancati a prospettive illimitate, e possiamo sprofondarci nell’umanità, nell’inebriante certezza di attingervi la gloria di Dio.
Lo sguardo diritto e limpido di Natanaele che vede Dio nell’uomo Gesù è poi quello amoroso e penetrante che vede nei fratelli i figli di Dio. Solo abituandoci a guardare Cristo possiamo guardare negli occhi i fratelli con intensità d’amore e con l’audacia e la libertà consentiteci da lui; solo vedendo questo Gesù di Nazaret nella sua dimensione umana e divina acquistiamo quella interezza di umanità, quel calore forte e vivo, spoglio e ardente, che ci riempie di interesse per ogni uomo, ci fa superare tutti i limiti formali di classi, di educazioni, di strutture, e avvicinare ognuno con l’immediata semplicità dell’amore. Questo è nascere, ricevere la vita, acquistare Cristo che è tutto movimento, cammino e donazione. È diventare liberi, “professare la verità nella carità” (Ef 4, 15), farci creatori di noi e degli altri partecipando alla continua creazione dell’umano che Dio opera in noi mediante Cristo.
Conclusione
Potremmo dire, in sintesi, che nelle dimensioni della comunione ecclesiale, del servizio della carità e della testimonianza del Vangelo si condensa la condizione esistenziale d’ogni credente. Questa è la sua dignità e la sua vocazione fondamentale ma è anche la condizione perché ognuno possa scoprire la sua peculiare identità. Ogni credente, dunque, deve vivere il comune evento della comunione fraterna, del servizio caritativo e dell’annuncio del Vangelo, perché solo attraverso tale esperienza globale potrà identificare nel suo particolare modo di vivere queste stesse dimensioni dell’essere cristiano. Di conseguenza, questi itinerari ecclesiali vanno privilegiati, rappresentano un po’ la strada maestra della pastorale vocazionale, grazie alla quale può svelarsi il mistero della vocazione di ognuno.
Sono peraltro itinerari classici, che appartengono alla vita stessa d’ ogni comunità che voglia dirsi cristiana e ne rivelano al tempo stesso la solidità o precarietà. Proprio per questo non solo rappresentano una via obbligata, ma soprattutto offrono garanzia all’autenticità della ricerca e del discernimento. Queste dimensioni e funzioni, infatti, da un lato provocano un coinvolgimento globale del soggetto, dall’altro lo portano alle soglie d’una esperienza molto personale, d’un confronto stringente, d’un appello impossibile da ignorare, d’una decisione da prendere, che non si può tramandare all’infinito. Per questo la pastorale vocazionale dovrà espressamente aiutare a fare opera di rilevamento attraverso un’esperienza profondamente e globalmente ecclesiale, che conduca ogni credente alla scoperta e assunzione della propria responsabilità nella Chiesa. Le vocazioni che non nascono da quest’esperienza dell’amore e da questo inserimento nell’azione comunitaria ecclesiale rischiano di essere viziate alla radice e di dubbia autenticità. Le nuove vocazioni per un nuovo millennio – tema di questo convegno – richiamano il secondo “Congresso continentale per le Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata” che ha segnato un singolare momento di grazia e di comunione per la Chiesa che è in Europa.
L’incontro tra i diversi carismi e soprattutto lo scambio delle diverse esperienze e delle fatiche in atto, in campo vocazionale, nelle Chiese dell’Est e dell’Ovest sono stati un vero evento dello Spirito Santo, che ha dato nuovo vigore alla pastorale delle vocazioni nelle nostre Chiese. Una domanda è più volte affiorata durante quei giorni: “È possibile oggi, in questa curva di storia, avere speranza in un futuro più promettente e più ricco di doni dello Spirito?” Siamo convinti che la speranza sia la virtù d’obbligo per quest’ora della storia, all’inizio del terzo millennio; è necessaria per affrontare e attraversare positivamente questa stagione che si qualifica come tempo di crisi. Essa ci fa guardare oltre con fiducia creativa e non con animo rassegnato o rinunciatario.
In questo tempo pesa sulle nostre spalle una duplice grave sproporzione: da una parte, quella tra la posta in gioco della nuova evangelizzazione, in un contesto europeo che si caratterizza come post-cristiano, e la scarsità numerica degli evangelizzatori. Ritorna sorprendentemente attuale la scena evocata dal Vangelo di Matteo: “La messe è molta ma gli operai sono pochi” (Mt 9,37). Dall’altra, si tocca con mano la sproporzione tra la fatica profusa e la povertà dei risultati. Anche sulla bocca di molti pastori, consacrati ed educatori, viene spontanea l’espressione dei discepoli di Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5,5). Tutto ciò non manca di provocare scoraggiamento e talora persino tristezza di fronte ad un difficile futuro, soprattutto in non poche comunità di vita consacrata che non vedono prospettive di ripresa. La speranza è possibile e può restituire vigore al diffuso e crescente impegno al servizio della pastorale vocazionale. La speranza si fonda soprattutto sulla certezza che in ogni vocazione c’è un primato assoluto ed efficace di Dio, il quale è all’opera anche in tempi difficili, e resta il Signore della vita e della storia. Anche oggi può rinnovarsi il miracolo evangelico dei pani per le folle affamate. Ma pure oggi, come un tempo, Gesù non accetta il disimpegno dei discepoli, quasi una sorta di disarmo o di soluzione sbrigativa, come il rimando della gente perché ciascuno provveda a se stesso. Gesù prepara il miracolo coinvolgendo i discepoli: “Date voi stessi da mangiare” (Lc 9,13). Cinque pani e due pesci sono poco, ma sono tutto.