Il salto di qualità dell’animatore vocazionale: un formatore di vocazioni con un metodo collaudato di accompagnamento
Educare è un atto educativo fondamentale della comunità cristiana, ha come oggetto la proposta, esplicita e tematica, dell’evangelo del Signore, per sollecitare alla sua accoglienza, come unico e fondamentale evento di salvezza.
L’EDUCAZIONE È COSA DEL CUORE
L’educazione alla fede si realizza attraverso l’unico linguaggio, l’unica struttura comunicativa che può dire la fede, la testimonianza: testimonianza della fede vissuta, celebrata, confessata dalla comunità cristiana, dalla famiglia, da coloro che a nome della comunità, sono messi accanto a coloro che debbono essere educati alla vita di fede, i catechisti, gli educatori. Si educa alla fede attraverso la testimonianza di fede e pertanto l’azione educativa non è mai atto puramente esteriore dell’educatore ma espressione di tutta la sua personalità cristiana. Tutta la sua persona è coinvolta in questo servizio educativo ecclesiale a partire dal suo cuore perché l’educazione alla fede è principalmente cosa del cuore.
Se educare è “suscitare persone”, è permettere all’uomo di accedere alla sua umanità, è introduzione al reale, a tutto il reale come può essere artefice di questa grandissima opera colui che la vive schizzofrenicamente, avendo in sé una dissociazione fra ciò che crede e ciò che insegna, che compie, che testimonia? Ora “educare con il cuore” non significa un’educazione basata sul lassismo e sul permissivismo. Non si tratta di “lasciar fare” ma di “lasciar essere”; non significa cadere in un “puerocentrismo” narcisistico, non significa cadere in una contemplazione sciocca del giovane e neppure vuol dire vivere una relazione pseudoparitaria dove l’educatore vuole essere l’amicone dei ragazzi e si mette in tutto al loro livello pur di farli sentire a loro agio, perché l’educazione avviene quando c’è un vero incontro tra la memoria e la novità, tra l’adulto e il giovane. Ora educare con il cuore è essere convinti che in ogni giovane, anche nel più disgraziato, esiste “un punto accessibile al bene”, che l’educatore deve cercare di trovare.
Educare con il cuore è avere fiducia nel giovane, sempre. È collocare al centro, dal punto di vista metodologico, l’amorevolezza che non è solo sentimento umano né solo carità soprannaturale: essa esprime una realtà complessa sostanziata da atteggiamenti, sentimenti, relazioni e condotte caratteristici. È dolcezza e carità che si esprime anzitutto nel rispetto verso la persona del giovane, specialmente quando si tratta di proporre loro valori importanti come quelli etici e religiosi. Affermava a questo proposito Don Bosco: Non mai annoiare né obbligare i giovanetti alla frequenza dei santi sacramenti, ma porgere loro la comodità di approfittarne (Scritti 168).
L’amorevolezza dell’educatore si manifesta ancora in una sua disponibilità ad essere sempre presente in mezzo ai ragazzi, disposto a qualsiasi sacrificio pur di riuscire nel suo impegno. L’amorevolezza poi non si cela ma con semplicità si manifesta. Scriveva Don Bosco nella “Lettera da Roma del 10.5.1884”: È necessario che i giovani non solo siano amati, ma che essi conoscano di essere amati (…) che essendo amati in quelle cose che loro piacciono col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino a vedere l’amore in quelle cose che naturalmente le piacciono poco; quali sono la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi e queste cose imparino a far con amore (Scritti 294).
Perciò l’educatore deve essere solidale con il mondo degli interessi, problemi e attività giovanili, ma senza rinunciare al suo compito, di persona adulta e matura, capace di proporre obiettivi ragionevoli, di dialogare, di stimolare iniziative valide, di correggere con amorevole fermezza condotte riprovevoli. In questa prospettiva sono chiaramente privilegiate le relazioni personali. È principalmente attraverso di esse che il giovane percepisce l’educatore quale “un padre, un fratello, un amico” che gli vuole sinceramente e concretamente bene.
Raccomandava a questo proposito Don Bosco (Scritti 79): Studia di farti amare prima di farti temere. La carità, la pazienza ti accompagnino costantemente nel comandare, nel correggere, e fa in modo che ognuno, dai tuoi fatti e dalle tue parole, conosca che tu cerchi il bene delle anime. È pertanto “educare con il cuore” amare in modo gratuito, amare per primo, amare ciascuno, amare senza possedere, amare per far amare Dio. Se l’educazione è cosa del cuore e i tratti distintivi dell’educatore sono la sua amorevolezza, la fiducia, l’attenzione alla singola persona, si comprende subito che l’azione educativa non può essere massificante ma personale e quindi attenta ai singoli soggetti.
PRINCIPI E OPZIONI PEDAGOGICHE
È alla luce di questa ben radicata consapevolezza che la azione educativa dovrà essere ispirata ai seguenti principi pedagogici.
Principio di interiorizzazione
Il giovane deve essere aiutato ad assimilare e a fare propria una scala di valori quale suo permanente equipaggiamento personale interiore: il limitarsi ad una semplice informazione o ad una pura imposizione dall’esterno non costituisce educazione: il giovane infatti cresce dal di dentro.
Principio di personalizzazione
Il termine ultimo dell’educazione è dato dallo sviluppo armonico del soggetto in linea con la sua dignità di persona. L’opera educativa perciò, mette in luce questa dignità, la rispetta con impegno scrupoloso e tende a destarne e rafforzarne il senso. Viene pertanto esclusa qualsiasi forma di strumentalizzazione: la persona è fine, mai mezzo. Tale principio richiama pure la scelta dell’individualizzazione che intende rispettare e valorizzare la singolarità e l’irripetibilità della persona del giovane.
Principio di autonomia
L’educatore deve intervenire in modo tale da rendere ogni giorno meno necessaria la propria presenza, e così favorire sempre più nel giovane la graduale capacità di proseguire da solo il cammino dell’autorealizzazione. Il cammino educativo esclude atteggiamenti possessivi o di tutela eccessiva. E la prima e principale opzione pedagogica sarà :
Il protagonismo dei giovani
Esclude tutte le concezioni che in modo esplicito o implicito presentano il giovane puramente come oggetto, come recettore, essere passivo, capace solo di ricevere e non di dare. Coglie il giovane come soggetto attivo, dotato di creatività, capace di donarsi, portatore di novità, chiamato a parlare, agire e partecipare in prima persona alla propria realizzazione che diverrà quindi autorealizzazione. Domanda che venga in lui continuamente destata la coscienza personale mediante un permanente appello alla libertà, responsabilità e originalità, all’interno di esperienze vive fatte a sua misura.
Alla luce di quest’ultime affermazioni diviene ovvio allora affermare che è necessario mettere sempre al centro dell’azione educativa la persona del giovane e che non è sufficiente un’azione educativa solo comunitaria, solo in gruppo, solo attenta all’insieme. È necessario un intervento educativo personalizzato nel gruppo e fuori del gruppo. Occorre che ogni singolo giovane sia aiutato, sorretto, accompagnato personalmente perché ognuno ha la propria andatura e il Signore non vuole che sia lasciato indietro nessuno.
L’EDUCAZIONE È UN GIOCO DI SQUADRA
Non c’è educazione se ogni giovane non è protagonista del proprio processo di educazione alla fede. Afferma il Papa nella Christifideles laici (n. 63): Nell’opera formativa alcune convinzioni si rivelano particolarmente necessarie e feconde. La convinzione, anzitutto, che non si dà formazione vera ed efficace se ciascuno non si assume e non sviluppa da se stesso la responsabilità della formazione: questa, infatti, si configura essenzialmente come “auto-formazione”.
Questa esigenza imprescindibile dell’educazione e in specifico dell’opera formativa cristiana chiama in causa tutti i soggetti che nell’azione educativa si relazionano con i ragazzi. Dipenderà infatti dai vari educatori (genitori, comunità cristiana e per essa sacerdote, catechisti, ecc.), se il giovane rimarrà in un ruolo passivo o se diverrà con loro l’artefice della sua formazione intuendone le motivazioni e radicandola quindi nella sua persona. In altre parole potremo dire che il giovane diverrà protagonista vero della sua educazione se i vari educatori avranno saputo avviare con ciascun fanciullo una relazione specifica e significativa.
A quest’ultimo proposito il pedagogista C. Nanni sostiene: Rispetto alla socializzazione e l’inculturazione, che spesso avvengono e si attuano in forma quasi automatica e anonima, nel diretto rapporto con l’ambiente e nel vissuto dell’esperienza sociale, l’educazione si specifica per il fatto di risultare da una relazione interpersonale specifica. Essa si realizza all’interno di un rapporto tra persone, e i suoi risultati dipendono oltre che dai partners del rapporto, dai contenuti, dai modi e dalla qualità della relazione stessa e dei processi di comunicazione che in essa si instaurano o la tengono in vita.
Una relazione interpersonale specifica, ricca e metodologicamente corretta è quindi presupposto indispensabile perché il giovane divenga protagonista del suo cammino formativo. Non è da credere che il giovane subito, dall’inizio di questa relazione interpersonale specifica, passi immediatamente dalla passività all’attività: è questa una linea da perseguire, un obiettivo da raggiungere, con pazienza, determinazione, fiducia nel giovane.
La pedagogia contemporanea mette sempre più in risalto l’aspetto attivo dei soggetti in formazione sostenendo che attorno ad essi deve ruotare l’attività educativa in generale e quella didattica in particolare. Si parla a questo proposito di educazione su misura dell’educando (E. Colaparède) o di educazione centrata sull’educando (C. Rogers). Se questo è un obiettivo importante da raggiungere, vitale perché i giovani non vivano la educazione come indottrinamento bensì come generazione ad una vita di fede liberante e realizzante pienamente tutta la loro persona, come perseguirlo?
Avendo, in primo luogo, chiaro che l’educazione richiede: tempi lunghi, un processo educativo vero e proprio, pazienza. Questo perché l’educazione non si accontenta che il giovane acquisisca un comportamento o un’abilità conoscitiva o pratica momentanea. L’educazione, la vera educazione tende al conseguimento di disposizioni comportamentali collegate con l’intera personalità e l’esperienza globale.
Fra i tre elementi sopra ricordati (tempi lunghi, pazienza, processo educativo) come necessari per raggiungere l’obiettivo del protagonismo formativo del giovane è opportuno soffermarci ulteriormente sull’ultimo dei tre: il processo educativo.
Il processo educativo
“Parlare (…) di educazione come processo vuol dire mettere in luce la dimensione temporale ed il suo dispiegarsi in una successione di atti posti in un preciso contesto, nell’intersezione, con altri processi personali, interpersonali, collettivi, all’interno della globale dinamica storico-sociale” (…). Significa “mettere in luce che l’educazione è fatta di una lunga serie di attività tra loro collegate e interdipendenti, fino a poter essere considerate come un insieme che debba essere, per quanto possibile, unitario e consequenziale, dotato cioè di sequenze coerenti e sufficientemente omogenee”.
Parlare della necessità di un processo educativo per raggiungere l’obiettivo di un protagonismo educativo del giovane nel proprio cammino formativo è quindi affermare la necessità di un disegno educativo organico, di un progetto educativo vero e proprio. Siamo dunque arrivati ad un punto nodale dell’educazione: essa deve essere attuata, come affermato chiaramente dai Vescovi italiani , attraverso un progetto educativo personalizzato e attento ai soggetti. I vari educatori (genitori, comunità cristiana, sacerdote-religioso/a catechista…) debbono quindi coordinare e far interagire i loro interventi educativi alla luce di una progettualità globale che assegna loro, in ragione del loro ruolo naturale, del loro ministero nella Chiesa, dei carismi e della missione ricevuta da Dio, dei compiti specifici e difficilmente sostituibili da altri.
IL GRUPPO: PRIMO LUOGO DI AIUTO SPIRITUALE PERSONALE
Parlare del gruppo come di un luogo ove si sviluppa un aiuto spirituale personale può sembrare una contraddizione. Il gruppo è una realtà comunitaria ove si compie un cammino comunitario; come può pertanto realizzarvisi un aiuto spirituale personale il quale, come afferma la stessa terminologia, è diretto alla singola persona? È questa una domanda legittima alla quale ognuno può dare una risposta affermativa se considera che ogni aggregazione ecclesiale mira (o dovrebbe sempre mirare), alla formazione della singola persona e non ad una sola identità di gruppo.
L’obiettivo di un cammino di fede autentico è la formazione di una persona con una chiara, forte identità personale cristiana, identità radicata in una altrettanta limpida e retta coscienza personale, identità aperta e in relazione con il noi della comunità, con il noi di un gruppo al quale si può eventualmente appartenere. Mai però il cammino di gruppo deve essere in antitesi con la maturazione spirituale delle singole persone di cui è composto, anzi il cammino di un gruppo è tanto più vero, autentico e fruttuoso nella misura in cui ciascun suo membro cresce e cresce avvertendo di ricevere non poco da tutti gli altri membri del gruppo. Proprio quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per il discorso che stiamo facendo. Il gruppo non è una classe tradizionale ove la comunicazione è ordinariamente unidirezionale (dall’insegnante agli alunni e viceversa), ma è un’aggregazione dove la comunicazione è multidirezionale (dall’educatore ai ragazzi, dai ragazzi agli altri ragazzi, dal singolo o da tutti i ragazzi all’educatore), ognuno riceve ed è aiutato personalmente e non solo dall’educatore ma anche da tutti gli altri suoi compagni.
Pertanto gruppo, cammino di gruppo e aiuto spirituale personale non sono in contraddizione, ma dicono invece che la vita di un gruppo ecclesiale non dovrebbe essere mai massificante ma sempre sommamente attenta alla singola persona. Quindi si può affermare che un primo vero e forte aiuto spirituale personale può essere ordinariamente offerto a tutti nel gruppo di appartenenza.
Ora affinché questo aiuto si sviluppi in una aggregazione di giovani, occorre promuovere e attuare uno specifico tipo di gruppo: piccolo, vitale, relazionale, attivante tutte le facoltà dei giovani. Il raggiungimento di queste finalità è favorito dalla presenza nel gruppo dell’educatore.
“L’educatore, è particolarmente attento ai bisogni e agli interessi che hanno condotto i ragazzi ad aderire al gruppo e si muove dentro un orizzonte educativo plenario. Ne consegue un ampio respiro della vita e dell’attività del gruppo costantemente aperto a tutto il giovane e a tutto l’orizzonte del suo vissuto. L’educazione armonica e integrale punta infatti allo sviluppo graduale di tutta la personalità del giovane, in cui le dimensioni morale e religiosa assumono un’importanza fondamentale: in questo processo educativo, costituirà pertanto un impegno primario la formazione della coscienza dei giovani. Ciò significa aiutarli a leggere criticamente la propria vita, a sapersi interrogare nei confronti delle situazioni e degli avvenimenti quotidiani, a compiere responsabilmente le proprie scelte in adesione al progetto del Signore”.
L’educatore dovrà sviluppare questa sua azione educativa non solo in riferimento alla globalità del gruppo ma rivolgendosi specificatamente a ciascun giovane offrendo a ciascuno di essi personalmente il suo fraterno e amichevole aiuto. La vita di gruppo, quando ben condotta e non assolutizzata, reca a tutti notevoli benefici che sono poi gli stessi che si ricercano attraverso la direzione spirituale individuale: una conoscenza di sé più precisa, un arricchimento di dottrina e di esperienza, uno slancio maggiore per l’impegno cristiano.
Occorre stare attenti a non rendere la vita di gruppo esaustiva di tutta la vita spirituale del giovane facendo, ad esempio, coincidere vita di preghiera del singolo con i momenti di preghiera del gruppo, né pretendendo che nel gruppo si possano aiutare i ragazzi ad affrontare e risolvere tutti i loro problemi. Comunque, pur con i suoi limiti, la vita di gruppo è spesso l’unico modo per aiutare dei ragazzi che iniziano un cammino spirituale più personale.
È questa, quindi, una possibilità che va sapientemente accolta e sviluppata dato che, nella vita cristiana, il Signore può servirsi di molti sentieri per incontrare ogni uomo, e sicuramente l’aiuto spirituale personale fra ragazzi, fra ragazzi ed educatore, è uno di questi.
L’EDUCATORE E IL SINGOLO GIOVANE
Ogni figura educativa nella Chiesa, da quella del catechista, a quella del genitore, è espressione della maternità e paternità Divina, la quale ama sempre ciascuno di un amore unico e personalizzato: Può una madre dimenticarsi del suo bambino? Ma anche se ciò avvenisse Io non ti dimenticherò mai (Is 49,15). Il Signore ama tutti e tutto ma al contempo è attento al singolo figlio come fosse l’unico.
L’educatore è chiamato a esprimere sempre contemporaneamente questa duplice tensione: attento al tutto, attento a tutti, vicino a ciascuno personalmente. Due tensioni che non sono chiamate ad eludersi vicendevolmente ma ad arricchirsi e completarsi sinergicamente. Questa duplice tensione l’educatore la vive ordinariamente nel gruppo ma non solo in esso. Sarebbe un grave errore se egli considerasse la sua azione educativa circoscritta dai momenti di riunione del gruppo e trascurasse di ricercare occasioni individuali di dialogo con ciascun giovane.
Potranno essere occasionali, fortuite oppure accuratamente preparate e condotte, meglio se ben preparate. Ovviamente requisito primo perché si possa sviluppare questo dialogo personale extra-gruppo è una vera, sincera e cordiale amicizia fra l’educatore e il giovane; senza di essa tutto assumerebbe i contorni di una “chiamata a rapporto” e ogni comunicazione si spegnerebbe in una formale espressione di contenuti incapaci di creare un’autentica relazione educativa personale.
Amicizia e dialogo sono un binomio essenziale e inscindibile per qualunque educatore voglia individualizzare e personalizzare il proprio intervento educativo, un binomio necessario al fine di riuscire a porre sempre la massima attenzione all’originalità e alla ricchezza di ogni individuo, indispensabile per rispettare e promuovere la crescita personale dei singoli ragazzi. Sull’amicizia molto si è scritto e si conosce, sul dialogo molto meno. Pertanto cerchiamo di delineare i contorni e le caratteristiche di questo secondo elemento del binomio senza dimenticare il primo.
Il dialogo, luogo privilegiato per l’aiuto spirituale personale
“La forma più antica e più diffusa della comunicazione che sta alla base dell’aiuto personale è il dialogo di persona e persona. Molti riducono questo rapporto alle sole parole scambiate; ma una considerazione più attenta discerne altri elementi più complessi e più difficili da analizzarsi: il rapporto personale infatti non si esaurisce nella comunicazione verbale”. Valida in ogni campo, questa osservazione si impone con maggior forza quando si tratta di un rapporto spirituale quale quello fra educatore e giovane. Il rapporto spirituale implica quello tra modello, maestro e discepolo: il giovane non ascolta soltanto le parole del suo educatore, ma vive un rapporto di presenza personale reciproca.
Da questa affermazione deriva che il dialogo spirituale fra educatore e giovane si costruisce là dove c’è una comunicazione della vita di fede dall’educatore al giovane, dove sussiste da parte dell’educatore una capacità di ascolto, dove c’è una presenza cristianamente significativa dell’educatore, c’è un rapporto affettivo, c’è il consiglio e la preghiera. Riflettiamo singolarmente su questi cinque punti.
La vita profonda
Il dialogo fra educatore e giovane lo si costruisce per personalizzare la educazione alla fede, non è quindi un dialogo superficiale su cose banali ma va ad investire la vita di fede del gruppo e del singolo giovane, al fine di una interiorizzazione del Vangelo e di una conoscenza intima e personale del Signore Gesù. Questo esige dall’educatore una vita di fede profonda, pena l’incapacità di sviluppare un dialogo spirituale con ciascun giovane e probabilmente anche con l’intero gruppo affidatogli. Vita di fede profonda che dovrà implicitamente trasparire nel dialogo interpersonale al fine di far comprendere al giovane qual è la sorgente che anima la sua esistenza, il suo servizio, la propria speranza.
Capacità di ascolto
Se una prima caratteristica del dialogo spirituale fra educatore e giovane è la vita profonda dell’educatore che dovrà trasparire nella comunicazione, una seconda è la capacità di saper ascoltare il giovane e quindi di accettarlo nella sua situazione concreta. A poco servirebbero un fiume di consigli e di attenzioni da parte dell’educatore se prima egli non si fosse posto in ascolto della vita del giovane, non si fosse informato dell’ambiente familiare e sociale ove vive, non sapesse nulla del suo andamento scolastico, degli interessi che ha. Sarebbe un dialogo ben povero quello che non partisse da questo generale ascolto della vita del giovane, perché esso sarebbe poi incapace di decifrare le parole dette dal giovane. Le sue parole sarebbero come tasselli di un mosaico frammentato e difficilmente decifrabili perché prive di una visione d’insieme. Quindi capacità di saper ascoltare l’altro come volontà di immergersi nella situazione soggettiva globale dell’altro.
La presenza
Prima ancora di parlare, l’educatore influisce sul giovane, con il suo modo di essere. Egli cioè, con la sua sola presenza, è già rivelatore del Cristo e diffonde il senso dei valori evangelici. Li diffonde vivendo anche i semplici valori umani quali la cordialità, la serenità con cui va incontro, accoglie e dialoga con ciascun giovane. Nel dialogo l’educatore non ha bisogno di grandi parole perché parla e molto la sua vita. È necessario allora che egli sia autentico. Grave sarebbe la dissonanza fra ciò che verbalmente afferma in gruppo e nel dialogo personale e ciò che quotidianamente vive ed è continuamente sotto gli occhi del giovane. Quando la persona è autentica anche se le sue parole sono povere, per grazia di Dio, egli è capace di influire molto sui valori e sui comportamenti dei ragazzi che avvicina.
Il rapporto affettivo
Dicevamo precedentemente che senza vera amicizia non si dà nessun tipo di dialogo, ritorniamo su questa idea basilare per dire che l’educatore è chiamato a sviluppare un rapporto affettivo radicato nella carità soprannaturale. Egli, dicevamo all’inizio, è segno dell’amore di Dio che tutti ama. Dio ama tutti e ciascuno singolarmente. L’educatore ama tutti i ragazzi affidatigli e tutti i ragazzi in maniera specifica e personale, non temendo di manifestare loro questa carità soprannaturale con i gesti propri dell’amicizia. Nel dialogo interpersonale pertanto l’educatore eviterà ciò che potrà far credere al giovane di essere l’unico con il quale egli si rapporta in quel modo, e più in generale escluderà tutti quegli atteggiamenti o parole che dicono esclusività, privilegio. Ma al contempo non temerà di manifestarsi solidale, vicino al giovane e pronto a sostenerlo nel superamento dei problemi piccoli e grandi che vive.
Dialogo e preghiera
Finalmente il dialogo. Sì, consapevoli che il dialogo necessita di un prima, l’ascolto; di un clima, l’amicizia; di uno sfondo illuminante, la vita autentica e la profondità della vita interiore dell’educatore; il dialogo può avvenire. Ma qual è l’obiettivo di un dialogo fra educatore e giovane? Il superamento di problemi psicologici o sociali del giovane? No, perché l’educatore non è né uno psicologo né un assistente sociale, egli è un educatore alla fede. Certo non si chiuderà a questi problemi se emergono, ma non peccherà di presunzione credendo di potersi sostituire ad altri. Lo specifico del dialogo personale fra educatore e giovane è la vita di fede nel gruppo del giovane e ancor più particolarmente l’imparare a comprendere, a conoscere e vivere la volontà di Dio.
Pertanto due saranno gli obiettivi da perseguire nel dialogo:
– il cammino di fede del giovane nel gruppo;
– l’introduzione del giovane alla vita interiore personale, luogo principale della manifestazione al singolo della volontà di Dio.
Per il raggiungimento di questi scopi egli si donerà senza riserve ai giovani affidati e continuamente pregherà il Signore perché gli doni coraggio e costanza nel ricercare continuamente il dialogo, pazienza nell’ascoltare, saggezza nel parlare, autenticità nel vivere.
EDUCATORE E GIOVANE IN DIALOGO
L’educazione è un fatto complesso, esige un processo educativo graduale e organico, un progetto educativo specifico, degli educatori competenti e motivati. È necessario un dialogo personale fra educatore e giovane radicato nell’ascolto, riscaldato dall’amicizia, illuminato della vita autentica e dalla profondità della vita interiore dell’educatore. In questo contesto, dicevamo, il dialogo può avvenire ma affinché esso sia pienamente stimolante il processo evolutivo e rispettoso della libertà altrui è chiamato ad ispirarsi ai seguenti criteri:
– l’interlocutore è l’unico “esperto” del proprio vissuto e pertanto deve occupare una posizione centrale e privilegiata nello svolgimento del dialogo;
– è necessario stimolare le risorse presenti nella persona, rinviando a lui gli interrogativi, perché cerchi la risposta più adeguata;
– si deve promuovere nell’individuo il senso di responsabilità nel prendere impegni e decisioni.
Tre sono poi le avvertenze da avere sempre ben presenti:
– evitare di dirigere il dialogo scegliendo di aiutare il giovane “a prendere coscienza del proprio mondo percettivo, a riflettere sui vari aspetti della situazione esposta, a valutare il significato umano e morale del suo comportamento, a prendere decisioni assumendosene la responsabilità” ;
– comprendere empaticamente il giovane, cioè riuscire a vedere e a percepire la realtà come la percepisce il giovane, cercare di porsi dalla sua parte, dentro il suo campo percettivo;
– promuovere una sana autonomia, ovvero stimolare nel giovane un processo che lo porti ad un graduale mutamento del suo modo di pensare, di sentire, di agire.
Affinché un dialogo riesca, inoltre, occorre essere avvertiti in merito agli ostacoli alla comprensione, ovviamente per evitarli. Alcuni li abbiamo già richiamati, sia pure indirettamente, quando si è affermato che al centro del dialogo è necessario mettere la persona del giovane e non la nostra. Infatti, un ostacolo al dialogo è il nostro egocentrismo. Esso si può manifestare anche in forme “nobili”, come quando eleviamo noi stessi e il nostro comportamento a metro dell’agire del giovane e pertanto andiamo a citare frequentemente, come esempi, nostre esperienze.
Un altro ostacolo nasce quando ci incominciamo a considerare esperti di dialogo con i giovani e pertanto, sia pure inconsapevolmente, diveniamo direttivi. È ben vero che l’esperienza porta sicurezza però essa non deve mai portare l’educatore a sapere a priori ove condurrà il dialogo con il giovane. La risposta, il consiglio nascono dall’ascolto, la scelta potrà essere orientata dall’educatore ma dovrà essere assunta autonomamente e personalmente dal giovane.
Inoltre ostacolo al dialogo è la tendenza a giudicare chi si ascolta, accompagnata spesso da una certa rigidità mentale che porta a non accogliere l’altro così come è e quindi impedisce la nascita stessa di un vero dialogo. Certamente all’educatore è richiesta la fedeltà piena alla Verità ma essa non significa vedere le persone secondo le categorie “bene/male”, né assumere atteggiamenti di condanna, di rifiuto delle idee e spesso della persona. La Verità non è una spada con cui ferire, sconfiggere l’altro ma è una croce sulla quale stendersi per amore dell’altro affinché l’altro, illuminato dalla carità, si converta e viva in eterno.
Definite le previe condizioni per un dialogo interpersonale e gli obiettivi del dialogo nell’articolo del mese scorso, descritti i criteri, le avvertenze e gli ostacoli per e ad un dialogo, in questo articolo, proviamo ora a indicare una semplice ed essenziale metodologia, utile soprattutto per la fase incipiente del dialogo tra educatore e giovane. Una piccola metodologia per avviare un dialogo. È ben difficile infatti che all’inizio di un dialogo interpersonale il giovane formuli subito delle sue problematiche e chieda consiglio all’educatore. Esse affioreranno a mano a mano che l’amicizia cresce, la fiducia del giovane nell’educatore si fa salda, la sicurezza di essere ascoltati e capiti diviene granitica, l’autenticità e la profondità di vita cristiana dell’educatore verificata più volte. Allora il dialogo non avrà bisogno di molte metodologie perché fluirà come le confidenze fra due vecchi e cari amici ma all’inizio alcune note metodologiche possono essere opportune. Esse possono essere sintetizzate in tre punti.
– Aiutare il giovane a leggere e valutare la vita del gruppo nel quale è inserito, affinché riesca a coglierne gli aspetti positivi per la sua vita, ne evidenzi le lacune, ne individui i momenti da vivere meglio, intuisca le modalità nuove con cui egli dovrebbe porsi nel gruppo.
– Sollecitare il giovane ad esercitare verso l’educatore una sorta di correzione fraterna in merito principalmente al servizio educativo che l’educatore assolve nel gruppo, e al rapporto educativo che esso ha con lui.
– Una volta accolta la correzione fraterna può essere esercitata. A questo punto l’educatore può a sua volta dire al giovane il suo pensiero in merito al ruolo che il giovane svolge nel gruppo e alle concrete modalità con cui lo vive.
IL SACERDOTE, UOMO SPIRITUALE
Dal colloquio amicale alla proposta di una direzione spirituale
Il ruolo e il servizio del sacerdote nel processo iniziatico, all’interno della progettualità educativa è importante e molteplice. Il suo ruolo, e conseguentemente il suo servizio nel processo educativo e in specifico nell’accompagnamento spirituale dei giovani, discendono direttamente dal suo essere. Egli, nella comunità, per storia personale, per vocazione e ministero, è l’uomo spirituale, l’uomo di Dio preposto alla custodia delle cose sante e del popolo santo di Dio del quale deve esserne il buon pastore. Un buon pastore che come un amministratore fedele e saggio cerca di adempiere e di far accogliere, a tutte le persone di casa, la volontà del Signore. Sa di non dover guidare la comunità affidatagli, le persone assegnate alle sue cure pastorali, in base a idee proprie, soggettive, individuali anche se nobilissime, ma alla luce della positiva volontà di Dio che gli si manifesta attraverso il magistero pastorale della Chiesa, (alla cui definizione egli è chiamato a contribuire con un apporto significativo), e i segni che l’Onnipotente pone nella comunità e nelle singole persone a lui affidate, segni da discernere, comprendere, seguire. È in questo orizzonte teologico-pastorale che si colloca il ruolo e il servizio del sacerdote verso i giovani. Egli, anche verso di loro, è chiamato a manifestarsi quale: amico, padre, guida.
Amico: è chiamato a manifestare ai giovani la presenza, l’affetto, la compagnia, la luce di Cristo Gesù. Ma per far questo occorre in primo luogo che materialmente incontri, stia fisicamente in mezzo a loro, parli con loro. Se in passato la presenza del sacerdote in mezzo ai giovani era una costante, oggi è sempre meno frequente, sempre più formale, sempre più mediata dalle figure dei catechisti, degli animatori ecc.
Padre: il sacerdote è chiamato a manifestare ai piccoli la misericordia del Padre Celeste che non fa mancare ad alcuno dei suoi figli i suoi doni: il Vangelo che salva, i sacramenti che donano la sua Grazia, la Chiesa che sostiene nel cammino. Affinché questa manifestazione avvenga e sia colta in tutta la sua rilevanza e significatività dal giovane, occorre che essa non si limiti ad essere solamente rituale. In altre parole, difficilmente il giovane può cogliere il sacerdote come l’uomo del Vangelo se, ad esempio, non ha mai un colloquio personale con il sacerdote incentrato sul Vangelo, se mai gli avviene di parlare personalmente di Gesù Cristo e del suo messaggio con il proprio parroco.
Ancora più complesso sarà per il giovane comprendere il ruolo sacramentale del sacerdote, in particolare il suo essere “Alter Christi” nell’Eucaristia e soprattutto nella Riconciliazione, se non c’è dialogo, vicinanza. Infatti, come può scoprire un giovane che nel prete, in colui che ricopre quel determinato ruolo istituzionale, non c’è semplicemente un burocrate (sia pure di Dio), ma una persona, uno che era un giovane come loro, un giovane il quale anni fa si è talmente lasciato afferrare da Cristo da giungere a poter dire, per la grazia sacramentale ricevuta nell’ordinazione, “non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me”? Non potrà comprenderlo se non ha mai occasione di avvicinarlo e di parlargli personalmente, confidenzialmente, come farebbe con suo padre.
Questa scoperta è solo frutto di una vicinanza che diviene confidenza. Mancando questa, il prete è un personaggio fisso da sempre in quel ruolo e il suo sacerdozio diviene, per il giovane, una realtà difficile da comprendere e sicuramente una vocazione che non lo riguarda. Difficoltà ulteriori e specifiche, mancando questa scoperta della “alterità e ulteriorità” del sacerdote, si manifesteranno per il sacramento della Riconciliazione. Per questo Sacramento, più che per altri, è quanto mai necessario che il colloquio sacramentale sia preparato e facilitato da una reciproca e non superficiale conoscenza fra sacerdote e penitente. In misura in cui il sacerdote è conosciuto, accolto, compreso, amato, dal fanciullo, il rapporto sacramentale sarà alquanto facilitato e risulterà semplice, sereno, schietto, profondo, un dono importante. Si pensi a quanti giovani abbandonano la pratica della Confessione proprio perché provenienti da esperienze non positive vissute nella fanciullezza.
Guida: se il carisma proprio del sacerdote è quello di essere il buon pastore della comunità affidatagli (e lo è comunitariamente e singolarmente), egli dovrà esserlo in specifico, per ciascun giovane. Certamente non vive da solo questo servizio verso i ragazzi: i genitori, gli educatori, i catechisti, a loro modo e misura, sono guide dei piccoli, ma il sacerdote, per carisma e ministero, ha un proprium che altri non hanno. È tipicamente suo il compito di impostare e guidare la pastorale giovanile, e in specifico di essere per loro, sia pure in maniera non esclusiva, consigliere spirituale, guida, direttore spirituale.
Dovrebbe essere, quello del sacerdote, un aiuto spirituale che nasce dall’amicizia, prende forma nei primi colloqui sacramentali di riconciliazione, si consolida attraverso un dialogo spirituale frequente fra sacerdote e giovane, ricercato o, meglio ancora, invogliato, sia pure con molta delicatezza e rispetto, dal sacerdote medesimo. Il sacerdote dovrà cercare di porsi, nei confronti del giovane, prima di tutto con un atteggiamento di ascolto, poi con empatia, e comprensione, manifestando sempre pazienza, benevolenza, carità. È importante che questi colloqui spirituali siano caratterizzati da continuità e periodicità.
L’obiettivo primario, di questi colloqui, è aiutare il giovane ad avere un profondo, intenso e continuo rapporto con Gesù Cristo. Pertanto il consiglio spirituale del sacerdote dovrebbe essere un aiuto o sostegno specifico dato al giovane per la sua educazione ad una vita di preghiera, ad una vita spirituale centrata in Cristo Gesù, ad un’educazione all’ascolto del Signore il quale gli si rivela in vari modi (nel segreto della coscienza, nella loquacità delle Sacre Scritture, nella preghiera, nella Liturgia, negli avvenimenti, nell’altro, nell’agire e nel parlare magisteriale della Chiesa…).
Questa educazione spirituale risulterà indispensabile al giovane per imparare, come il giovane Samuele (cfr. 1Sam 3,1-10), a riconoscere la voce del Signore, a fidarsi di Lui ed avere il coraggio necessario per iniziare a vivere, sin da piccolo, la volontà di Dio ogni giorno. Si può quindi affermare che contenuti principali di questi dialoghi spirituali dovrebbero essere l’introduzione alla vita interiore e l’educazione al discernimento spirituale.
IL DISCERNIMENTO
Il discernimento è una virtù biblica quanto mai necessaria ad ogni cristiano. Tanto più essenziale a colui che intende promuovere la crescita umana e cristiana dei giovani. Ogni educatore è chiamato ad accostarsi ad ogni giovane come ad un grande mistero di vita, sacro e inviolabile. Un mistero da sondare, da intuire, da discernere appunto, affinché il giovane sia aiutato a crescere in età, sapienza e grazia. È il giovane un mistero dell’amore di Dio, un mistero che solo il Signore può svelare. Pertanto l’educatore, se intende realmente mettersi al servizio della promozione integrale della persona del giovane, è chiamato ad essere uomo spirituale e sapiente, capace di discernere i segni di Dio.
È utile ricordare per inciso onde evitare inutili e dannosi equivoci nonché illusioni, che per essere uomini spirituali capaci di discernimento occorre vivere un’intensa, vera e autentica comunione con il Signore. Una comunione radicata nella purezza del cuore, nell’abbondanza dell’amore, nella luce della Grazia, e non appannata dalle miserie del peccato. Per avere occhi spirituali capaci di leggere i segni dello Spirito occorre essere uomini dello Spirito.
Fatta questa precisazione vediamo di cogliere i tratti salienti di questa virtù biblica: il discernimento.
Il discernimento spirituale
Il termine ha due significati distinti:
1. In un primo senso non significa altro che scrutazione dei pensieri del cuore umano. Inteso così, il discernimento è messo in rapporto con la fede di cui è, assieme alla profezia, una conferma miracolosa. È un dono singolare e grande di Dio, che possedeva, fra l’altro, quel grandissimo educatore che è stato Don Bosco.
2. In un secondo senso, quello di maggiore accezione comune, significa la ricerca della sorgente dei movimenti interiori del cuore umano, nonché di avvenimenti della vicenda umana, per stabilire se provengono da Dio oppure dagli uomini o peggio, se sono frutto di un inganno del maligno. È allora il discernimento un giudizio col quale l’uomo, di fronte a vari sentimenti o avvenimenti che lo invitano ad assumere determinati comportamenti e dei quali non ha chiara l’origine (sono buoni o cattivi?), ravvisa in essi (sentimenti o avvenimenti), con una buona dose di certezza (si parla a questo proposito di certezza almeno prudenziale), la presenza dello Spirito di Dio o del mondo. Ravvisa, cioè, se quella mozione interiore che avverte dentro di sé viene da Dio oppure no. Noi consideriamo il discernimento in questa seconda accezione.
Si può arrivare alla certezza di giudizio su sentimenti o eventi, ovvero al discernimento, attraverso due modalità.
1. La prima è, ancora una volta, un singolare dono di Dio ed è pertanto una modalità eccezionale. È il discernimento di San Paolo sulla via di Damasco, il quale, per singolare luce dello Spirito, comprende il significato spirituale della sua caduta e della sua visione. Consiste, cioè, in un istinto o luce particolare, che dona lo Spirito Santo per discernere, con giudizio retto in sé o negli altri, da quale principio procedono i moti interni dell’animo, se del buono o del cattivo.
2. Vi è una seconda modalità, più comune e alla quale ogni cristiano è chiamato a esercitarsi. È, per fare ancora una volta un esempio, il discernimento narrato da Sant’Agostino nelle sue “Confessioni”. È un discernimento frutto di un giudizio maturato alla luce della Parola di Dio, della parola della Chiesa (si pensi nel caso di Sant’Agostino l’importanza che ebbe per il suo discernimento la parola di Sant’Ambrogio), dell’insegnamento dei Padri della Chiesa, dei dottori della Chiesa (Santa Teresa d’Avila, Santa Caterina, San Tommaso, ecc.), dell’esperienza di tutti i santi e dipendente dal lume della propria saggezza e prudenza. È grazie a questo giudizio di discernimento che comunemente un giovane matura la decisione di abbracciare un determinato stato di vita (matrimonio, sacerdozio, vita religiosa, vita consacrata); è alla luce di questo giudizio di discernimento che si possono valutare sentimenti e situazioni personali o altrui. È il discernimento, penso lo si sia compreso dalle considerazioni precedenti, un’arte assai difficile e tuttavia necessaria ad un educatore.
Le ragioni di questa difficoltà stanno nel carattere sovente interiore e spirituale dei movimenti da scrutare, nella loro origine preternaturale e soprannaturale, nell’astuzia del maligno che cerca di insinuarsi velatamente trasformandosi in angelo della luce. Tutto questo porta a dire, allora, che il discernimento è sempre un giudizio che non ha mai i caratteri dell’infallibilità, e, pertanto, occorre andare cauti con le conseguenze personali, interpersonali, o collettive di giudizi di discernimento. Come ulteriore elemento per formulare un giudizio di discernimento, è utile riflettere, alla luce ovviamente della Sacra Scrittura, su come si presenta nell’uomo l’azione di Dio. Essa (l’azione di Dio) si manifesta nell’intelletto e si ripercuote nella volontà dell’uomo. Dall’intelletto l’azione di Dio, quando è veramente tale, è colta come: verità, gravità, luce, docilità intellettuale, discrezione, umiltà. Nella volontà l’azione divina è contrassegnata dai seguenti criteri: pace, umiltà sincera, ferma fiducia in Dio, timore di sé, docilità della volontà, rettitudine d’intenzione, pazienza nelle avversità corporali, morali e spirituali, mortificazione volontaria, semplicità, sincerità, libertà di spirito, desiderio di imitare Cristo, carità mansueta e disinteressata.
Certamente i segni con i quali si manifesta l’azione di Dio non mancano: occorre, però, e lo ripeto ancora, essere uomini spirituali per discernerli. Un educatore è chiamato a sperimentare prima di tutto su se stesso questo giudizio di discernimento prima di esercitarlo verso i giovani. In misura in cui, con l’aiuto di una saggia guida spirituale, è introdotto al discernimento spirituale sulla propria vita, potrà mettere al servizio dei giovani questa sua arte spirituale.