N.04
Luglio/Agosto 2000

Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo

Da dove vieni? Di dove sei tu, che respiri, ti muovi e piangi tra le mie braccia? Chi ha disegnato il tuo volto così com’è? Chi ha scelto i tuoi colori? Chi ti ha immaginato quando ancora non eri, quando venivi formato nel segreto? Davvero un prodigio sei ai miei occhi. Ti ho portato nel grembo nove mesi, con dolore ti ho partorito, sei uscito da me, ma non sei da me! Non avrei saputo creare uno solo dei tuoi sottilissimi capelli; non avrei saputo far battere il tuo cuore, né accendere di luce il tuo sguardo. Opera stupenda tu sei: casa costruita non da me, ma dal Signore (dal Diario di una giovane madre).

Nel silenzio della preghiera è il salmista a suggerire una parola semplice e profonda per dire questo mistero in cui si addentra ogni uomo e ogni donna che generano vita: Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo. Ma ancora di più. Se ci inoltriamo nel Salmo 126 (127), scopriamo che non solo dono e grazia del Signore sono detti i figli, ma principio stesso di beatitudine: Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta con i propri nemici.

C’è un nemico che attende ognuno di noi alla porta, un avversario che come leone ruggente si aggira cercando chi divorare e il cui pungiglione da sempre tormenta ogni esistenza: la morte. Nessun’arma regge al confronto con la morte: non l’intelligenza, non il coraggio, non la ricchezza, non il potere, non il successo. A quella porta ogni uomo arriva confuso e indifeso, angosciato dalle sue paure. 

Non così però per l’uomo che di figli ha piena la faretra: beato lui, perché non resterà confuso. Per lui si avvererà la Parola del Signore: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno… perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere… Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere?… In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me (Mt 25,34-40).

Per ogni padre ed ogni madre, locus theologicus per eccellenza sono i figli: spazio in cui realizzare il duplice comandamento dell’amore per Dio e per il prossimo, l’unico comandamento dell’amore. Il prossimo nell’Antico Testamento è il forestiero, l’orfano, la vedova; nel Vangelo, Gesù stesso si identifica con i più piccoli, con i più deboli: con l’affamato, l’assetato, il forestiero, il nudo, l’ammalato, il carcerato. I figli sono tutto questo: affamati che chiedono da mangiare; assetati che chiedono da bere, forestieri che chiedono una casa, nudi da vestire, ammalati di cui prendersi cura, carcerati da introdurre nella libertà dei figli di Dio. 

L’infinita dedizione che ogni bimbo richiede in tempo, energie e attenzioni, è la chiamata stessa di Dio ad amare come Egli ha amato, offrendo la propria vita perché un altro l’abbia, e l’abbia in abbondanza.  Perdere la propria vita in questo amore introduce nell’adunanza festosa dei benedetti dal Padre: E se ne andranno… i giusti alla vita eterna (Mt 25,46). Beati il padre e la madre che avranno speso per i figli la propria vita; andranno forti alla porta, gridando all’avversario: Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? (1Cor 15,55).

Ma cosa significa amare? Cos’è amore? C’è una dimensione materiale, esteriore dell’amore, che ogni genitore ben conosce: è la dedizione quotidiana e silenziosa vissuta da milioni di genitori nel mondo nei confronti dei loro figli. Non è vero che il mondo sia dominato dal male: se il mondo va avanti, è grazie alla cura concreta di generazioni e generazioni di genitori per i propri figli. Cosa c’è di più naturale di un uomo e una donna che si sposano e generano figli, e quei figli amano e curano, interrompendo per loro il sonno la notte, regalando loro il tempo di giorno, per farli mangiare e giocare, per lavarli e addormentarli? È quasi una “astuzia” di Dio, che vuole che l’amore sia l’anima del mondo: il male fa notizia, ma è l’amore che da sempre fa crescere i figli a far vivere il mondo. 

Tuttavia quest’amore non basta: ogni figlio può, e a ragione, recriminare contro i propri genitori, per le loro infedeltà, per i loro errori, per non essere stato amato abbastanza! La dedizione materiale ed esteriore di un genitore per il proprio figlio ha bisogno di essere innestata nella radice interiore e spirituale dell’amore. Può essere questa la scommessa delle madri e dei padri cristiani del nuovo millennio: radicare la pratica del loro amore di genitori, naturale e necessaria, nello Spirito dell’amore di Dio. Ma qual è questa dimensione spirituale ed interiore dell’amore? È la Scrittura che la mostra, quasi in ogni suo versetto. Ascoltiamo insieme dunque i primi versetti del terzo capitolo della Prima Lettera di Pietro. Si tratta di una bellissima pericope in cui l’apostolo Pietro traccia il ritratto della moglie cristiana; fin dalle prime battute però ci accorgiamo che quelle esortazioni, proprio perché relative al come amare in Cristo i propri mariti, si lasciano ben interpretare anche come insegnamenti su cosa significhi per una madre (e quindi anche per un padre) amare in Cristo i propri figli.

Ugualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti (1 Pt 3,1). Il primo attributo di una donna cristiana è la sottomissione. Quanto è impopolare questo termine al giorno d’oggi, quanto sgradevole risulta alle nostre orecchie abituate ormai a sentire parlare di “pari opportunità” tra i sessi e di “emancipazione femminile”. In realtà qui san Pietro non sta facendo della sociologia né vuole mettere in discussione la validità di queste ed altre conquiste della moderna democrazia, che indiscutibilmente tanto bene hanno fatto all’uomo e alla donna. Si muove piuttosto su un altro livello. Sembra cioè avvertirci che se anche in tutto il mondo l’uguaglianza, così come siamo capaci di concepirla oggi in un paese libero come il nostro, fosse patrimonio comune ed acquisito da parte di tutti, questo ancora non sarebbe amore, questo ancora non sarebbe felicità. Che san Pietro non faccia della sociologia nel rapporto tra uomini e donne si capisce bene con uno sguardo più ampio sull’intera sezione: ci accorgiamo infatti che il verbo stare sottomessi ricorre con una frequenza tanto grande da diventare vero e proprio ritornello. Così, prima che alle mogli, di stare sottomessi è detto altresì alle autorità, ai domestici, e infine, agli stessi mariti (ugualmente voi, mariti: v.7). 

Cosa significa dunque stare sottomessi? Letteralmente, “essere messi sotto” e non “sopra”, cercare quindi gli ultimi posti e non i primi, chinarsi a lavare i piedi piuttosto che sedersi per essere serviti, promuovere la realizzazione dell’altro prima che la propria, non desiderare tanto di essere compresi, stimati, amati, ma avere come unico desiderio quello di offrire comprensione, stima, amore. Decentrarsi perché al centro ci sia un altro che non sono io, e intorno a lui e per lui spendere la propria vita fino a morire. In una società che continua a ripeterci che l’importante è farsi valere, esprimere la propria personalità, perseguire con ogni mezzo la realizzazione di se stessi, davvero forte arriva a noi l’invito di san Pietro a farci ultimi, a divenire servi.

Anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio… oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta (1 Pt 2,21.23). C’è uno nella storia che ha scelto per sé il posto del malfattore, Lui il Giusto; c’è uno nella storia che ha scelto per sé il posto della croce, Lui il Santo; c’è uno nella storia che ha scelto di morire perché chi meritava la morte potesse avere la vita e averla in pienezza. Lo stesso posto che il Signore ha scelto per sé, nel Suo nome e per Suo amore, scelga per sé ogni moglie, ogni madre cristiana, nella fede che così facendo la vita intorno a lei si moltiplicherà.

Affinché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla Parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati, considerando la vostra condotta casta e rispettosa (1Pt 3,1-2). La sottomissione ha un primo effetto manifesto ed è quello della conversione a Dio di tutti coloro che vivono con noi. Anche se qualcuno non incontrasse Dio nella Sua Parola, di certo lo incontrerà vivo nella persona di chi con amore quotidianamente si sottomette. La sottomissione è quello spazio concreto in cui permettiamo a Dio di incarnarsi ancora nella nostra storia, consentendogli così di passare di nuovo tra noi beneficando, guarendo le nostre infermità, consolando le nostre afflizioni. Servire è regnare, perché è assumere il volto del Re dei Re, e Lui mostrare con un’eloquenza più convincente di ogni parola, persino della Parola. 

Ad una donna oggi viene chiesto soprattutto di essere attraente, di conservarsi bella e seducente per poter tenere unito a sé il proprio uomo e così assicurare la fedeltà matrimoniale. Ma la sapienza del Vangelo è un’altra: non se-durre, che etimologicamente significa “condurre a sé”, ma conquistare a Cristo; non attirare a sé, ma coltivare così profondamente l’unione con il Signore, da attirare a Lui tutte le cose; non mettere sé al centro, ma Lui, e a Lui affidare ogni rapporto d’amore della nostra vita. In questo senso, risuona forte, per ogni madre ed ogni padre, l’invito che Gesù rivolge ai suoi: “Lasciate che i bambini vengano a me”. È qui il cuore del “compito vocazionale” proprio di ogni genitore: condurre i figli al Signore! Perché i figli sono doni del Signore e al Signore sono destinati: sono da Lui e per Lui, doni che solo nel Signore possono trovare la propria pienezza e gioia. E la sottomissione, la dedizione quotidiana, è quella condotta, quell’unica “parola” capace di conquistare i figli all’amore di Cristo, loro origine e loro destinazione.

Il vostro ornamento non sia quello esteriore… cercate piuttosto di adornare l’interno del vostro cuore, con un’anima incorruttibile, piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio (1 Pt 3,3-4).  Per attirare a Cristo occorre innanzi tutto maturare la consapevolezza di essere gente inabitata da Lui, templi vivi dello Spirito che si è scelto ciascuno come Sua dimora. È necessario quindi sempre più diminuire perché l’“uomo nascosto del cuore” (così recita il testo greco, tradotto con “l’interno del vostro cuore”) emerga e diventi Lui bellezza in noi. Egli ci ricolmerà dei doni dello Spirito, che san Pietro riassume nella mitezza e nella pace. A quale figlio non gioverebbe avere per padre e per madre un uomo e una donna miti, portatori di pace, capaci di astenersi dal giudizio, deboli a sufficienza per lasciare che l’altro si esprima così com’è e si senta benedetto e riconosciuto nella sua bellezza? Non tanto tempo quindi dedicato al trucco, all’abbigliamento, alla cura ossessiva del corpo, quanto piuttosto tempo e spazio per l’interiorità, per rientri frequenti al cuore inabitato, da coltivare nel silenzio, nella preghiera, nella frequentazione assidua della Parola e dei sacramenti, nel rapporto semplice e stupito con la natura, nella predilezione per ogni luogo della manifestazione di Dio. Questa è la bellezza che non passa, che il tempo non invecchia, ma anzi approfondisce, che la morte non può toccare, ma anzi porterà a compimento. 

A questa bellezza siamo stati chiamati, a questa bellezza dobbiamo condurre i nostri figli.