N.04
Luglio/Agosto 2000

Il bambino oggi nella società

Negli ultimi decenni si è assistito allo sviluppo delle scienze dell’educazione, alla scolarizzazione di massa, alla enunciazione delle diverse “carte” dei diritti del bambino a cominciare dalla Convenzione ONU sui Diritti del Bambino del 1989 che segna una tappa fondamentale nella definizione del ruolo del bambino nella società. Con essa, infatti, il bambino per la prima volta è definito “soggetto” di specifici diritti e non più soltanto destinatario di scelte e politiche degli adulti. Parlare di bambini, o, come più asetticamente si dice, di minori sembra poi, oggi, quasi diventato di moda. Se ne parla nei media, soprattutto in termini di patologia dell’infanzia, anche sull’onda di fatti di cronaca, spesso drammatici. Se ne parla per pubblicizzare risultati di sondaggi ed inchieste. Se ne parla a margine di convegni politici per presentare iniziative di singoli o gruppi. Se ne parla per proporre iniziative televisive di solidarietà, quasi sempre rivolte ai bambini del cosiddetto terzo mondo.

A questa apparente e diffusa attenzione dei media, della politica, della pubblicità e, diciamolo pure, del marketing verso l’infanzia corrisponde, però, una reale presa in carico del bambino nella sua globalità, delle sue attese e dei suoi problemi? Per rispondere a questa domanda dobbiamo, innanzi tutto, tenere conto del contesto socioculturale, comune a molti paesi dell’occidente, in cui il bambino nasce e cresce. 

In primo luogo possiamo dire che la società attuale è una società in movimento, caratterizzata da profonde trasformazioni e da una pluralità di modelli di comportamento e di valori. Si è diffusa in essa una cultura del relativismo, del soddisfacimento dei bisogni individuali e di quelli indotti dai comportamenti di massa. L’accentuarsi, poi, in questi ultimi anni, di una società multiculturale e multietnica può comportare nuovi stimoli di solidarietà ed integrazione, ma spesso anche di paura ed intolleranza. La famiglia stessa non è esente da profonde trasformazioni rispetto al passato. Una famiglia sempre più ridotta numericamente per il tasso di natalità, quello italiano, più basso del mondo, una famiglia caratterizzata da una forte spinta verso la disgregazione attraverso la separazione, il divorzio e forme anche atipiche di convivenza.

C’è poi una massiccia diffusione dei mass media e dei new media che, seppure di per sé strumenti con potenzialità enormi, possono produrre effetti di conformismo e ricettività passiva dei messaggi. A questo proposito, c’è chi, come il sociologo Severino De Pieri, ha definito gli adolescenti “calmi adattati”, cioè una generazione che, pur pensando diversamente dai genitori e dagli altri adulti, si adegua passivamente all’ambiente. Lo stesso Pontefice, Giovanni Paolo II, nei suoi messaggi, ha più volte richiamato l’attenzione dei cristiani sull’importanza dei media, che non ha esitato a definire “presenza amica” , ma anche sul ruolo che essi possono e devono avere nei confronti dei soggetti più deboli come appunto i bambini.

Se andiamo ad esaminare, poi, i differenti spazi del bambino, spazi che per loro stessa natura dovrebbero promuovere la sua crescita equilibrata e lo sviluppo delle sue potenzialità, troviamo in primo luogo una attenzione alla soddisfazione dei suoi bisogni fisici più che di quelli interiori. In famiglia indubbiamente il bambino ha, nella maggior parte dei casi, uno spazio anche fisico maggiore. Una camera per sé, quasi sempre attrezzata di televisore e videogame, magari anche una cantinetta per ricevere gli amici, e, per quelli più grandi, il motorino sotto casa. La giornata del bambino è ritmata, dopo la scuola, da tutta una serie di impegni spesso indotti dagli adulti, come il nuoto, il corso di judo, l’allenamento sportivo, il corso di lingue, danza e quant’altro. Queste attività appaiono molto spesso motivate dall’esigenza di affermazione e successo sociale dei genitori più che dei bambini e sono fortemente connotate da una competitività esasperata. 

A scuola il bambino trova spesso un ambiente ugualmente competitivo, dove il successo e l’affermazione personale tende a prevalere sull’esigenza di formazione e socializzazione. I programmi da rispettare, le verifiche e le sperimentazioni didattiche tendono a far passare in seconda linea l’esigenza primaria di ascolto del bambino, dei suoi bisogni, delle sue difficoltà anche in ordine all’apprendimento e alla sua crescita. Nella città gli spazi per il bambino o non ci sono, o, se ci sono, in quelle più al passo con i tempi, sono programmati dagli adulti, come le ludoteche o i più recenti ludo-bus, che sostituiscono gli spazi di gioco spontaneamente eletti, da sempre, dai bambini.

Nella politica, città… metaforica, non c’è spazio per i bambini, o, se c’è, è affidato alla sensibilità personale del singolo esponente politico che tenta di fare emergere, almeno nei programmi, anche la loro presenza e le loro istanze. Nella UE solo recentemente si è preso coscienza della presenza dei bambini, grazie soprattutto all’azione di lobbying delle organizzazioni non governative come il BICE (Bureau International Catholique de l’Enfance). Eppure i minori presenti in Europa non sono una quantità trascurabile: centoventi milioni, oltre ai tanti bambini clandestini giunti in Europa e nel nostro Paese molto spesso da soli, a seguito dei flussi migratori dall’Europa orientale e dall’Africa. Per questi ultimi, ufficialmente inesistenti, il rischio di ogni possibile sfruttamento e violenza è qualcosa di più di una ipotesi, come ci confermano le cronache di ogni giorno. 

Nei media poi si vorrebbe relegare il bambino in “riserve”, le cosiddette fasce protette, quando sappiamo che il bambino guarda la TV, nel bene e nel male, ben oltre le fasce orarie a lui destinate se, come affermano dati ormai noti, alle quattro del pomeriggio i bambini davanti alla TV sono un milione e mezzo, mentre alle dieci di sera sono tre milioni. Quando poi si parla del rapporto bambini e TV ci si riferisce quasi sempre alla violenza che passa attraverso il mezzo televisivo.

Quale sia l’impatto della violenza massmediale sui comportamenti dei minori è oggetto di ampio dibattito. Secondo l’Associazione di Psichiatria Americana, le immagini di violenza non solo aumentano l’incidenza dei comportamenti aggressivi, ma causano anche una “desensibilizzazione” nei confronti della violenza stessa. L’eccessiva esposizione a modelli aggressivi può fare sì che vengano codificate ed immagazzinate in memoria strategie comportamentali.

A livello di ricerca scientifica c’è stato chi, come il sociologo Neil Postman, già quindici anni fa, ha attribuito all’impatto della TV sui bambini l’effetto di provocare la “scomparsa dell’infanzia”. È evidente che da qualche tempo a questa parte, di fronte ad un incremento della violenza reale e massmediale, si avverte la necessità di porre un rimedio.

La proposta del V-chip, congegno elettronico in grado di criptare le immagini violente seppure solo dei programmi registrati, o di una segnaletica specifica può diventare, al di là delle intenzioni, un alibi per trasmettere, previo avviso, qualsiasi cosa, o addirittura un incentivo alla visione; ma soprattutto non risolve il problema, perché il bambino è spesso, troppo spesso, solo davanti alla TV (il 52% dei ragazzi ha la televisione in camera) e da solo decide cosa guardare, di giorno e di sera.

Inoltre chi può controllare le oltre cinquecento emittenti televisive sparse sul territorio italiano, i promo, gli spot, i trailers che vanno in onda durante tutto il giorno, anche nelle cosiddette fasce protette? La violenza gratuita appare in televisione soprattutto proprio nei trailers che promuovono i film che verranno trasmessi sul grande schermo. Avendo a disposizione un massimo di 30 secondi, i trailers mandano spesso in onda soltanto le scene peggiori, imperniate su violenza e sesso ed avulse dal contesto. Accanto ed oltre la violenza ci sono poi la banalità di molti programmi televisivi, apparentemente innocui, e la pubblicità che riduce il bambino a consumatore di prodotti per lo più superflui se non negativi per il suo sviluppo equilibrato.

Oggi, inoltre, i messaggi che ci arrivano in video provengono non solo via etere, ma anche via cavo, via satellite, attraverso videocassette e perfino videogame. Nelle nostre case attraverso il computer, i cd-rom e internet arriva un flusso enorme di immagini, parole, informazioni difficilmente controllabile e selezionabile. Qual è il costo che il bambino paga per tutto questo? Difficile quantificarlo. Certo è che il nodo centrale non è tanto o solo l’influenza dei media, quanto piuttosto il rapportarsi del bambino con il contesto in cui vive: con la scuola, ed è spesso proprio la distanza tra scuola e media che aumenta la capacità… attrattiva di questi ultimi; con la famiglia che ha troppo delegato e deve ora riappropriarsi della sua funzione educativa primaria riconosciuta dalla Costituzione Italiana e dalla Convenzione ONU sui Diritti del Bambino; con la città che non offre spesso alternative alla TV, e – perché no – con la politica che ha finora spesso ignorato i bambini soprattutto perché non votano.

Si è detto all’inizio come la Convenzione ONU sui Diritti del Bambino sia una punto fermo dal quale non si può più prescindere. Tuttavia è necessario avere ben presente che le stesse carte di diritti del bambino non sono di alcuna utilità se non sono accompagnate da politiche dell’infanzia che tentino un approccio globale e coinvolgano tutti gli interlocutori sociali del bambino al fine di promuovere una vera e propria “cultura dell’infanzia”.