N.05
Settembre/Ottobre 2000

Elementi per un discernimento vocazionale comunitario

Vorrei offrire qualche spunto di risposta a tre domande: anzitutto chiarire in che senso si può parlare di un fenomeno così strano come un discernimento “comunitario”. Il discernimento non è, infatti, sempre e solo compito di una persona, tutt’al più in dialogo con qualche esperto? In secondo luogo ci chiederemo: in quale modo la comunità cristiana può esercitare questa funzione? E da ultimo cercherò di suggerire qualche riflessione su chi, all’interno della comunità, svolge un ruolo di particolare rilievo nel discernimento.

 

Di quale fenomeno vogliamo parlare?

Il termine “vocazione” sembra evocare una relazione personale stretta e, per così dire, individuale tra il chiamato e colui che lo chiama.  In una visione “romantica” del processo vocazionale questa dimensione intima e soggettiva viene sottolineata fino a diventare quasi esclusiva. Sembra che la vocazione sia un’esperienza del tutto interiore e debba essere accolta, coltivata, verificata e fatta maturare nell’ambito di una relazione diretta con il Signore. Tutt’al più si ammetterà l’intervento di qualche esperto o consigliere esterno o di qualche autorità ecclesiale, per aiutare nella verifica e nel cammino di risposta. Ma sia l’una (verifica o discernimento) che l’altro (cammino di elaborazione di una risposta libera e consapevole) rimangono fondamentalmente una faccenda personale, di competenza del soggetto “chiamato”.

In realtà le cose non si svolgono mai in questo modo. È vero che l’elemento soggettivo, l’esperienza personale della voce interiore che interpella, la responsabilità ultima della libertà del singolo chiamato sono componenti del processo vocazionale dalle quali non si può prescindere. Ma è ancora più vero che nessuna persona umana è un’isola. La storia di ciascuno s’intreccia con mille altre e riceve influssi, aiuti ed ostacoli da tutte le connessioni interpersonali nelle quali si trova a vivere.

La Parola che chiama e interpella la nostra vita cade, per usare l’immagine biblica del seme, in un terreno che non è fatto soltanto della individuale esistenza di ciascuno ma è composto sempre e necessariamente dal tessuto comunitario e “sociale” nel quale è immersa e si muove ogni persona umana. Prendersi cura di questo terreno, liberarlo dalla zizzania e coltivarlo con attenzione e sapienza: questo è il compito che ogni educatore deve svolgere per favorire lo sviluppo sano e fecondo di una storia vocazionale. In questo senso si può parlare di discernimento comunitario. 

Quanto detto fin qui  vale per ogni scelta di vita, già a prescindere dai suoi contenuti più o meno religiosi, più o meno cristiani. La verità e l’amore sono i due fattori determinanti di ogni decisione solenne. Si vuol dire che non è possibile impegnare seriamente il proprio futuro davanti ad un’ipotesi di vita esigente e costante nel tempo se non si è raggiunto un sufficiente livello di conoscenza stabile e profonda della verità di se stessi, del mondo e di Dio, e se non ci si è in qualche misura “innamorati” di qualcosa o di qualcuno che ci appare degno di una nostra dedizione senza sconti, né rimpianti, né scadenze. Ebbene: la verità e l’amore in tale forma non si presentano, non sono possibili, se non come frutti di una vasta interazione, sana e positiva, tra le persone.

Se si può parlare di “crisi” generale delle vocazioni o se comunque si deve notare una diffusa difficoltà delle nuove generazioni di fronte a scelte impegnative e solenni di vita, qui troviamo una spiegazione del fenomeno. Forse non l’unica ma certo una delle più profonde. La verità superficiale e soggettiva del “pensiero debole” e l’amore ridotto a passione momentanea e a sentimento individuale – entrambi fenomeni tipici, dicono gli esperti, della cultura postmoderna – non sono in grado di sostenere vere e proprie scelte vocazionali. Manca un tessuto comunitario degno di questo nome, capace di far emergere verità di alto profilo e “passioni” di grande respiro. Manca il “discernimento” comunitario positivo. Non si può accusare i giovani di pigrizia o di egoismo. Per tutti, anche e soprattutto per loro, è molto più difficile di prima costruire le premesse indispensabili per produrre scelte vocazionali degne di questo nome, e rimanervi fedeli.

 

Quale comunità cristiana è capace di offrire un discernimento vocazionale?

La Chiesa vive immersa nel tempo e in continuo contatto con le ansie e i problemi, con le gioie e le speranze dell’intera umanità. Svolge la sua missione, quindi, aggiornando il proprio stile e rinnovando costantemente gli strumenti dell’evangelizzazione in riferimento alle circostanze culturali e sociali nelle quali vive. Sarebbe  possibile risolvere in fretta il nostro problema dicendo che una comunità cristiana, per essere terreno fecondo di discernimento vocazionale, deve essere vera, autentica, fervente e trasparente di Vangelo. Sarebbe vero, ma troppo generico. Non aiuterebbe molto la riflessione spirituale e pastorale per una cura aggiornata delle vocazioni.

Cerco allora di individuare qualche urgenza particolare, qualche accento appropriato alla situazione contemporanea, in modo da suggerire dei criteri di verifica e delle linee di programma che toccherà poi agli esperti e ai responsabili sul campo tradurre in scelte concrete. Mi accontento di quattro sottolineature.

1. Una comunità cristiana diventa grembo fecondo di crescita vocazionale quando anzitutto esprime con chiarezza nel proprio stile di vita la testimonianza della totale gratuità dell’amore. Non andremo molto lontano nella evangelizzazione fino a quando non correggeremo la pericolosa deviazione pagana che trasforma la religione in conveniente assicurazione personale per la salvezza dell’anima di ciascun fedele. I cristiani non si preoccupano di “salvarsi”. Con estrema chiarezza lo ha affermato Gesù: chi cerca di salvarsi l’anima, la perderà. I veri discepoli del Vangelo vivono in perdita di sé, esprimendo nelle scelte di vita il desiderio di donarsi gratuitamente al Signore e la testimonianza alla verità della sua Parola. Lo scopo della vita non è la massima realizzazione di sé, ma la massima capacità di amare così come siamo amati da Lui. L’amore, nella forma che esso ha assunto nella vita e nella morte di Gesù, deve fiorire nelle nostre comunità e trasparire da ogni gesto personale e comunitario dei cristiani. Tutto deve convergere a questo, e servire alla manifestazione di questa gratuità totale dell’amore cristiano. Senza questo “calore” (Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, ha detto Gesù) la vita non si scalda e non diventa feconda; non cresce e non si sviluppa fino al momento in cui può finalmente determinarsi in scelte vocazionali degne di questo nome. Quanti adulti e giovani adulti, tali secondo la loro data di nascita, sono rimasti bloccati a stadi infantili e immaturi dell’esperienza di fede, così da non essere in grado di elaborare le scelte vocazionali che pure il Signore si aspetta da loro?  Questa considerazione investe le radici del modo stesso di presentarsi della comunità cristiana, il suo stile di fondo, la qualità e il senso dei suoi gesti, il motivo per cui le si appartiene e la si frequenta. È importante domandarsi quanto di questo amore gratuito si vede dall’esterno, da parte di chi non frequenta o non viene più. E domandarselo spesso. Se i giovani non gustano questo, che è l’unico vero sapore di Dio, rimangono privi dell’esperienza necessaria per poter orientare cristianamente la vita in qualsiasi direzione vocazionale.

2. La testimonianza dell’amore cristiano non è questione di slanci emotivi o di sentimentalismi. Essa, per diventare efficace strumento di stimolazione vocazionale, deve essere accompagnata da due elementi che, purtroppo, raramente si trovano insieme nella comunità cristiana. Intendo parlare della vera gioia e della convincente ragionevolezza. In realtà abbiamo comunità cristiane effervescenti e, in questo senso, gioiose, che però pagano il loro stile accattivante con un eccesso di emotività e con una scoraggiante diffidenza nei confronti della riflessione. Non accettano dubbi sulla fede e non accompagnano nessuno a credere “con la testa”. D’altro canto, non è raro trovare comunità che si impegnano seriamente nella ricerca biblica, teologica, sociale e quant’altro, ma finiscono per diventare circoli ristretti di teorici della fede, con scarsa se non nulla partecipazione del cuore e della passione per la vita concreta della Chiesa. Ritengo che entrambe queste comunità “dimezzate” non siano luogo di crescita e di discernimento vocazionale. Bisogna cercare la sintesi, o meglio la continua tensione tra la gioia della fede e la fatica della ricerca delle ragioni del nostro credere e sperare in Gesù Cristo per poterle esibire a chiunque ci chiede conto della speranza che è in noi. Bisogna costruire comunità cristiane nelle quali la gioia del condividere e del servire nell’amore sia accompagnata dalla possibilità fraterna di poter sempre domandare e capire la verità.  Allora il cuore e la mente si trovano uniti e cooperanti nella vita del discepolo. Allora e solo allora si determinano le condizioni per una crescita spirituale che sia al riparo da cortocircuiti sentimentali e, al tempo stesso, non cada in sterili e impietose astrazioni mentali.

3. Sarebbe bello poter trovare nella comunità cristiana una terza caratteristica, particolarmente significativa per la testimonianza vocazionale nel nostro tempo. Dobbiamo contrastare con tutte le forze l’immagine di una comunità cristiana sempre e solo impegnata a rimproverare e correggere, a giudicare e lamentarsi dei tempi funesti di morta fede e d’empietà trionfante. Senza pacifismi ad oltranza e non rinunciando a denunciare il male anche quando si resta soli a farlo, dobbiamo comunque far prevalere nello stile delle nostre comunità la proclamazione della positività della vita, l’instancabile misericordia per le sofferenze del mondo e la tenace fiducia nel futuro. In un mondo incline al pessimismo e chiuso nella ricerca di immediati “consumi” di tutto ciò di cui si può fruire, solo l’esercizio di una speranza più grande e di un’apertura generosa al domani può giustificare l’ascesi, l’impegno e la scommessa sul futuro che sono alla base di ogni seria risposta vocazionale.

4. L’elenco potrebbe continuare con la segnalazione di altri tratti di una comunità cristiana capace di innescare e discernere il processo della accoglienza e della risposta alla vocazione. Mi fermo tuttavia ad un’ultima indicazione. La comunità cristiana dovrebbe presentarsi al mondo come luogo umano in cui si vive una libertà, quella dei figli di Dio, che ha finalmente trovato il senso e lo scopo del suo impegnativo esercizio, e si traduce in forte responsabilità nei confronti della venuta del Regno di Dio. Una libertà responsabile e attiva, non ripiegata sulla ricerca di se stessa, come la libertà degli adolescenti, ma sostenuta dalla grazia divina e quindi orientata ad esprimere atti di amore, segno dell’avvento del Regno. Deve essere successo qualcosa di molto grave e di molto sbagliato se i nostri giovani avvertono invece l’invito a far parte attiva della comunità cristiana come un invito all’osservanza di regole, all’obbedienza passiva a doveri e proibizioni, come un invito ad accettare il dominio di un Dio Padrone e Giudice inflessibile. Un’esperienza religiosa siffatta non produce alcun slancio vocazionale, non sostiene il coraggio necessario a mettersi a seguire Gesù, pronti a lasciare tutto pur di non perdere quella libertà del cuore che ci rende, con Lui e per suo dono, corresponsabili nell’amore per la salvezza del mondo. 

 

Chi si assume, nella comunità cristiana, la responsabilità di offrire un discernimento comunitario?

La prima risposta alla domanda sarebbe: “tutti”. Le caratteristiche della comunità cristiana che ho esemplificato più sopra vanno coltivate e promosse da tutti i battezzati, ciascuno con il proprio ruolo e la propria spiritualità, nessuno escluso. Nella Chiesa di Cristo nessuno può accontentarsi di essere un cliente o un utente passivo. Già questa considerazione, se applicata al concreto della vita pastorale, ci porterebbe molto lontano nella verifica della qualità cristiana delle nostre comunità. È possibile tuttavia, su questo sfondo di mobilitazione generale, segnalare qualche soggetto al quale è possibile attribuire una speciale responsabilità.

Mi riferisco anzitutto alla famiglia. Le difficoltà in cui essa è immersa nelle odierne condizioni di vita non devono scoraggiarci. È vero che spesso il nucleo familiare non riesce a trasmettere i valori e a sostenere il dialogo tra le generazioni. Ma questa considerazione ci deve vedere ancora più impegnati a sostenerlo e cercare ogni mezzo per offrire soprattutto ai genitori gli strumenti per svolgere il loro compito.

Un ruolo di grande rilievo è svolto anche dal “gruppo”, dalla piccola comunità cristiana nella quale le relazioni interpersonali sono significative; nella quale ci si chiama per nome. La grande comunità ecclesiale  (dalla parrocchia urbana, all’associazione o movimento, alla comunità diocesana) non può che essere aggregazione viva e dinamica di queste cellule che ne compongono il tessuto. Si può sperimentare il valore del vangelo in modo pieno solo quando esso attraversa una trama significativa di relazioni e di testimonianze che raggiungono il mio “io” irrepetibile ed unico.

Allo stesso tempo, è necessario che ogni realtà minore sia liberata dal rischio di chiudersi in se stessa. Deve essere costantemente aiutata a riconoscersi come membro di un corpo più grande. Deve inserirsi in un cammino di popolo garantito dalla cordiale appartenenza alla comunità più grande. La diocesi e, in essa, il ministero tipico del Vescovo, sono da questo punto di vista il riferimento essenziale e indispensabile per ogni realtà di Chiesa, che attraverso questa appartenenza si apre ulteriormente alla partecipazione alla vita della comunità “cattolica” nella quale ritrova il proprio Vescovo unito con quelli di tutto il mondo, intorno al successore di Pietro.

La riflessione che suggerisco potrebbe sembrare non del tutto pertinente al problema vocazionale. Sono invece convinto che molte paralisi, molti ritardi e deviazioni nel cammino di discernimento e di maturazione delle scelte di vita dipendono dalla mancanza di chiarezza in questo complessivo discorso sui vari strati della appartenenza ecclesiale.