N.05
Settembre/Ottobre 2000

Il cammino di fede sorgente del discernimento

Obiettivo di questo mio intervento è quello di far riscoprire il discernimento come elemento costitutivo dello stesso cammino di fede con cui la comunità accompagna ogni battezzato e non ristretto, quasi esclusivamente, al momento specifico della decisione vocazionale. Potremmo anche affermare che quest’ultima non sarebbe neppure autentica se non fosse preceduta da quel cammino che conduce il credente alla maturità di fede. Tutto questo è espresso in modo chiaro e forte da questa espressione tratta dal documento conclusivo del Congresso europeo sulle vocazioni del 1997: La maturità vocazionale è decisa da un elemento essenziale che dà veramente senso al tutto: l’atto di fede. L’autentica opzione vocazionale è a tutti gli effetti espressione dell’adesione credente, e tanto più è genuina quanto più è parte ed epilogo d’un cammino di formazione alla maturità di fede (NVNE, 37/e).

 

Premessa

Una scelta vocazionale non è pensabile al di fuori di un contesto di fede e di una fede matura; a meno che non si pensi alla vocazione come ad una “prestazione di servizi” a favore del prossimo, senza il coinvolgimento totale della propria vita. Ma se per scelta vocazionale intendiamo una piena disponibilità a mettere la propria vita nelle mani del Signore, allora questa non può che essere frutto di un serio cammino di sequela.

Fu proprio la consapevolezza dello stretto legame esistente tra fede e vocazione a indurre Paolo VI a scrivere: Nessuno segue un estraneo; nessuno offre la sua vita per uno sconosciuto. Se c’è crisi di vocazioni, non sarà forse perché prima di tutto vi è crisi di fede! Quale grande compito ricade sui pastori delle anime, sui genitori, sugli educatori cristiani, di guidare la gioventù moderna alla conoscenza profonda di Cristo, alla fede in lui, all’amicizia con lui[1].

E, recentemente, Giovanni Paolo II, parlando ai giovani, ha così sintetizzato il cammino che conduce il credente ad una fede “adulta” e “responsabile”: Questo evento nei pressi di Cesarea di Filippo ci introduce in un certo senso nel “laboratorio della fede”. Vi si svela il mistero dell’inizio e della maturazione della fede. Prima c’è la grazia della rivelazione: un intimo, un inesprimibile concedersi di Dio all’uomo. Segue poi la chiamata a dare una risposta. Infine, c’è la risposta dell’uomo, una risposta che d’ora in poi dovrà dare senso e forma a tutta la sua vita. Ecco che cosa è la fede! È la risposta dell’uomo ragionevole e libero alla parola del Dio vivente[2].

Questa stessa profonda convinzione ha sollecitato in questi anni la pastorale vocazionale a fare un salto di qualità, passando dalle esperienze agli itinerari di fede. Questi ultimi, però, potranno essere realizzati a condizione che le nostre comunità, facendo propria la scelta educativa, vincano la tentazione sempre ricorrente di “utilizzare” i giovani, anziché formarli.  Mi pare che nel vissuto quotidiano della pastorale nelle realtà parrocchiali prevalga ancora la tendenza a vedere nei giovani un materiale umano da impiegare nel buon funzionamento della parrocchia stessa o nell’organizzazione della carità o nelle varie forme delle “nuove solidarietà”. Senza togliere nulla alla positività e bontà di queste esperienze, occorre però rilevare che la generosità del giovane e la sua oblatività, non possono essere incanalate unilateralmente nel senso del “fare” per gli altri o del donare una parte di tempo per gli altri senza accorgersi che quelle disposizioni del giovane esprimono la sua sete di esistere (ex-sistere) uscendo da sé per incontrare l’altro nella libertà e ricevere la propria identità nella relazione. Occorre cioè aver chiaro che il compito fondamentale della Chiesa verso i giovani è di trasmettere la fede aiutando la crescita umana[3].

 

La scelta educativa

Difficilmente, infatti, si potranno avere adulti nella fede, se la formazione non sarà una priorità pastorale, anche a costo, dopo attento discernimento, di un certo sfoltimento delle attività e iniziative. La Chiesa che ha una grande tradizione educativa, soprattutto vocazionale, non deve perdere in questo tempo dell’identità debole, lo slancio educativo. Ciò comporterà molti tagli delle inutili incombenze che affaticano oggi il ministero della Chiesa[4]. Come non essere d’accordo con chi fa notare che il decennio che è appena terminato sembra un tempo che ha visto spegnersi lo slancio educativo. La stessa Chiesa è sembrata dirigersi verso altri approdi, molto sporgente sul sociale o meglio sui temi della carità e del volontariato[5].

Questa attenzione educativa, sempre necessaria, si è fatta oggi più urgente a motivo del clima culturale che tutti respiriamo, ma che nei giovani sembra avere effetti devastanti[6].

La cultura attuale, infatti, con la sua “complessità”, tenta in tutti i modi di relegare la fede in ambiti estremamente ristretti e circoscritti, impedendo così che incida significativamente nelle scelte di vita e allargando sempre più il divario tra la fede e la vita. L’atto di fede è per sua natura dinamico, non statico. In tale dinamismo vi è una duplice polarità, oggettiva e soggettiva: il polo oggettivo è costituito da un nucleo di verità oggettive. Normalmente non sono queste a fare problema al nostro giovane credente. Più difficile e problematico è invece il raccordo tra polo oggettivo e polo soggettivo. È evidente che solo quando queste verità divengono parte del vissuto, il soggetto può dire di essere credente-amante-desiderante alla luce della fede. Molto probabilmente vi sono dei contenuti di fede, nella vita o nella proclamazione di fede del giovane, ai quali manca questo indispensabile raccordo. È come un credere senza cuore o senza convinzione. O come un credo “domenicale” che non si estende ai giorni feriali. In altre parole, se al polo oggettivo manca il polo soggettivo, ne verrà fuori un credere debole e instabile, povero di quell’energia e di quell’entusiasmo tipici di chi scopre nel piccolo della sua storia il compiersi di un mistero grande[7].

 

L’integrazione fede-vita

L’obiettivo da perseguire, allora, non può che essere quello dell’integrazione tra la fede e la vita, se non ci si vuole ritrovare con una fede “insignificante”, incapace di favorire e di sostenere scelte vocazionali fedeli nel tempo. Gli osservatori più attenti non mancano di far notare come la separazione tra fede e vita può perdurare anche dopo che si è fatta la scelta della vita consacrata. Questo pericolo li porta ad affermare, senza alcun timore, che invece di sforzarci anzitutto di introdurre i giovani nella tradizione dell’ordine o della congregazione, nell’acquisire determinati atteggiamenti o abitudini, forse sarebbe meglio preoccuparci per prima cosa dell’autenticità del loro incontro con Dio e della maturità della loro fede. Chi non ha esperienza che è amato da Dio non può annunciare l’amore di Dio. L’uomo che non ha esperienza dell’amore di Dio sarà capace di utilizzare anche la sua vita religiosa per affermarsi, per dimostrare la giustezza delle sue idee, delle sue azioni, per attirare il riconoscimento degli altri[8].

Siamo così messi in guardia anche dalla tentazione di prendere delle scorciatoie[9]  o di fare “sconti”[10]  nell’accompagnare i giovani nella fede. Per questo a chi è impegnato nella formazione dei giovani religiosi vien detto con chiarezza che la prima fase del cammino consiste allora soprattutto nel verificare se ha una qualche esperienza realmente religiosa o se solo pensa di averla. Esiste un suo rapporto reale con Cristo o si accontenta solo di sentimenti che egli ascrive aprioristicamente a Cristo? Senza un’esperienza religiosa autentica nascono tantissime domande sull’autenticità della sua vocazione religiosa. E fino a quando il giovane non ha una certa relazione oggettiva, reale, con il Cristo vivente, sarà molto difficile qualsiasi formazione religiosa. Spiegare il cammino di Cristo, la mentalità di Cristo e ciò che ne segue senza amore per Cristo è un’impresa già in anticipo condannata all’insuccesso[11].

Non possiamo che essere tutti d’accordo sul fatto che solo una fede personalizzata è fede matura, assunta in proprio, convincente proprio perché “evidente” lungo i giorni dell’esistere e solo una fede personalizzata può condurre ad un’opzione di vita[12].

Pertanto la pastorale vocazionale chiede alla pastorale “ordinaria” di impegnarsi con tutte le forze per favorire il senso di unità e continuità del progetto di vita e dell’identità della persona stessa. I nostri giovani, infatti, o almeno quelli cui si rivolge una certa attenzione da parte dell’educatore, in genere pregano, fanno catechismo, forse anche un po’ di apostolato ecc., non si può rimproverare loro di non fare queste cose doverose. Il problema è che sovente sono attività tra loro staccate, non abbastanza collegate, quasi  non si conoscono tra loro; difficilmente è possibile riconoscere in esse un unico motivo ispiratore, un medesimo tessuto connettivo, uno stesso contenuto accolto e poi pregato e studiato e condiviso e annunciato, e che cresce sempre più e sempre più, di conseguenza, è creduto-amato-desiderato-vissuto. Quanto poche volte ciò che è creduto o comunque è oggetto di fede è anche celebrato, vissuto, riconosciuto come punto di riferimento della propria identità, e dunque amato e appassionatamente scrutato[13].

Poiché il cammino di fede non conduce all’accettazione di alcuni enunciati, ma ad una Persona[14] provoca, quando è autentico, con le sue “scoperte” e con le sue esigenze un continuo discernimento nella vita del discepolo, capace di accompagnarlo, attraverso passaggi decisivi a quella maturità di fede che è condizione indispensabile per delle scelte vocazionali stabili e totalizzanti.

Quali sono questi passaggi decisivi?

 

Dall’insignificanza al mistero

Accettare il mistero della vita è il primo passo per muoversi in direzione autenticamente vocazionale[15].

Giovanni Paolo II, dopo aver confidato ai giovani, riuniti a Roma per la celebrazione della XV Giornata Mondiale della Gioventù, il suo cammino di fede e la progressiva scoperta e accoglienza della volontà di Dio nella sua vita, così ha proseguito: Carissimi amici, perché all’inizio del vostro Giubileo ho voluto offrirvi questa testimonianza personale? L’ho fatto per chiarire che il cammino della fede passa attraverso tutto ciò che viviamo. Dio opera nelle vicende concrete e personali di ciascuno di noi: attraverso di esse, talvolta in modi veramente misteriosi, si presenta a noi il Verbo “fatto carne”, venuto ad abitare in mezzo a noi. Cari giovani e ragazze, non permettete che il tempo che il Signore vi dona trascorra come se tutto fosse un caso[16].

Solo se si è capaci di riconoscere l’amore di Dio che si rende visibile nella propria esistenza attraverso persone ed eventi, sarà possibile una decisione vocazionale, come risposta a questo amore. Ecco l’affascinante avventura e grande responsabilità che il Signore consegna a chi nella Chiesa ha il compito di accompagnare il credente nel discernimento vocazionale: aiutare il giovane a riconoscere nella sua storia il cammino che Dio ha fatto per venire incontro alla sua creatura, dando e imparando a dare un significato credente e coerente a tutti i frammenti e avvenimenti del suo esistere, tale da ricavarne, da un lato, l’immagine assolutamente unica-singola-irripetibile del volto di Dio e di quella parola da lui detta e depositata nel cuore dell’esistenza del singolo credente, e da riconoscere, dall’altro, in questa teofania così legata alla propria esistenza il senso del proprio posto, della propria missione nella vita[17].

Tale impegno è oggi quanto mai urgente, giacché in non pochi giovani si manifesta l’incapacità di percepire la propria esistenza come una storia dotata di senso. Vita in cui solo il tempo presente sembra avere un valore e un senso e che, quindi, appare più come un susseguirsi di presenti che come un racconto dotato di un inizio e di una fine legati da un intreccio che ne svela il significato[18].

La contemplazione, colma di stupore e di gratitudine, dell’amore con cui il Signore da sempre avvolge la propria vita, non può che avere effetti “destabilizzanti” nella vita del credente: il timore e la paura, che spingono l’uomo a ripiegarsi su se stesso, imprigionandolo dentro gli orizzonti ristretti dei propri bisogni, si sciolgono per lanciarlo in un abbandono fiducioso tra le braccia di Colui dal quale ci si sente amati, immeritatamente, da sempre e per sempre. È stata questa l’esperienza di Ch. de Foucauld, il quale “raggiunto” dalla bontà del Signore esclamò: dal momento in cui compresi che c’era un Dio che mi amava, ho anche capito che non potevo più vivere senza di Lui.

 

Dall’orgoglio all’umiltà

Il più delle volte l’esperienza dell’amore gratuito e preveniente del Signore la viviamo proprio quando scopriamo i nostri limiti, la nostra fragilità, i nostri peccati. È molto importante vedere in mezzo a questi tempi inquieti, quando tutto si misura in termini di quantità, che la vera vocazione è quella segnata dal perdono sperimentato e dalla preghiera di rimanere con il Signore. Perché una memoria ferita, che pesa, se è lavata nel perdono, smette di vedere il peccato e insieme non riesce a dimenticare Colui che si incontra nel perdono[19].

Ma non sempre si è capaci di accettare i propri limiti; spesso si è tentati di dare a questa esperienza altre soluzioni: sforzarsi di farcela da soli, aumentando l’impegno e l’esercizio raffinato della propria sapienza; oppure soccombere quando diventa motivo di disperazione o quando spinge ad ubriacarsi di disimpegno e di frastuono. Ma quando questa esperienza, sofferta e scoperta, ci conduce alla verità di noi stessi e ci sprofondiamo nell’invocazione, alzando al Signore il grido della nostra vita, allora si ritrova la gioia di vivere e la libertà di sperare. 

Il vivere così l’esperienza dei propri limiti è di un’importanza vitale nel cammino vocazionale, perché questa scoperta della feribilità e della negatività che segna la propria sfera intellettuale e morale, affettiva e sessuale conduce alla messa in crisi di quell’io ideale che fin dall’adolescenza ci si costruisce o si eredita dalle aspettative dei genitori e su cui si proiettano i propri desideri di riuscita umana e spirituale, di realizzazione di sé. Un io che però, essendo posticcio, immaginario, è puramente idolatrico, dotato dell’inconsistente vuotezza e della potenza di seduzione tipiche dell’idolo. E che deve essere abbattuto affinché il giovane possa conoscere la propria creaturalità, aderire al proprio “io” reale, accettare di essere quella persona particolare, con certi doni e certi limiti, che il Signore ha amato e chiamato[20]. È il messaggio che il Papa ha offerto recentemente ai giovani, quando ha affermato: Sì, cari amici, Cristo ci ama e ci ama sempre! Ci ama anche quando lo deludiamo, quando non corrispondiamo alle sue attese nei nostri confronti. Egli non ci chiude mai le braccia della sua misericordia. Come non essere grati a questo Dio che ci ha redenti spingendosi fino alla follia della Croce? A questo Dio che si è messo dalla nostra parte e vi è rimasto fino alla fine?[21].

L’umiltà non può che essere il distintivo luminoso di ogni autentico chiamato[22].

 

Scegliere Dio e non le opere (Mons. F-X Nguyen Van Thuan)

Debbo mettere in guardia i giovani da una tentazione di cui oggi, tra l’altro, si fanno spesso complici i preti e gli uomini di Chiesa: quella che in nome di questo primato dell’amore, interpretato in senso immediatamente operativo come un fare-il-bene-per-gli-altri, relativizza la parola della Scrittura e dunque il fondamento evangelico, il primato della fede, la conseguenza e l’adesione personale al Cristo Signore di fronte all’urgenza dell’agire e dell’operare. Facendo così del cristianesimo una via filantropica e solidaristica che in Gesù trova un maestro di valori etici[23].

Questa visione della vita cristiana ha avuto non poche ripercussioni sulle scelte vocazionali di un recente passato. Quante volte ci si ritrova a constatare che il sacerdozio o la vita consacrata nell’animo di alcuni giovani sono ricondotti, o meglio, “ridotti” a “cose da fare”, più che ad un “modo di essere”. Nel primo caso si tratta di continuare ad essere noi i padroni della nostra vita, nel secondo si consegna con amore il timone della propria esistenza al Signore. La maturazione della coscienza vocazionale deve passare attraverso quella che chiamerei una sana passività. Non sono io il protagonista. L’iniziativa, gratuita e inattesa, è e deve rimanere in mano a Gesù, al Padre suo e al loro Spirito[24].

Ed Enzo Bianchi, con la lucidità che gli è propria, osserva: Al di là dell’obbedienza ai comandamenti e dell’ordinamento delle relazioni umane c’è poi l’assolutezza del Cristo. Sì, è importante conoscere se stessi, ma non è il fine. Il fine è di arrivare alla maturità che consente di scegliere di rinnegare se stessi, in piena libertà e per amore e seguire Cristo e basta, senza predeterminare il cammino e le prestazioni. Il cristianesimo che il giovane incontra oggi è molto strutturato come via delle opere, con un’accentuazione forte sul volontariato, la solidarietà, l’impegno sociale e caritativo, la dedizione agli ultimi, ai nuovi poveri. E così corre il rischio di presentarsi come prodotto preconfezionato che predetermina modi e contenuti, lasciando poco spazio alla libertà esigente del Signore che può chiamare un giovane a seguirlo e basta senza sapere dove questo lo porterà e che cosa dovrà fare. Invece, è solo in quest’ultimo modo che il cristianesimo è salvato nella sua dimensione poetica, di creatività e di gratuità, e si presenta al giovane come avventura di tutta una vita, non come esperienza a termine, come impegno di breve periodo[25].

 

Dall’impegno generoso all’amore verginale

Da più parti e con insistenza vien chiesto che la pastorale vocazionale faccia dell’annuncio dell’amore verginale il cuore pulsante del suo impegno. Tutti concordiamo sul fatto che l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente[26]. Infatti l’amore è la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano. Ne deriva che l’essere umano ci appare come l’unica realtà creata che si realizza in pienezza nel dono sincero di sé e che la sua vita ha senso solo nell’amore[27].

Ma non si tratta tanto di diventare filantropi o degli operatori sociali, ma uomini e donne capaci di amare, che tendono a fare delle loro relazioni un capolavoro d’amore, certi che solo nell’amore sta il senso e il gusto della vita. Ma l’amore deve essere imparato, affinato, accresciuto, purificato, ordinato; soprattutto ha bisogno di alimentarsi continuamente alla sua sorgente: Dio. Se l’amore è sempre una vertigine di perché senza risposta, tanto più lo è l’amore di chi sceglie Dio. Chi sceglie l’amore di Dio al di sopra di tutto, al punto da poter dire di no all’affetto d’una creatura tutta per sé, rimanda in qualche modo “al principio”, alla condizione originaria dell’essere umano, di ogni essere umano, che da Dio viene e da lui è stato amato per primo e reso capace d’amare. Prima di essere profezia del mondo futuro la verginità è memoria delle origini, e tale memoria ricorda a ogni essere amante[28].

Allora comprendiamo perché il Direttorio di pastorale familiare arriva ad affermare che la verginità, in quanto dice l’assoluto di Gesù Cristo e del suo Regno al quale ci si dona e ci si dedica in modo totale e con cuore indiviso, “tiene viva nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e da ogni impoverimento”. L’esistenza stessa di persone vergini per il Regno dice e ricorda continuamente a chi è sposato nel Signore che il suo matrimonio continua a rimanere grande e si qualifica come evento di salvezza perché e se rimane relativo al Regno e alla sequela di Cristo[29].

È quanto ha ricordato Giovanni Paolo II, rivolgendosi recentemente ai giovani: Voi pensate alla vostra scelta affettiva, e immagino che siate d’accordo: ciò che veramente conta nella vita è la persona con la quale si decide di condividerla. Attenti, però! Ogni persona umana è inevitabilmente limitata: anche nel matrimonio più riuscito, non si può non mettere in conto una certa misura di delusione. Ebbene, cari amici: non c’è in questo la conferma di quanto abbiamo ascoltato dall’apostolo Pietro? Ogni essere umano, prima o poi, si ritrova ad esclamare con lui: “Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Solo Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio e di Maria, il Verbo eterno del Padre nato duemila anni or sono a Betlemme di Giudea, è in grado di soddisfare le aspirazioni più profonde del cuore umano[30].

Quanta strada c’è ancora da percorrere perché nelle nostre comunità e, soprattutto, nella mente e nel cuore dei giovani, si passi da una concezione negativa della verginità ad una positiva. Su questa strada si è mosso il card. Martini, quando commentando l’espressione paolina: “Il corpo non è fatto per la fornicazione, è per il Signore, e il Signore per il corpo” (1Cor 6, 13), così scriveva: La reciprocità espressa nella stupenda affermazione di S. Paolo è un mistero che allarga tutte le nostre prospettive e costituisce una formidabile liberazione per il corpo. “Il corpo per il Signore”, è per la pienezza di vita, non per la distruzione, è destinato a vivere l’amore per il Signore nel tempo e nell’eternità. “Il corpo è per il Signore”, il mio cuore abita presso di lui, lo ama, lo riconosce, e programma il proprio cammino per poterlo raggiungere e stare sempre con lui. “Il Signore è per il corpo”, il Verbo, il Figlio di Dio si è fatto carne, ha preso corpo per essere con me e come me, per unirsi e darsi a me, per mostrarmi nel tempo il suo amore eterno, per insegnarmi a vivere questo mio corpo come dono d’amore[31].

 

Conclusione 

Se è vero che la fioritura delle vocazioni, soprattutto di quelle al sacerdozio e alla vita consacrata, sono un eloquente segno della “vitalità” e della fede di una comunità[32] è anche vero, e l’esperienza continuamente ce lo conferma, che costituisce anche un grande dono per la vita di tutta la comunità e offre una singolare spinta a tutti i battezzati a venire fuori dalla mediocrità e a spiccare “un salto di qualità” nel proprio cammino di fede. Perché, come recita un proverbio della Sierra Leone, quando uno stormo di uccelli si leva in volo, vuol dire che qualcuno si è levato per primo.

 

 

 

Note

[1] Paolo VI, Messaggio per la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 1998.

[2] Giovanni Paolo II, XV Giornata Mondiale della Gioventù, Tor Vergata 19 agosto 2000.

[3] Enzo Bianchi, in Rivista del Clero, 1994, n. 4, p. 24.

[4] Franco Giulio Brambilla, La dimensione educativa punto nodale della pastorale, in Orientamenti pastorali 6/2000, p. 50.

[5] Franco Giulio Brambilla, op. cit., p. 40.

[6] “Il giovane nel corso del suo quotidiano vivere sperimenta luoghi differenti che sovente gli offrono valori, modelli di vita, codici e norme assai diversi tra di loro quando non addirittura antagonisti. Il passaggio quotidiano del giovane dalla famiglia alla scuola, al lavoro, al gruppo dei pari, alle associazioni, alle polisportive e ai mass media è l’esperienza di un cammino in una realtà sociale disomogenea e frammentata che lo invita a vivere in modo pragmatico e aprogettuale, e ad evitare scelte coerenti se vuole poter usufruire di tutte le promesse che ogni luogo che attraversa gli fa”. Mario Pollo, La soggettivizzazione giovanile, in Note di Pastorale giovanile, Anno XXXII, Novembre 1998.

[7] Amedeo Cencini, in AA.VV. Direzione spirituale e accompagnamento vocazionale, Ancora, Milano 1996, p. 372.

[8] Marko Ivan Rupnik, Dall’esperienza alla sapienza. Roma 1996, p. 31.

[9] “Talvolta si tenta di superare questa spaccatura tra fede e intelligenza, tra fede e cultura con una sintesi minimalista o con quattro chiarezze di taglio integralista che prima o poi si riconoscono come via sterile, senza sapore”. Marko Ivan Rupnik, op. cit., pp. 62-63.

[10] “Mi pare che in queste analisi, fatte da adulti, traspaia a volte un senso di colpa degli adulti stessi nei confronti dei giovani per l’angustia di spazi e di orizzonti, di senso e di possibilità che caratterizza il mondo che essi hanno preparato (o, forse, non hanno preparato) per i giovani. Senso di colpa che si traduce spesso in riflessioni lamentose sulla fragilità psicologica dei giovani, sul loro rifugiarsi nell’individualismo e nel soggettivismo, in atteggiamenti intimistici e narcisistici; riflessioni che, a loro volta, tendono spesso a risolversi in conclusioni indulgenti disposte a ‘scontare tutto’ al giovane. Così il senso di colpa viene scaricato in una sorta di complicità”. Enzo Bianchi, op. cit., p. 246.

[11] Marko Ivan Rupnik, op. cit. , p. 67.

[12] Amedeo Cencini, op. cit., p. 364

[13] Ivi, p. 384-385.

[14] “L’esperienza cristiana non è generica proposta di valori, e neppure un’etica dell’amore: è incontro concreto e decisivo con Gesù Cristo. Un incontro che permette di riconoscere Gesù come Maestro e Signore e se stessi come discepoli. Credere comporta per natura sua un progetto globale di vita”. CEI, Educare i giovani alla fede, 5.

[15] Amedeo Cencini, op. cit., p. 387.

[16] Giovanni Paolo II, Giornata Mondiale della Gioventù, 15 agosto 2000, in Piazza S. Pietro.

[17] Amedeo Cencini, op. cit., p. 366.

[18] Mario Pollo, op. cit., p. 9.

[19] Marko Ivan Rupnik, op. cit., p. 30.

[20] Enzo Bianchi, op. cit., p. 249.

[21] Giovanni Paolo II, XV Giornata Mondiale della Gioventù, Tor Vergata 20 agosto 2000.

[22] “È così escluso in radice ogni vanto e ogni presunzione da parte dei chiamati. L’intero spazio spirituale del loro cuore è per una gratitudine ammirata e commossa, per una fiducia ed una speranza incrollabili, perché i chiamati sanno di essere fondati non sulle proprie forze, ma sull’incondizionata fedeltà di Dio che chiama”. Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, 36.

[23] Enzo Bianchi, op. cit., p. 251.

[24] Diego Coletti, Il discernimento vocazionale del sacerdozio ministeriale, in Supplemento a “Prebyteri”, p. 11.

[25] Enzo Bianchi, op. cit., p. 252.

[26] Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 10.

[27] CEI, Direttorio di Pastorale familiare, Roma 1993, n. 23.

[28] Amedeo Cencini, Per amore, EDB, Bologna 1994, pp. 44-45.

[29] CEI, Direttorio di Pastorale familiare, Roma 1993, n. 25.

[30] Giovanni Paolo II, XV Giornata Mondiale della Gioventù, Tor Vergata 20 agosto 2000.

[31] Carlo Maria Martini, Sul corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000, pp. 75-76.

[32] “Quando un giovane percepisce la chiamata e decide nel suo cuore il santo viaggio per realizzarla, lì, normalmente, c’è una comunità che ha creato le premesse per questa disponibilità obbedienziale” (NVNE, 19/b).