N.06
Novembre/Dicembre 2000

La speranza è ancora una virtù? Per una ricomprensione teologico – esistenziale della virtù della speranza

L’importanza di rileggere il tema della vocazione attraverso tutte le sue possibili modulazioni, accanto all’imprescindibile necessità di un chiarimento teologico, corrisponde all’esigenza di offrirne una più ampia risonanza nella concreta azione pastorale. Lo scopo di questo studio è di tentare un approccio teologico alla virtù della speranza con l’intento di chiarirne la prospettiva vocazionale. Dopo un primo accostamento all’idea della speranza, che corrisponde all’impegno di riguadagnare questo tema dentro il più ampio capitolo della spiritualità cristiana, ci si soffermerà, in particolare, sull’interpretazione cristologica della seconda virtù teologale per delineare un possibile legame tra di essa e la dimensione vocazionale della vita[1]

 

Approssimazioni verso la terra della speranza

Non è possibile un accostamento alla speranza come virtù cristiana senza tentare una prima ricognizione di alcuni passaggi nodali che possano predisporre a maturare in questa precisa prospettiva la percezione della propria esistenza. Il quadro di riferimento resta in prima battuta la sincera capacità dell’uomo di ritorno su di sé per scoprire, quali dimensioni più vere dell’esistere, un vivo senso della propria precarietà e del proprio limite, dentro cui però non restare imprigionati nell’orizzonte fatalistico della sconfitta, ma per maturare il più vivo desiderio di infinito. È precisamente nella misurazione del proprio perimetro esistenziale che ciascun uomo può scoprire come la sua vita non sia chiamata a restare ripiegata su di sé, ma contenga il germe di un desiderio più grande, che non può essere semplicemente quello che lo ricaccia nella soddisfazione dei bisogni del presente, né quell’intuitiva sete di futuro, non del tutto cancellata dal crudo realismo di cui sembra sostanziarsi la percezione dell’esistenza di tanti nostri contemporanei. Così se la lucida delimitazione di se stesso nella dimensione della finitudine scaccia dall’uomo ogni tentazione prometeica di essere fautore assoluto del proprio destino, la nostalgia di assoluto traccia per lui l’umile ed arduo compito di riprendere continuamente la propria vita per sostanziare ed anticipare quel bene che ha il sapore di eternità. Questa visione corrisponde intuitivamente a quanto la tradizione cristiana, lucidamente espressa nella sintesi tomista, ha assegnato alla virtù della speranza: “La speranza è un tipico atteggiamento umano fondato dal bene, dalla realtà una e complessa da cui la persona è attratta e in cui cerca la completezza. Il bene sperato consta di alcune caratteristiche imprescindibili: è importante in ordine alla crescita e alla perfezione della persona; ancora non è stato raggiunto ma può essere conseguito; è possibile: è arduo, futuro, possibile”[2].

Rileggere questa obiettivazione della speranza nel nostro contesto attuale significa imparare a collocarla tra due possibili estremi nei quali essa viene ad essere estenuata: l’assicurazione di fronte al futuro e la disperazione. L’incertezza circa la propria vita e più profondamente circa la propria identità, patita oggi da molti uomini, non di rado genera atteggiamenti di ricerca di sicurezze, pur fragili, ma comunque immediatamente a disposizione. La ricerca di assicurazioni sul proprio destino scaturisce da un senso di paura sul possibile venir meno di quelle cose e di quelle persone che rappresentano le certezze e conferiscono valore all’esistenza. Anche la relazione con l’altro, con gli altri che sono prossimi alla vita, tende ad essere vissuta come ricerca di conferme su se stessi, più che in una matura relazione oblativa e nella capacità di percepire il dono gratuito della sua presenza dentro l’esistenza. Di fronte ad un futuro i cui contorni non solo sfuggono ad una piena definizione, ma che sembra profilarsi come aggressivo e sgretolante, si genera un atteggiamento protettivo che porta a circondarsi così di piccole sicurezze le quali, non di rado, pregiudicano la possibilità a progetti più grandi e, più radicalmente, alla stessa speranza. L’atteggiamento opposto di disperazione, che può sfociare in una vera e propria patologia psichica, le cui dimensioni tendono ad allargarsi nella nostra cultura, indica invece una percezione del proprio futuro chiuso nell’ossessiva ripetizione dei drammi già vissuti nel passato. La speranza come virtù umana si caratterizza per il suo particolare e difficile statuto di ripudio della disperazione, ma anche per il suo affidarsi, non alle proprie forze e alla ricerca di sicurezze di piccolo cabotaggio, bensì alla radicale fiducia nella promessa di Dio.

Alla luce di questa promessa si trovano altre due dimensioni della speranza, altrettanto necessarie a precisarne i confini: quello della dilatazione e del restringimento dell’oggetto sperato. Saper dilatare la speranza significa ricordare che la vita dell’uomo, nella ricerca di una propria intensità, scopre di non bastare semplicemente a se stessa, che la speranza non può applicarsi ai piccoli sogni dell’uomo o a semplici aspetti dell’esistenza, ma ha il sapore e la qualità della totalità e non della mediocrità. Accanto a questo allargamento, e simultaneamente ad esso, è necessario un altro dinamismo altrettanto costruttivo: quello di saper concentrare la speranza nella sua dimensione più piccola, nella quale possa apparire la sua densità e il suo punto di forza. Entrare nella speranza significa mettere a fuoco come essa si concentri sull’essenziale. È la stessa dinamica biblica a ricordarci nella figura di Abramo l’uomo non solo della fede, ma anche della speranza. La speranza di discendenza e di possesso definitivo della terra, in cui si sostanziava la promessa di Dio, si riduce con lo scorrere della sua esistenza verso la morte da un sogno grandioso ad un semplice pugno di terra: quella di un sepolcro, collocato nella terra di Canaan, la caverna di Malpela, avamposto di un futuro di compimento della stessa parola di Dio che pure gli aveva prospettato smisurati scenari ed aspettative (cfr. Gn 15; 23; 25, 7-10). È la stessa speranza di Gesù circa il compimento del Regno che si restringe, nel passaggio della morte, fino al sepolcro e da qui diventa punto di fuga per la sua esistenza di Risorto nella vita del Padre. Così anche per l’uomo di oggi, tentato di ripiegarsi sulla piccole speranze e sulla piccole voglie della propria vita, si profila il cammino della speranza per dilatare l’esistenza, ma anche per concentrarla sull’essenziale, senza disperdersi in illusori percorsi e vagabondaggi alla ricerca di approdi sicuri per l’esistenza, ma puntando tutto sulla presenza dell’amore divino che accompagna i passi del suo andare.

Trova qui significato la stessa rilettura della speranza come virtù teologale, come manifestazione particolare del dono di Dio all’uomo ed espressione della vita di grazia. L’esistenza cristiana trova una sua particolare unificazione proprio nella profonda correlazione delle tre virtù teologali. All’interno di esse la speranza giunge ad una più precisa definizione. Secondo la pregnante sintesi di von Balthasar alla speranza si conferisce il particolare impegno di dinamizzare la vita del credente, a partire dalle radici della fede e dalla sostanza dell’amore con cui essa viene ad esprimersi: “se si considera l’orientamento della vita cristiana l’accento cade sulla speranza. Se si guarda alla sostanza del suo modo d’essere, bisogna nominare in definitiva la carità. Se invece si rivolge lo sguardo alle radici della vita cristiana, allora si tratta sempre della fede”[3]

L’unicità dell’esistenza cristiana è chiamata a definirsi in ragione delle stesse dimensioni che le sono proprie: quella della profondità in cui appare il carattere radicale della fede, quello dell’orizzontalità in cui l’amore chiede di estendersi alle relazioni di prossimità, quello della spinta propulsiva in cui la speranza dà garanzia all’uomo di un moto dinamico dell’esistenza non per cicli convulsi, ma come cammino verso i beni promessi. La speranza, così, trova il suo spazio particolare nell’unità della vita teologale di cui offre una dinamizzazione continua. Facendo della fede il punto di vista sulla propria storia e su quella del mondo e della carità la verifica continua della risposta alla fedeltà di Dio, la speranza spinge l’uomo a rendere attiva la propria fede di fronte al nuovo di Dio che si presenta nella sua vita, protendendovi tutto se stesso. La speranza, virtù tipica di coloro che sono “in via”, ricorda che il cristiano non è fatto per aderire a se stesso staticamente quasi autorispecchiandosi e rimanendo nel circuito del proprio “sé”, e nemmeno per vivere la sua esistenza nel fatalismo e nella rassegnazione.

La speranza, inoltre, mantiene l’uomo nella prospettiva del dono mentre inserisce l’uomo, senza imprigionarlo, nella trama del tempo: “Egli esiste nel tempo e al di sopra del tempo; porta, nella coscienza di se stesso, la capacità di una pienezza sovratemporale che, se anche non può conquistare da se stesso, può ricevere come dono”. In questa luce “il futuro della speranza cristiana non è l’orizzonte vuoto di un indefinito sperare, ma la pienezza reale dell’uomo in tutte le dimensioni fondamentali della sua esistenza: nella sua apertura all’assoluto che sarà colmata con la visione di Dio; nella comunione interpersonale che sarà compiuta ed espressa con la partecipazione di tutti alla gloria di Cristo; nella relazione al mondo e alla storia che non sarà distrutta bensì assunta nella nuova esistenza dell’umanità” [4].

 

Cristo, nostra speranza

Dentro queste approssimazioni, il ricupero della virtù della speranza, come ogni altro aspetto della fede cristiana, domanda di essere riletto in senso cristologico, per trovarne la sua più viva consistenza. Oltre ai temi, forse più esplorati della fede e della carità di Gesù, può trovare un rilievo altrettanto cruciale quello della “speranza di Gesù”, di come, cioè, egli abbia fatto propria questa imprescindibile dimensione dell’esistere. Accanto alla determinazione oggettiva della figura cristologica come fonte della speranza del credente (cfr. Col 1, 27), occorre una maggiore precisazione della dimensione soggettiva della speranza, come esperita nella vita di Gesù[5]. In particolare, all’interno del suo messaggio di annuncio e compimento del regno di Dio, si profila, attraverso l’accurata selezione delle metafore utilizzate nei testi evangelici, la tensione tra l’esserci attuale e la pienezza futura. L’immagine del piccolo seme (Mc 4, 30-32), se non letta immediatamente attraverso una prospettiva ecclesiologica, ma accostata nella sua pregnanza letterale, lascia trapelare un prezioso indizio della speranza di Gesù. La virtualità del regno, espressa dalla fecondità del seme, non oscura il fatto della sua lenta germinazione nei solchi dell’umanità. La promessa di frutti resta affidata alla fragilità del seme. Il Regno annunciato presente nel tempo kairologico del messaggio inaugurale di Gesù, viene connotato di una speranza germinale circa il suo pieno sviluppo. 

Ugualmente la scelta dei discepoli e il farsi strada nell’esperienza di Gesù di crescenti dissidi circa la sua figura, fino all’abbandono da parte delle folle e alla insistita cura per il gruppo dei dodici, documentato dai sinottici dopo l’episodio di Cesarea (cfr. Mc 8, 27 ss.), può accostarci alla speranza di Gesù. Anch’essa sembra restringersi sino ad un piccolo resto a cui è affidato il vangelo del Regno, con tutte le sue promesse ancora in una dimensione potenziale ed in corso di attuazione.

L’intensa preghiera di Gesù nell’orto del Getsemani (cfr. Mt 26, 36 ss.), se ci consegna l’immagine del suo affidamento alla volontà del Padre, tuttavia ci apre alla considerazione profonda della sua speranza: quella di fronte alla morte di non perdere il senso profondo della sua vita, ma appunto di esprimerlo in essa intensamente, non cessando di sperare nella sua relazione fiduciale e filiale con lui. Alla luce del compimento della Pasqua, così, il cristiano comprende l’importanza di non vivere di una speranza propria, ma di viverla nella stessa speranza di Cristo, in cui può trovare riscatto dal potere disgregante della morte su di lui (cfr. 1 Cor 15, 19).

Singolare documento della riflessione cristiana sulla speranza perseverante di Cristo è un testo della lettera agli Ebrei dove di lui si dice: “Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5, 8-9). Il brano coglie la speranza di Gesù nella perseverante dedizione della sua obbedienza al Padre. In questa disposizione profonda della spirito, “all’uomo diventa possibile apprendere positivamente la verità della propria speranza esattamente attraverso le cose patite”[6]. Si rivela in questo testo una precisa istruzione sulla speranza del cristiano: quella di fare propria quella stessa di Gesù. La speranza, coniugata alla perseveranza, trova il suo punto di innesto prima che nelle realizzazioni della vita, nelle azioni attraverso cui cerchiamo di estrinsecare la nostra tensione al futuro e al bene, nei momenti passivi dell’esistenza, attraverso l’inevitabile confronto di quegli aspetti in cui l’uomo non diventa artefice del suo destino, ma sembra quasi piegato dagli eventi e nei quali è chiamato a riprendere da capo il senso stesso della sua vita. È il destino del Figlio davanti alla sua morte, espropriata da ogni alone di trionfale martirio, ma preziosa agli occhi di Dio; è il destino di ogni uomo davanti alla sua morte e alla sua finitudine. La sua speranza di vivere in Cristo ogni momento dell’esistenza si trova quasi di fronte ad uno scacco. Ma non è quello del fallimento, bensì della verifica della propria speranza. 

Dentro il tragitto pasquale si apre per il cristiano, in forza della sua unione battesimale con il Crocifisso-Risorto, la possibilità della speranza sulla propria vita e sull’intera storia dell’umanità. È nello stesso spazio reso aperto dal futuro di Dio che si situa anche la rilettura vocazionale della speranza.

 

Vivere e decidere: un atto di speranza

Dopo aver delimitato il dominio della speranza e averne tentato un lettura di essa in senso cristologico, diventa importante ricercare alcune correlazioni con la prospettiva vocazionale. “La vocazione cristiana è vocazione ad un amore creativo da vivere concretamente dentro la realtà storico-sociale così come si presenta. La speranza stimola l’uomo a darsi e, nello stesso tempo, gli permette di cogliere sempre nuove possibilità del futuro atteso. Ma soprattutto essa alimenta nell’uomo il senso della contemplazione e della gratitudine per quanto ha già ricevuto”[7].

Attraverso queste pregnanti osservazioni di G. Piana è possibile sviluppare un primo abbozzo di ripresa della virtù della speranza nella prospettiva vocazionale. Dentro la coordinata della vocazione all’amore, nota dominante e tenuta dell’esistenza cristiana ed alimentata dallo stesso rivelarsi di Dio, la speranza spinge l’uomo a cercare nuove armoniche per la propria esistenza perché l’amore possa permanere nel tempo. La nota tenuta dell’amore su cui la speranza sviluppa il suo canto, porta parimenti a riconoscere con gratitudine quanto ha già ricevuto. Chi spera ha viva coscienza che tutto quello che è scaturito dalla sua esistenza proviene da un atto di dono e si sviluppa nella riconoscenza di esso. Chi spera sa che questo amore donante di Dio non potrà venire meno perché espresso in modo definitivo ed inalterabile nella Pasqua di Gesù. Un vivo senso di speranza così si genera all’interno di uno sguardo lucido e sereno sulla propria vita avvolta nel mistero dell’amore divino. Così il difetto della speranza spesso ravvisato nei credenti può coincidere con una carenza di realismo circa la propria vita. Tale prospettiva realistica, lungi dal rinchiudere l’esistenza, ne imprime un tipico dinamismo, quello proprio della speranza di protendersi verso un compimento di cui l’uomo avverte una profonda nostalgia e che si sviluppa come cammino dietro una Parola che, chiamando all’esistenza, ha invitato ogni uomo a godere della pienezza di ogni bene. La nostalgia del bene muove così i passi dell’uomo.

La speranza teologale in questa prospettiva contribuisce a riconoscere l’uomo nella sua permanente dimensione di viatore, di essere in cammino, non senza una meta, non dotato di un generico senso di felicità, ma come di essere chiamato alla pienezza della vita stessa e della gioia del suo Maestro e Signore. Così la speranza non è semplicemente la virtù di chi è in cammino, ma più precisamente è prerogativa di colui che si è messo sulla via del Signore Gesù, “quella via che è segnata dalla trasformazione della sofferenza in amore, dalla misericordia che porta a farsi carico del male umano per impedire che ostacoli l’unione con Dio”, consapevole anche della solitudine (mai assoluta nel credente che sa di incedere con il popolo erede delle promesse di Dio) e della singolarità del suo cammino8 . Speranza e sequela appaiono indissolubilmente congiunte nella dinamica propria dell’esistenza cristiana.

Non mancano, tuttavia, nel nostro contesto precisi segnali ostili a questa percezione dell’esistenza sia in quanti si precludono (o sono preclusi) ad una percezione della propria vita come un cammino di sequela in cui prende corpo la reale speranza dell’uomo facendo spazio ad atteggiamenti più remissivi circa la propria vita, sia in chi, nella sicurezza della stessa chiamata, di fatto non ha imparato a sperare nulla di più, arroccato sulle proprie certezze e sulle proprie capacità, confondendo così l’umile e costante verifica della qualità della propria sequela, con l’attivismo dell’agire.

Da ultimo, riletta in senso vocazionale, la virtù della speranza domanda di essere pensata in stretta connessione con due sue tipiche espressioni: la lucidità, cioè la capacità di discernimento riconoscendo, alla luce di un progetto fondamentale, le sue necessarie e concrete realizzazioni, senza restare in balia di idealismi disincarnati, e la perseveranza. È più facile associare, anche eredi di una precisa tradizione cristiana, la speranza alla perseveranza. Questa coniugazione non può essere in prima battuta riletta in chiave volontaristica ed esige un percorso di accostamento più lungo che porti a lambire una tendenza assai diffusa dell’uomo contemporaneo a mal sopportare la durata di ogni cosa e delle stese decisioni e a rifuggirne la custodia responsabile della loro preziosità, collocandosi nella più modesta e rassicurante nicchia del presente. In questo preciso quadro esistenziale la perseveranza sembra apparire più un risultato accidentale di un percorso di vita non segnato da troppi traumi che una precisa acquisizione di una virtù, cioè di una disposizione stabile dell’uomo. La stessa dinamica della scelta appare così contrassegnata da un entusiasmo scomposto e da una forte compromissione con il proprio sentire a cui si attribuisce il ruolo di depositario dell’autenticità della vita e dell’agire, lasciando un’ampia ed angosciante zona d’ombra tra un momento entusiasmante e il successivo9 . Nella lucidità e nella perseveranza la virtù della speranza trova così due particolari ampliamenti, particolarmente preziosi nella dinamica vocazionale.

Appassionato e lucido cercatore della verità e tenacemente arroccato alla speranza cristologica, Clemente Rebora, ha liricamente rielaborato la propria esistenza, dagli studi giovanili alla sua conversione e maturazione vocazionale alla vita religiosa, alla luce della seconda virtù teologale, dedicandole negli anni della seconda guerra mondiale una vibrante lirica10 . Con questo testo possiamo chiudere questo contributo che ha voluto semplicemente stimolare nei lettori più ampi e decisivi percorsi di riflessione: 

Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra. / Speravo nel tempo: ma passa, trapassa; / In cosa creata: non basta, e ci lascia. / Speravo nel ben che verrà, sulla terra: / Ma tutto finisce, travolto, in ambascia.

Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato / La Voce d’Amore che chiama e non langue. / Ed ecco la certa speranza: La Croce. / Ho trovato Chi prima mi ha amato / E mi ama e mi lava, nel Sangue che è fuoco, / L’Amore che dona l’Amore, / L’Amore che vive ben dentro nel cuore.

Amore di Cristo che già nel mondo / Comincia ed insegna il viver più buono: / Felice amore di Spirito Santo / Che trasfigura in grazia e morte e pianto. / D’anima e corpo la miseria buia: / Eterna Trinità, dove alfin belli / – Finendo il mondo – saran corpi e cuori / In seno al Padre con la dolce Madre / Per sempre in Cristo amandosi fratelli. / Alleluia.

 

 

 

Note

[1] Offriamo un elenco di pubblicazioni facilmente accessibili per una prima informazione sul tema: M. Lubomirski, Vita nuova nella fede speranza carità, Cittadella, Assisi 2000; P. Grelot, Nelle angosce la speranza. Ricerca biblica, “Verifiche e progetti, 3”, Vita e Pensiero, Milano 1986; M. Cozzoli, Etica teologale. Fede Carità Speranza, “Teologia morale: studi e testi, 4”, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991, pp. 249-282; H. Mottu, Speranza e lucidità, in Iniziazione alla pratica della teologia, Vol. IV (Morale), a c. di B. Lauret – F. Refulé, Queriniana, Brescia 1983, pp. 329-366; La speranza nei Padri, Introduzione, traduzione e note di G. Visonà, “Letture cristiane del primo millennio, 14”, Paoline, Milano 1993; G. Piana, Speranza, in Nuovo Dizionario di Spiritualità, a c. di S. De Fiores – T. Goffi, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985, pp. 1504-1516; G. Angelini, Speranza, in Nuovo Dizionario di Teologia, a c. di G. Barbaglio – S. Dianich, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985, pp. 1508-1533; Id., Le virtù e la fede, “Contemplatio, 11”, Glossa, Milano 1994; D. Mongillo, Virtù teologali, in Nuovo Dizionario di Teologia Morale, a c. di F. Compagnoni – G. Piana – S. Privitera, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, pp. 1474-1498; Id., Speranza, in Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, a c. di L. Rossi – A. Valsecchi, Paoline, Roma 1973, pp. 953-960; P. Engelhardt, Speranza, in Enciclopedia teologica, a c. di P. Eicher, Queriniana, Brescia 19902, pp. 982-989; H.U. von Balthasar, L’unità delle virtù teologali, “Communio”, 1984, n. 76, pp. 5-15; J.-L. Brugues, L’arte della perseveranza, “Communio”, 1984, n. 76, pp. 24-35.

[2] Mongillo, Virtù teologali, p. 1489.

[3] Balthasar, L’unità delle virtù, p. 5.

[4] Piana, Speranza, pp. 1513-1514.

[5] Per questo aspetto cfr., con ulteriori rimandi bibliografici: Balthasar, L’unità delle virtù, pp. 11-12.

[6] Angelini, Le virtù e la fede, p. 169.

[7] Piana, Speranza, p. 1514.

[8] Mongillo, Virtù teologali, p. 1490.

[9] Brugues, L’arte della perseveranza, pp. 24-35.

[10] La speranza, in C. Rebora, Le poesie (1913-1957), a c. di G. Mussini – V. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1994, 269.