N.03
Maggio/Giugno 2001

Il superamento della prova: la pedagogia dei tempi della crisi

Ogni cammino vocazionale, per realizzarsi come tale, comporta tutta una serie di tempi e di passaggi che gli consentono di prendere corpo nella concreta persona. Esso non è infatti né una realtà statica, fatta una volta per sempre, né una realtà lineare, scorrevole, senza problemi.

 

 

Saper aiutare a superare le prove in modo efficace come una necessità 

Vivere la vocazione come cammino

L’esperienza insegna come, a fasi di calma, di vita scorrevole, succedono periodi laboriosi, a volte tortuosi, difficili da attraversare, segnati da altrettante crisi da superare. Di fatto la sofferenza e la prova contrassegnano a più riprese la vita concreta della persona chiamata. Ogni cammino vocazionale comporta una serie di tappe segnate da altrettanti passaggi attraverso cui ogni persona è chiamata a transitare. Ciò di volta in volta costituisce una crisi, una prova da attraversare costruttivamente. Ogni crisi infatti mette in discussione l’equilibrio raggiunto per aprirsi ad altre realtà, a diverse dimensioni della vita vocazionale. La crisi va intesa come la situazione di incertezza, spesso anche di sofferenza, verificatasi per la rimessa in discussione della situazione precedente. Si è operata per vari fattori un’incrinatura, talora una rottura nell’equilibrio  precedente; e ciò è disagevole, talora ansiogeno. Ogni crisi dà luogo alla necessità di un passaggio indispensabile da uno stato di vita più o meno stabile verso un oltre sconosciuto, da scoprire e da attuare. Infatti la risposta vocazionale è caratterizzata dall’itineranza che di volta in volta mobilita la persona verso una meta ulteriore, tutta da scoprire e vivere.

 

Il compito educativo della guida spirituale

Superare adeguatamente queste crisi costituisce per la persona un compito ineludibile. E aiutare a superarle adeguatamente come guida spirituale costituisce una esigenza e una competenza educativa non delegabile. Ogni guida spirituale infatti è chiamata a divenire capace di aiutare il chiamato a fare di queste crisi un’opportunità di crescita, di sviluppo vocazionale. Infatti ogni momento di difficoltà, ogni ostacolo, può essere vissuto come un momento di sviluppo o di stasi o di regresso. Dipende da come la crisi vocazionale viene vissuta. Occorre che la crisi divenga un’occasione di crescita spirituale e vocazionale. Queste crisi sono varie. A volte possono essere fasi di aridità spirituale, altre volte può essere la notte del cuore e della mente che rabbuia l’orizzonte. Queste possono divenire vie alla luce e alla vita. Altre volte può essere la stessa guida spirituale che provoca la persona ad entrare in crisi perché essa esca dalla stasi e cresca adeguatamente.

 

Le aree delle prove

Le aree delle prove sono quelle dei settori chiave o centrali di ogni vita, in particolare le seguenti: l’area dell’amore e delle relazioni interpersonali relative alla castità coniugale o consacrata; l’area dell’avere o del rapporto con i vari beni, relativa alla povertà, al giusto uso e distacco; l’area del potere decisionale, del rapporto con ciò che ha influenza sugli altri e sulle cose, relativa all’obbedienza con le sue varie dimensioni; l’area dell’apparire, dell’immagine di sé, del significare qualcosa per qualcuno, della rilevanza socio-ambientale, cioè l’area della stima di sé; l’area della sofferenza fisica e psichica, morale e spirituale nell’incontro con la miseria propria e altrui. Si tratta dell’incontro con la finitezza propria e altrui, con il limite umano, istituzionale e materiale, per buona parte insuperabile. Occorre imparare a gestirlo costruttivamente. Infine l’area della lotta spirituale lungo una fedeltà creativa messa alla prova ripetutamente. La ricerca di Dio, la sequela comporta tutta una serie di prove da affrontare.

 

 

Il superamento positivo della crisi come un serio problema

Ma aiutare a superare adeguatamente le prove vocazionali non va da sé. Non è né facile né automatico per il chiamato come pure per la guida spirituale. Resistenze di varia natura si frappongono così da vanificare a volte questa opportunità di crescita.

 

Resistenze nella persona chiamata

Sono presenti allora questi sintomi: uno stato di difesa e di sospetto contro tutto ciò che è nuovo e diverso rispetto al presente, verso tutto ciò che è scomodante; uno stato di immobilismo vocazionale che fa ristagnare la persona nella sua condizione, spesso intristendo il suo vivere e quello altrui; uno stato di annaspamento vocazionale che ingolfa la persona in un fare tanto abbondante quanto riempitivo, uno stato lamentoso e vittimistico di lagna, incentrato nella sottolineatura di ciò che non va in casa propria e in quella altrui; uno stato di ripiegamento difensivo su di sé per le ferite subite, con una riduzione, talora un arresto, dello slancio vitale.

 

Resistenze nella guida spirituale

Compaiono allora i seguenti sintomi: una ripetitività nozionistica delle solite raccomandazioni preventive precettistiche; una messa in guardia moralistica contro il male possibile; una carenza di empatia nel contatto personale, con una relazione incentrata sulle cose da sapere e da fare, alimentata anche dalla paura della sofferenza altrui e propria; una minimizzazione della sofferenza presente a favore del dover fare e del dover essere, con una certa estraneità rispetto alla persona; una colpevolizzazione della persona chiamata per i passi falsi e le lentezze del cammino in forza di un dover essere astratto. Fatica allora a crescere la responsabilità di sé.

 

Un bivio entro cui scegliere

Ogni resistenza mette la persona alle strette. La pone davanti ad un bivio: affrontare adeguatamente la difficoltà, trovare la via giusta di superamento, con il relativo prezzo di fatica e con il guadagno possibile da acquisire; oppure di fatto non affrontare le difficoltà in uno dei vari modi possibili. In questo secondo caso il cammino vocazionale forzatamente ristagna e si isterilisce, con ovvie conseguenze negative per sé e per gli altri.

 

 

La crisi nelle età della vita

La necessità del superamento delle crisi non si fa presente una volta sola, una volta per tutte. La prova, con il suo carico di sofferenza, si presenta a più riprese lungo il cammino vocazionale, lungo due principali linee.

 

 

Per molti questo avviene in ogni età

Queste situazioni riguardano la perdita di un bene per la vita, ad es. l’affetto, il lavoro, l’onorabilità, la salute, il ruolo, il senso, ecc. Si tratta di situazioni problematiche e conflittuali. Queste prove sono molto varie, ad es. la perdita di una persona cara, l’abbandono affettivo, la perdita del lavoro o di un ruolo significativo, la sofferenza fisica e psichica legata ad un avvenimento doloroso, una situazione conflittuale verificatasi per opposte aspettative e tendenze tra persone in comunità, la sterilità o quasi della propria azione di impegno, l’incontro con le situazioni di non senso, quali la malattia, la disabilità in uno o più settori, l’invecchiamento, il dolore innocente, ecc. In ogni età, oltre i passaggi caratteristici, ci sono delle prove, aspettate o inaspettate, che mettono in crisi il cammino spirituale e vocazionale.

 

 

Per tutti la crisi si presenta nei passaggi di età della vita

In modo più leggero o pesante ogni persona è chiamata a superare certe tappe evolutive, in particolare le seguenti.

 

Nell’età dell’apertura alla vocazione, all’amore nell’adolescenza

Questa età comporta passare dall’egocentrismo e dall’idealizzazione adolescenziale all’apertura, alla reciprocità e alla gratuità del giovane; passare dall’idealismo trasognante al realismo dell’impatto con il reale della vita, spesso duro; passare dall’io al tu e al noi; dal fare come pare e piace a fare ciò che giova per davvero. C’è un esodo da vivere dall’avvenire incerto, in salita verso la propria terra promessa, verso l’attuazione della propria vocazione.

 

Nell’età del discernimento e della decisione della giovinezza

Quest’età comporta sia un serio discernimento tra realtà tra loro spesso concorrenziali e contraddittorie, tutte appetibili per aspetti diversi; sia una decisione che, mentre sceglie una possibilità, ne sacrifica altre; e ciò è dolente. C’è un’affermazione di sé da attuare, spesso contrastata da vari fattori.

 

Nell’età della fecondità o dell’amore maturo

Quest’età è quella della richiesta di dono continuato, totale, duraturo, pagato in prima persona, un dono conforme al proprio stato di vita. Gli esiti solitamente sono minori delle aspettative e la realtà si presenta come dura a lasciarsi trasformare, quella propria e quella delle persone e delle situazioni di vita. C’è una verifica dura di sé lungo la propria strada.

 

L’età della seconda chiamata

È l’età di una ripartenza molto realistica e fiduciosa, dopo l’esperienza di vari successi assieme a scacchi e fallimenti, quando il corpo segnala decadimenti iniziali e diminuzione di energie. Gli aggrappamenti sostitutivi rispetto al venir meno di tante realtà costituiscono una tentazione ricorrente. C’è un inoltramento di sé da attuare verso spazi sconosciuti e incerti che chiama.

 

Un interrogativo emergente

Di fronte alla necessità di un affrontamento adeguato delle crisi e alla difficoltà a farlo, emergono alcuni interrogativi: quale tipo di superamento delle crisi va favorito? In che cosa consiste il processo di superamento? Che cosa lo favorisce? Che cosa lo frena? Quale accompagnamento pedagogico attuare da parte della guida spirituale per favorire un adeguato superamento? Come trasformare i momenti “no” in occasione di crescita?

 

 

Il processo di superamento della prova, un affrontamento realistico e fiducioso

Il superamento della crisi è legato al tipo di soluzione data alla prova in corso. C’è infatti tipo e tipo di soluzione. Non tutte si equivalgono

 

 

Un itinerario da compiere

Ogni vera soluzione suppone e comporta più elementi così da attuare un vero superamento. Perché la crisi possa venir affrontata adeguatamente e divenire un’opportunità di crescita è necessario che la persona chiamata attui un vero processo di superamento della crisi, cioè un affrontamento realistico e fiducioso. C’è una serie di passaggi da compiere, necessari come i tratti di strada da percorrere che collegano una città a valle con un’altra a monte, come il passare da una sponda di un fiume rosso, carico di presentimenti di sofferenza o fatica, all’altra sponda, quella solida e realistica. Un effettivo superamento per attuarsi chiede che si compia un itinerario interiore, talora anche esteriore, che si percorra una sequenza di passaggi concreti, interiori ed esteriori. Questo consentirà alla persona di ristabilire l’alleanza con la vita, propria e altrui, un’alleanza o patto prima messo in crisi dalla prova, dalla crisi. Gli aspetti da vedere sono molteplici. Ci soffermiamo su alcuni, su un aspetto centrale che fa da ponte unico di passaggio da una sponda all’altra.

 

I due assi dell’itinerario/superamento

Il processo del superamento va fatto sui due assi della crescita umana, spirituale e vocazionale: quello valoriale dell’oggettivo della fede, dei contenuti vocazionali da fare propri, delle realtà religiose che interpellano da incontrare, della chiamata di Dio; quello processuale costituito dalle strutture e dinamiche psico-sociali implicate nella concreta persona chiamata a rispondere responsabilmente, a percorrere tale itinerario, a divenire capace di percorrerlo. L’aspetto metodologico presuppone questi assi della crescita e li fa interagire. Può essere di aiuto rifarsi ad una icona biblica espressiva di questo superamento, quella dei discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24, 13-35): dalla frustrazione alla ripresa; oppure quella di Fil 3, 7-14: la dimensione della perdita e del vero guadagno duraturo. Un effettivo superamento della crisi chiede che si compia il seguente itinerario.

 

 

Favorire un vero incontro dell’oggettivo dei valori vocazionali e del soggettivo sofferente della persona

Perché la persona, che è in crisi nella prova, possa uscirne in modo realistico e costruttivo è necessario anzitutto che essa possa attuare in queste circostanze un vero incontro tra l’oggettivo dei valori vocazionali proprio della sua tappa evolutiva, con il soggettivo della propria sofferenza. Non basta una giustapposizione o una sovrapposizione delle verità della fede e vocazionali con l’esperienza della crisi. Occorre che queste verità compenetrino la persona nella sua crisi, illuminandola e orientandola da dentro. E perché questa compenetrazione si verifichi occorre favorire in contemporanea due processi.

1. Il processo di soggettivazione del polo oggettivo e della chiamata, e di rioggettivazione, per quella che è. Anzitutto, perché si possa rifare il patto con la vita e uscire dalla crisi, è necessario che avvenga nel cuore della persona il processo di interiorizzazione dei valori vocazionali significativi. Perché questo processo prenda corpo, sono necessari alcuni passaggi. Occorre anzitutto che il polo oggettivo, quello contenutistico della chiamata, viva due operazioni: si soggettivizzi, si radichi nel cuore della persona, venga accolto e assimilato o metabolizzato. In particolare è necessario che passi attraverso la mente, la volontà, il cuore, l’affetto, le forze, il corpo stesso della persona interessata; occorre che vi pianti radici, che sia a casa propria, che sia percepito e vissuto come “un vero bene per me, amabile e desiderabile”, una sorgente di senso e di energia, assieme anche ad una dimensione di croce, di prezzo da pagare. Occorre poi che questo polo oggettivo, ben piantato nella persona, si rioggettivizzi senza riduzioni e che venga accolto dalla persona nella sua interezza e specificità per quello che è, così come è in se stesso. Ad es. centrale è l’itinerario pasquale di Gesù e di ogni persona senza sconti. Determinante per il processo di soggettivazione dell’oggetto è la funzione del desiderio della concreta persona, è l’ortopatia o l’ortocardia come fattore unitivo ed integrante. È quest’ultima che consente ai valori di radicarsi nell’intimo della persona e divenire vere motivazioni per affrontare con realismo e fiducia le varie crisi.

2. Il processo di oggettivazione del polo soggettivo nella prova e di assunzione del reale effettivo. Contemporaneamente, perché si abbia un’effettiva interiorizzazione dei valori vocazionali del polo oggettivo, occorre che simultaneamente si verifichi un altro processo. Occorre che il polo soggettivo sofferente si oggettivizzi, si misuri e commisuri con un altro da sé secondo questi passaggi: occorre che la persona riconosca la sua identità e il suo bene nella realtà oggettiva della chiamata, cioè che riconosca il suo centro, la sua periferia, i suoi confini in rapporto ai valori vocazionali, in particolare alle richieste di questa o quella tappa; occorre poi attuare nella vita le richieste vocazionali nella loro interezza senza riduzioni o sconti per preferenze o esclusioni. È così che i valori possono venir interiorizzati e farsi motivazione, forza propulsiva dell’agire, calamita che attrae verso una pienezza di vita, quella di Gesù, il Signore della vita, la sorgente della chiamata.

Ciò che del soggettivo della persona chiamata va oggettivato e riconosciuto è la sua sofferenza, è tutto ciò che nella persona si allontana dal desiderio di Dio su di lei. Questi allontanamenti possono essere per eccesso, ad es. i desideri esorbitanti rispetto alle effettive dimensioni, le ambizioni, la grandiosità; o per difetto, ad es. le forme di desideri spenti, le velleità, le atonie, la passività, le assenze, ecc. Determinante per il processo di oggettivazione del soggettivo è il ruolo della mediazione educativa nel favorire un impatto realistico, positivo e fiducioso con il reale delle persone e della vita. È questo impatto che dà solidità interiore e configura la persona in rapporto ai valori vocazionali.

 

 

Le tappe del patto con la vita rifatto entro il processo del lutto di fronte alla perdita

La sofferenza e la crisi manifestano che è successo qualcosa alla base, cioè una perdita di un bene significativo per la persona. È successo qualcosa che ha rotto l’equilibrio presente, solido o precario, e che suscita uno stato di sofferenza, di prova, di crisi. Questo bene può essere di vario ordine: materiale, psichico, o spirituale, ad es. un legame affettivo, un ruolo esercitato, un progetto accarezzato, un dato bene perduto, la salute, ecc. Decisivo non è tanto l’entità in sé della perdita quanto il suo valore simbolico per la concreta persona, il suo significato. Questo significato può essere di tre tipi: il significato oggettivo, il significato soggettivo conscio e il significato soggettivo inconscio. Questi tre significati possono essere in accordo o in disaccordo in vario grado. In quest’ultimo caso è quello inconscio che prevale.

Perché l’affrontamento realistico e positivo della crisi sia garantito occorre fare due passaggi indispensabili: che la persona faccia i passi del lutto di fronte alle singole perdite; rifaccia di volta in volta il patto con la sua vita. In questi passaggi occorre una convergenza dell’aspetto valoriale, dell’esperienza spirituale e di quello processuale. Questi sono gli stessi passi da fare per un autentico perdono. Il credente deve dunque rifare il patto con la vita, se vuole dare e ridare il proprio consenso al Creatore. I due rapporti, con la vita e con Dio, ricorda Antonio Vergote, sono solidali e si condizionano reciprocamente.

Una risoluzione sana della crisi domanda di passare attraverso la sofferenza e di fare il lutto per le perdite, pena il restare vincolati da quella realtà persa nelle proprie scelte. Questo processo ha diversi e importanti passi. Si tratta di passaggi interiori indispensabili, soprattutto di ordine emotivo. I passi del lutto di fronte alla perdita, a volte al fallimento, sono i seguenti, espressi secondo un linguaggio universale. In quello religioso si dice: fare la volontà di Dio in un settore chiave, quello del tempo della prova. Prima di passare in rassegna i vari passaggi è opportuno che ciascuno metta a fuoco una o più perdite significative superate o perdite ancora dolenti da analizzare. Ciò serve per verificare in concreto come sono state affrontate le prove.

1. Riconoscere la realtà della prova. “Due di loro erano in cammino (…) verso Emmaus e conversavano di tutto quello che era accaduto” (Lc 24, 13-14). Una persona non inizia il processo del lutto finché non accetta la verità – realtà della crisi e della perdita come un dato riconosciuto e accettato. C’è inerzia, sono ferito e sofferente. Ciò fa cambiare la percezione di sé e della realtà. Nella misura in cui si nega il fatto o lo si minimizza o si ottura la sofferenza con altre realtà anestetizzanti, il processo del lutto non prende corpo e la persona resta prigioniera della crisi a volte a sua insaputa.

2. Identificare ed esprimere le emozioni di dolore. “Si fermarono, con il volto triste” (v.17). “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?” (v.18). Chi è nella prova deve esprimere a parole, a volte a gesti, gli intensi sentimenti che accompagnano la perdita. Il processo di guarigione è molto meglio aiutato quando questi sentimenti sono condivisi con una persona fidata o con un gruppo. Esprimendo le proprie forti e dolorose emozioni ad un’altra persona si rimuovono le barriere dell’isolamento, del cinismo, della sfiducia che così facilmente si erigono nei propri confronti quando il senso della perdita mette a nudo la propria vulnerabilità. I possibili svincolamenti sono: l’irrigidimento di sé tramite l’isolamento, il cinismo, l’ironia, l’autosfiducia.

3. Riconoscere e risolvere l’ambivalenza dei sentimenti. “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele…” (v. 21). “Ma lui non l’abbiamo visto” (v. 24). “Sciocchi e tardi di cuore…” (v. 25). Questo passo costituisce una delle sfide più importanti nel processo di lutto: riconoscere cioè i sentimenti in conflitto, ad es. fiducia – sfiducia, amore – odio, rispetto – aggressione, dubbio – fede, di fronte a se stessi e ad un altro. La perdita raramente lascia una ferita pulita. Sono certamente presenti emozioni conflittuali. Ciò è normale e non va vissuto in modo colpevolizzante o negativizzante, ma assunto come un dato del reale effettuale. Chi fa lutto deve acquisire equilibrio tra i sentimenti in conflitto, in modo che siano pienamente riconosciuti e messi in prospettiva, sia i sentimenti positivi che quelli negativi. Ciò chiama in campo i propri atteggiamenti profondi nei confronti della vita e della fede. Quest’ambivalenza si risolve in rapporto a vari fattori centrali: alla chiarificazione e alla forza delle motivazioni personali nel vivere e nel credere; a quanto e a come si è assunta e si assume la responsabilità della propria vita; a come si vive la propria vita come vocazione, come risposta a Dio che chiama e invia per sé e per gli altri, per un bene comune, per una missione.

Uno di fatto vive poco e vive male quando vive prevalentemente in modo compiacente, cioè per evitare danni a se stesso o per accumulare vantaggi o per imitazione di terze persone idealizzate. Uno è libero nella vita quando la vive come genuina vocazione. Questo può essere detto solo dopo un confronto onesto con i propri veri motivi per seguire la propria vita come vocazione. Decisivamente non bastano le buone intenzioni. Possibili svincolamenti: la fuga nell’intellettualizzazione di sé, l’angelismo, l’unilateralismo di sé, le forme di falsità di sé, di inautenticità, di difesa di sé, di trascinamento di sé…

4. Dire addio a ciò o a colui (colei) che si è perso, cui occorre rinunciare. “Spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (v. 27). Il passo consiste nel dire “addio” a livello emozionale più che intellettuale. Bisogna lasciar andare, lasciar partire ciò o chi si è perso. Questo può avvenire solo dopo che sono stati visitati e rivisitati tutti i passi precedenti. “Troppo spesso possiamo ignorare un ‘addio’ o combatterlo, o metterlo da parte, ma in questo modo non superiamo il dolore. Esso continuerà a gridare dentro di noi, spesso quando meno ce lo aspettiamo. Ciò porta via la voce della gioia dalla vita, fa perdere al nostro spirito energia ed entusiasmo…” (Joyce Rupp). Questo passo consente di rielaborare la relazione interiore con quella realtà o persona mancata o cui si è rinunciato. È necessario passare da una memoria risentita ad una memoria d’amore. Possibili svincolamenti: restare aggrappati ad immagini idealizzate della persona o alle cose, razionalizzare o giustificare certi blocchi di sé o la chiusura a saracinesca, restandovi impigliati.

5. Andare avanti e reinvestire fiducia, ricominciare. “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino…” (v. 29). “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?” (v. 32). Questo passo richiede l’accoglienza e il consolidamento dell’orientamento presente e futuro, un far credito al disegno di Dio all’opera, manifestatosi attraverso il reale effettivo. Speranze, sogni, piani ed aspirazioni devono essere ristrutturati lungo la propria linea di vita e affettiva preferenziale; vanno riformulati in vista della nuova realtà. Questo passo dipende dai precedenti, coinvolge la rinuncia alle speranze, ai sogni, ai piani, alle aspirazioni che girano attorno alle realtà o persone perse, a cui si è rinunciato. Si tratta di un dislocamento affettivo da una data realtà persa ad un’altra esistente come manifestazione della volontà di Dio. Ciò per cui si è nuovamente chiamati a vivere deve essere una realtà assunta con sufficiente libertà e gioia, una realtà vissuta come scelta positiva, non solo subita. Questo è un compito che dura per tutta la vita, pena il vivere a rimorchio. Occorre passare dalla scelta come negazione alla scelta come affermazione e ricomprendere significativamente gli avvenimenti. Possibili svincolamenti: il ristagno di sé, l’annaspamento, l’immobilismo, l’evasione, l’alienazione, la manipolazione del reale, la rigidità di sé, il narcisismo nelle sue varie forme.

6. Il lutto vero porta all’accettazione, ben oltre le espressioni distorte del dolore. “E partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme” (v. 33). Per poter riprendere a vivere e portare frutti di vita è necessario passare attraverso il lutto. L’accettazione è fatta di percezioni della realtà così com’è, del chiamarla per nome, del farvi posto effettivamente ed affettivamente. Se il processo del lutto è saltato, evitato o interrotto, la persona è esposta a cadere nelle espressioni distorte del dolore, ad es. l’alcoolismo, la superattività, l’uso e l’abuso sessuale di sé e degli altri, l’extra o l’intra-aggressività compulsiva ed esagerata, l’abuso di potere, l’introversione accentuata, il rodio o il ruminìo dentro di sé, l’indurimento emotivo con se stessi e con gli altri, l’isolamento, il vuoto della depressione, il cinismo nelle varie relazioni e nella concezione della vita. La persona che non fa il lutto finisce per essere un individuo solitario, uno che non si sente appartenere a pieno alla famiglia o alla vita.

7. Rifare il patto con la vita propria e altrui. “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24, 34). Verso la conclusione del processo del lutto c’è una riscelta da fare con lucidità e rinnovato coraggio, quella conforme alla propria linea di vita e affettiva preferenziale. Ciò avviene spesso dopo varie rimesse in discussione. È augurabile allora che non fuggiamo dall’affrontare in quel momento la realtà; che cerchiamo di aver accanto un amico illuminato che ci accompagni nella riscelta; che ci diamo tutto il tempo necessario per passare attraverso le tappe non affrontate prima; che non scegliamo per rassegnazione; che ci fidiamo tanto, qualunque sarà la soluzione, del Signore che è il Dio della gioia oltre che del dono, e che non abbandona mai.

La rinuncia ai propri desideri esorbitanti rispetto al reale proprio e della vita deve perciò potersi concretizzare nella capacità di ristabilire un nuovo patto con la propria esistenza. Si tratta, una volta situati e in cammino entro un’autentica accettazione di sé, del reale nelle sue varie dimensioni e di Dio, di ripartire da questo reale e di riadeguare i desideri in ordine alla vita. Fare il passo lungo come la gamba, non di meno, né di più, è atto di grande saggezza e di sanità psichica, condizione previa per procedere in modo fruttuoso. Tutto questo sollecita e richiede un atteggiamento di vera umiltà e semplicità, di assunzione della propria verità interiore ed esteriore, di senso della piccolezza di sé rispetto ai sogni di grandiosità e di sublimità, illusoriamente compensatori delle carenze personali più o meno inconsce.

 

 

Tipi di superamento della crisi

Da un lato il superamento della crisi è necessario, ma dall’altro non ogni superamento si equivale e l’esito è ben diverso a seconda del tipo di affrontamento. Si possono distinguere due tipi di superamento: cfr. tavola, i conflitti e la loro soluzione.

 

 

Il superamento riuscito e la ripartenza fiduciosa

Si ha quando esso è realistico e fiducioso. La persona fa i conti con la realtà effettiva, ma non la subisce. Sa far credito alla vita e compie un passo in avanti. Riprendono allora il cammino vocazionale, la gioia di vivere, la fecondità dell’azione.

 

 

I superamenti mancati

Le prese di posizione adottate dalle persone possono essere insufficienti o divergenti. Ricondotte all’essenziale, a livello sia conscio che inconscio, le principali sono le seguenti:

 

La rigidità del sentire

Si tratta di una barriera posta contro la sofferenza provocata dall’esperienza della perdita. La persona reagisce auto-anestetizzandosi tramite i meccanismi di difesa, di rimozione e della negazione. Ciò porta a vari risultati: ad una forma di sordità e cecità psichica di fronte a ciò che in se stessi o negli altri, può far soffrire, riattivare il vecchio dramma non adeguatamente risolto; oppure a forme di irrigidimento di sé, di unilateralismo nella percezione di date realtà con una previa selettività percettiva difensiva.

 

L’intellettualizzazione di sé e del reale

Consiste in una difesa previa nei confronti della sofferenza originata dalla perdita tramite l’uso difensivo del pensare e dell’ideazione. La persona tende a sostituire la realtà con le idee, con i discorsi e con i princìpi. Ciò può portare a forme di ideologia autodifensiva, a razionalizzazioni autogiustificanti, con forme di atrofia del mondo affettivo e relazionale.

 

L’evasione nell’immaginario

Consiste in una fuga previa dalla sofferenza causata dalla perdita. Ci si può rifugiare allora per parti più o meno estese, o in un mondo fantastico, idilliaco, oppure in un settore privilegiato della realtà, assunto come unico.

 

La contrazione difensiva di sé

Consiste in una passivizzazione di sé, in un procedere accortamente a scartamento ridotto così da evitare i conflitti, le perdite e la loro sofferenza. Ciò porta ad una vita in ridotta, ad un ritmo da piccolo cabotaggio, assorbiti dall’immediato e dalla rinuncia al più per evitare previamente la sofferenza.

 

L’impigliamento in un legame inceppante

Capita che la persona frustrata per varie contrarietà, si ripieghi su una relazione molto gratificante con una persona o un gruppo, restandone impigliata. Il superamento della prova allora si blocca su quel legame compensatorio.

 

La fissazione su un dato modo di essere e di fare a carattere autoprotettivo o al contrario autopunitivo

Il superamento della prova si blocca su quella ripetitività rassicurante o su quella autopunizione doloristica.

 

L’inacidimento di sé

Si tratta di un processo di risentimento progressivo contro i fattori frustranti, alla fine contro se stessi, Dio e la vita. Prevalgono allora l’ironia, il negativismo, la sfiducia, la ripetitività, il tirare a campare, il farsi il nido nell’istituzione, impadronendosene.

 

La sessualità compulsiva

Si tratta di un modo di vivere la sessualità come una necessità nell’autoerotismo e nell’esoerotismo illusoriamente compensatorio e compulsivo. Una parte significativa della persona è imprigionata nella coazione a ripetere quella data dalla ricerca del guadagno secondario a scapito di quello primario.

 

 

 

PER UNA PEDAGOGIA DEI TEMPI DELLA CRISI

Di fronte alla necessità del superamento della crisi e ai passi di crescita necessari sorgono per la guida spirituale varie domande: come aiutare il chiamato ad attuare un superamento realistico e fiducioso? Come insegnare a superare la crisi? Quale relazione educativa stabilire per aiutare la persona chiamata a superare la prova? Come accompagnare i passaggi vocazionali? Il superamento positivo della crisi è facilitato da un’interazione positiva tra la persona guidata e la guida spirituale. Le istanze emergenti riguardano i due versanti.

 

 

Il versante della persona chiamata

Perché la persona chiamata superi adeguatamente la crisi occorre che essa sia aiutata lungo le seguenti traiettorie.

 

 

Attuare le rinunce necessarie interne alla scelta per uscire dalla crisi

L’affrontamento positivo della perdita comporta un passaggio duro ma necessario costituito da alcune rinunce indispensabili, pena il restare incollati nell’oggetto perso del desiderio, nella sensazione di fallimento, nella relazione rotta.

1. Anzitutto occorre che la persona viva una rinuncia a diverse immagini di Dio o di potenze interventiste, modificatrici della realtà frustrante. Questo attaccamento problematico a date immagini di Dio è solitamente sul registro dell’immaginario. Ad esempio, il desiderio di un Dio potente e che interviene, nato dai bisogni della nostra condizione umana; il desiderio di un padre giusto e moralizzatore che rende a ciascuno secondo la misura delle sue opere, di cui conserviamo la nostalgia; il desiderio di un’organizzazione religiosa ben definita, sulla base di una frontiera ben determinata nei riti, come nei miti che li fondano tra il sacro ed il profano.

2. La rinuncia ai desideri esorbitanti/perfezionistici. La rinuncia ad un Dio funzionale richiede la rinuncia ai desideri esorbitanti la religiosità autentica. La fede religiosa presuppone un patto con la vita. Sarebbe tuttavia erroneo concepire questa disposizione come semplicemente naturale o come il dono che la natura e il destino fanno ad alcuni e rifiutano ad altri.

3. La rinuncia al risentimento contro la vita. Si tratta di disincagliarsi da una forma di blocco di sé che ogni risentimento comporta.

4. La rinuncia e l’attivazione dei desideri spenti o passivizzati. Per poter affrontare in modo realistico e costruttivo la perdita occorre rianimare nella persona i desideri passivizzati o spenti a causa delle ripetute frustrazioni.

 

 

Passare dalla scelta come negazione alla scelta come affermazione

Imparare a scegliere è un compito tipico dell’adolescenza e della giovinezza. Nel nostro mondo attuale l’uomo è destinato non a seguire passivamente i binari della tradizione, ma a decidere dei propri atti personalmente molte volte al giorno, in mezzo a mille possibilità. In particolare l’adolescenza è l’età del primo apprendimento a scegliere.

 

La scelta come negazione

Non è facile scegliere per l’adolescente e il giovane. La crisi dell’identità si incrocia nell’adolescente con la preoccupazione di inserirsi nel mondo degli adulti mediante una professione e un progetto di vita coerente. Ma come impegnarsi? Il progetto di avvenire è minacciato dall’ambizione di voler tutto, di abbracciare tutto. È tale l’attrattiva dell’universale che spesso essa sfocia in un rifiuto di scegliere. Scegliere infatti è sempre anche rinunciare. L’adolescente lo percepisce in modo così violento che la scelta gli sembra una mutilazione delle sue possibilità personali, gli appare come pregiudizievole per il suo sviluppo.

È questo il momento in cui l’adolescente scopre nuovi valori che sfuggivano al ragazzo e che al contrario portano l’adolescente a mettere in questione ciò che costituiva il substrato della sua fede e del suo progetto di avvenire. Tutti questi valori spesso sono sentiti dagli adolescenti come oggetto e causa di tentazione. Essi suscitano un alone di colpevolezza nella misura in cui il soggetto vi si attacca per il senso di infedeltà ai valori che finora avevano alimentato il progetto.

E i nuovi valori della tecnica si propongono come alternativa a quelli della fede sia per la loro concretezza, sia perché legati attualmente all’ideologia materialista /consumistica/laicistica. I problemi affettivi e sessuali poi acutizzano il contrasto tra la morale proposta finora e le nuove esigenze che vanno affiorando. Di qui l’eclissi frequente del progetto di vita e il subentrare della crisi. L’adolescente sarà stimolato dalla necessità a scegliere e sarà tentato di farlo precipitosamente, per motivi terribilmente ambigui, talora a contrapporre i valori precedentemente assimilati alle nuove istanze. Ben presto l’esperienza dello scacco lo riporterà alla coscienza dei propri limiti. È un bene urtare contro la resistenza degli uomini e delle cose e, spezzandosi, costatare quanto le proprie possibilità sono ristrette e limitato il campo delle opzioni. È cosa buona se questo rischio gli consente di indovinare quali sono per lui i contorni di una possibile riuscita. Spesso questa prima esperienza è dolorosa come una catastrofe.

 

La scelta come affermazione

Così durante un periodo più o meno lungo, il soprassalto della personalità, il sostegno dei suoi educatori, l’abitudine acquisita di affrontare il reale, soprattutto la grazia divina, gli consentiranno di scoprire l’aspetto positivo della scelta e concepirla non più come una limitazione ma come una possibilità, un’opportunità, la condizione del salvataggio, innanzitutto, e poi il mezzo per una crescita personale. Giungerà il giorno in cui la scelta gli sembrerà una vittoria della sua personalità sull’ostilità del mondo e degli uomini. Questo giorno della scelta segna la fine dell’adolescenza e annuncia la nascita dell’uomo adulto.

 

Gli atteggiamenti educativi

Un educatore avveduto non resta mai sconcertato di fronte ad un adolescente che vuole rimettere in questione un progetto di vita in cui la sua età gli fa sentire una predeterminazione frettolosa che lo priverebbe del diritto di provare le sue forze, di assumere personalmente la responsabilità del grande gioco della vita.

Non si può pretendere che 1’adolescente sia in stato oblativo. Ciò sarebbe in opposizione al momento psicologico che sta vivendo. Bisogna ad ogni costo riportarlo ad un atteggiamento di disponibilità. La disponibilità è estremamente onerosa e pesante per un adolescente, poiché essa comporta una continua riconversione in rapporto alla volontà di Dio per il presente.

Avere un atteggiamento di pazienza da parte dell’educatore o del soggetto di fronte alle oscillazioni tipiche del momento pubertario. Pazienza non è un atteggiamento passivo, il sopportare, ma è l’ambiente psichico della libertà, il saper attendere la giusta stagione di crescita.

 

 

Il confronto dei desideri soggettivi con la Parola

Il cammino vocazionale e il superamento delle prove, per raggiungere il loro obiettivo, richiedono la rielaborazione dei desideri soggettivi su misura di quelli oggettivi propri del Dio rivelato. Ora questa rielaborazione comporta anzitutto un processo permanente di confronto dei desideri soggettivi con quelli espressi dalla Parola di Dio. Ciò è determinante ai fini di un positivo superamento della crisi. Questo processo avviene per tappe successive e a più riprese. In esse si possono distinguere due momenti, da favorire anche educativamente.

1. Anzitutto occorre operare un discernimento tra ciò che sono i desideri veri e ciò che sono altre realtà1. Infatti, a volte, come abbiamo visto, a seconda dei casi, si ha a che fare con il desiderio rimasto atrofizzato nelle varie forme di passività, di prigionia, di atonia, di preclusione sopravvenuta per carenze educative e personali. Altre volte ci si trova di fronte a desideri divenuti esorbitanti rispetto alla realtà effettiva della vita e delle persone con funzione compensativa, si pensi alle aspettative irrealistiche rispetto alla realtà effettiva e le strategie dell’inconscio (la gratificazione vicaria e la fuga preventiva). Occorre poi distinguere i veri desideri dalle velleità.

2. In secondo luogo occorre fare un confronto dei desideri con le parole fondatrici. Tutto nella vita dell’uomo e del cristiano può entrare nella vita di fede: l’amicizia e l’amore, il dubbio, il fallimento, le emozioni, la rivolta, il lavoro, il progetto, le malattie, gli incidenti, il lutto, la vocazione o i dubbi vocazionali, il fidanzamento, le nozze, la vita o la morte, ecc. Non c’è nulla che non possa esser messo in rapporto con le parole del Dio rivelato in Gesù Cristo e, in particolare, con la sua croce, simbolo del desiderio di salvezza dello stesso Dio di Gesù. Non c’è nulla che non possa diventare, nell’azione educativa, occasione di un confronto tra i nostri desideri e lo Spirito, questo “Altro” dal desiderio umano. Questo è un confronto per altro indispensabile, perché la maggior parte delle situazioni elencate sono ambigue e si prestano a più opzioni. Nel cammino la persona si sforza di vedere la situazione o il problema posto alla luce dello Spirito di Dio, confrontandosi eventualmente con un racconto evangelico o cercando di decifrare una parabola. È sollecitata dalla santa impazienza di trasformare, per quanto possibile, la situazione in un evento cristiano. La preghiera è il luogo ideale di questo discernimento. Se si vuole che i propri desideri si trasformino, è importante apprendere l’esercizio del discernimento, quasi un allenamento continuo, attraverso il quale mente e cuore oranti imparano a cogliere i propri desideri e i desideri di Dio e a confrontarsi con essi.

 

 

Il versante della guida spirituale

Perché la persona chiamata sia aiutata efficacemente occorre che la guida spirituale attui un servizio educativo caratterizzato in particolare dalle seguenti istanze.

 

 

Stabilire con la persona nella prova una relazione educativa promovente

La relazione educativa in particolare si specifica per alcune caratteristiche. Guardiamo la relazione educativa dalla parte di chi cerca di aiutare o di educare. Ora, ogni relazione educativa comporta più elementi.

1. Anzitutto la relazione educativa è finalizzata alla crescita del destinatario nel settore interessato, in base ai valori proposti.

2. La relazione educativa non è una relazione alla pari, è una relazione asimmetrica. Il soggetto è nella posizione di chi chiede, di discepolo. Questo non toglie niente alla ricchezza della relazione. La guida si colloca su un piano dispari rispetto al soggetto. Essa è necessaria perché i valori possano venire identificati e interiorizzati. L’autorità è per la crescita (auctoritas da augere).

3. La relazione educativa inoltre non è una relazione d’amicizia. Nelle relazioni di crescita a forte contenuto affettivo è importante avere ben chiaro il tipo di relazione. La relazione educativa non è una relazione di amicizia perché non c’è reciprocità nello scambio. Inoltre la relazione educativa non ha quella reciprocità che per definizione è una componente dell’amicizia.

4. Tuttavia la relazione educativa è anche una relazione affettiva. Infatti non c’è né aiuto profondo, né educazione senza affetto per colui o colei di cui si vuole aiutare e stimolare la crescita.

5. La relazione educativa è una relazione empatica. È fondata non tanto sulla simpatia quanto sull’empatia.

 

 

Esercitare con equilibrio le funzioni educative

La relazione educativa per essere se stessa è necessario che prenda corpo in una interazione tra educatore(i) e soggetto(i). Ora, che cosa attiva la relazione educativa? Che cosa intercorre tra l’educatore e i destinatari della relazione educativa? Quale ne è la dinamica?

La dinamica della relazione educativa è data dalle funzioni che l’educatore assolve in rapporto al soggetto(i) entro un’interazione reciproca su basi dispari, dato il diverso punto di partenza e ruolo. Per funzioni educative si intendono le istanze, le stimolazioni, le linee di forza che vanno dall’educatore al soggetto o ai soggetti, orientate a suscitare in loro, o a indirizzare un certo modo di essere e di fare anziché un altro, conformemente al progetto educativo perseguito. Queste funzioni vanno tra loro armonizzate pena alterazioni e unilateralismi dannosi. Le principali funzioni sono le seguenti.

 

Funzione di sostegno affettivo

Ciò che aiuta a diventare se stessi nell’educazione, ciò di cui l’altro ha essenzialmente bisogno è essere compreso in ciò che comunica di sé, essere raggiunto nel meglio di sé, nel suo essere positivo, essere creduto in ciò che ci comunica, essere amato gratuitamente, sentire che si ha fede nella sua capacità di esistere da se stesso, sentirsi al sicuro e in riposo interiore con noi. Se l’educatore vive verso di lui questo insieme di atteggiamenti, cioè un affetto vero, allora la sua identità potrà esistere e crescere per quello che effettivamente è, allora il vero sé diventa maggioritario rispetto al falso sé. Questo sostegno affettivo si concretizza in una presenza amorosa, in un interessamento caloroso e rispettoso per l’altro, in un’attenzione personalizzata, in una facilitazione per l’altro, del cammino educativo.

Questa funzione esige dall’educatore un giusto equilibrio personale e una vera donazione (amore oblativo) al soggetto da educare per permettere a questi di raggiungere l’indipendenza affettiva. Il sostegno affettivo esterno (status secondario) deve essere una iniziazione alla stima e alla fiducia in sé che si svilupperanno poi nella percezione del proprio valore e delle proprie abilità, fino all’autonomia (status primario). Qui sta la sorgente psichica della libertà interiore e della consistenza.

 

Funzione di sostegno normativo

Consiste nell’essere stimolo, verifica, confronto per il soggetto. Bisogna rilevare di fatto che da una parte c’è l’incapacità dell’immaturo a tenere presenti fini a lunga portata e dall’altra i pericoli di una “canalizzazione” verso soddisfazioni solo immediate. L’immaturo necessita di una certa “pressione normativa” per riuscire a far valere nel suo comportamento le esigenze della realtà totale, anche di quella da lui non immediatamente percepita. Sarà il passaggio da tale “morale estrinseca” a quella intrinseca della autodeterminazione che renderà superflua la funzione di cui stiamo parlando. Per l’efficacia educativa del sostegno normativo, esistono alcune condizioni: un soddisfacente rapporto affettivo con l’animatore educatore; non venga mai messa in questione la benevolenza e la stima di fondo (= necessità di una benevolenza incondizionata), ma solo alcune manifestazioni di essa; un’uguaglianza di umore e una padronanza di sé nell’animatore. Queste condizioni dimostrano al soggetto da educare che le varie esigenze sono richieste dalla realtà e non dal capriccio del formatore.

 

Funzione di modello

Lo sviluppo del carattere, della vocazione, della coscienza e della personalità in genere, avviene in gran parte seguendo l’esempio di un modello. Ciò può avvenire mediante due processi: quello dell’imitazione in cui viene copiata una tecnica, un modo di fare senza che interessi la persona del modello, e quello della identificazione, processo in cui si realizza un rapporto particolare di persone. Viene così interessata la persona del soggetto che si prolunga in quella del modello, percepita come “connaturale” e come realizzante desideri e ideali. I fattori che maggiormente giocano un ruolo nel soggetto, nel processo di identificazione, sono: il bisogno di affetto, il bisogno di competenza, la percezione del proprio limite, la percezione dell’affetto e della competenza del proprio modello.

 

Funzione del maestro o magisteriale

La funzione di maestro può essere compresa in rapporto ai valori, secondo queste collocazioni: maestro – contenuto; maestro – discepolo; discepolo – contenuto.

 

Funzione mistagogica

La funzione mistagogica consiste nell’aiuto dato al destinatario come guida all’esperienza dei valori, del mistero di Dio, dell’uomo, della vita. Questa azione di accompagnamento all’incontro esperienziale con i valori richiede un saper condividere, sostenere, procedere assieme al soggetto o al gruppo, ma un passo innanzi. Spesso questo richiede di far presente il principio della realtà di fronte ai vari progetti e desideri esorbitanti. Deve essere un confronto stimolante la crescita, non mortificante, aperto all’avvenire, capace di mobilitare le energie vitali. Di fronte a queste funzioni bisogna evitare i passi falsi dell’educatore. I principali sono i seguenti: l’educare per dovere, l’alienazione all’altro, la dominazione dell’altro, la fretta di far crescere e l’ambiguità della situazione.

 

 

Attuare gli atteggiamenti educativi di base 

Amore autentico e manifestato

È questo l’atteggiamento educativo fondamentale. L’attenzione dell’educatore è centrata sul ragazzo, non su di sé. Quello che fa, lo fa veramente per il bene del ragazzo, non per imporsi su di lui o per soddisfare sé. E di ciò il ragazzo deve accorgersene attraverso le parole e le manifestazioni varie dell’educatore.

 

Atteggiamento di comprensione empatica

Consiste nel cogliere e capire il senso reale che hanno le parole, i comportamenti e gli altri modi di espressione del soggetto, dall’interno del soggetto o del gruppo (gli atteggiamenti di ribellione, di sottomissione verbale e non verbale ecc.). Ci sono vari gradi di comprensione: non verbale; puramente verbale; logica; psicodinamica; empatica.

 

Accettazione incondizionata dell’altro

Non vuol dire “lascia correre”, “non badarci”, approvare tutto; ma significa: accettare l’altra persona, così come è, come accetto che l’acqua sia umida; fare netta distinzione tra la persona e il suo comportamento; accettare la persona anche quando il suo comportamento non va; la persona va sempre salvata, pur non essendo d’accordo su vari punti; fare distinzione tra errore e errante. Un vero educatore non passa dal comportamento al giudizio su quella persona così da svalutarla, ma sa articolare i piani.

 

Una propositività autorevole

Si tratta di un modo di essere, e quindi anche di proporsi, caratterizzato da una forza propria. Questo atteggiamento rappresenta l’istanza delle esigenze della realtà, dell’in sé delle cose e dei valori, dell’alterità rispetto a ciò che è simile o identico, dell’oltre rispetto a ciò che è immediato, dell’ulteriore rispetto al presente. Si concretizza in un senso di valore in sé, di primo posto da occupare, di richiesta di essere rispettato e preso in seria considerazione. Consiste nella capacità di anticipare il che cosa, il senso e la direzione di ciò che si è chiamati a essere e a fare, tramite quello che, come educatori, si è e si dice in nome non tanto proprio, ma di una istituzione o di una istanza ultima e radicale. Nasce sia dal ruolo rivestito, sia in particolare dalla coerenza interna dell’educatore tra i suoi bisogni e i valori proclamati, almeno a livello sostanziale prevalente, dalla sua unità e coesione interiore, dalla consistenza personale, coerenza elastica, non rigida, capace di aderire al fluire della vita.

 

L’autenticità personale

Occorre curare l’autenticità dell’educatore; non si può dire di avere gli atteggiamenti educativi se non si hanno in realtà. Non basta verbalizzarli. Ci vogliono atteggiamenti autentici. Occorre un equilibrio di fondo nell’educatore. Qui non ci sono formule o tecniche, ma è questione di maturità, autenticità, equilibrio personale. Una relazione autentica è una relazione nella quale ci si esprime in verità e in totalità, tenuto conto della situazione: si esprime in parole e in atti ciò che si pensa; si esprime ciò che si pensa e ciò che si vive a livello sensibile; si esprime ciò che si pensa, ciò che si vive a livello sensibile e ciò che si vive a livello profondo.

L’autenticità non è totale che al terzo grado. Di conseguenza non aiuta: far finta di amare a 80 quando si ama a 10; far finta di rispettare l’autonomia dell’altro quando si desidera fortemente che prenda tale decisione; far finta di capire quando non capiamo o di essere sicuri di un risultato quando ne dubitiamo; di affermare che l’altro non ci disturba quando in realtà siamo disturbati, o che non ci infastidisce.

 

Non colpevolizzare ma responsabilizzare

Si tratta di una relazione educativa che evita la ricerca dei colpevoli all’origine della crisi. Sposta invece l’accento su una impostazione dialogica tra i due partner dell’avventura vocazionale: Dio, il per primo, per il quale tutto coopera al bene per coloro che lo amano, e la persona interpellata dagli elementi della prova e dalla Parola di Dio che la rende significativa di un’altra realtà. Attraverso i fatti è sempre Dio che fa segno.