N.02
Marzo/Aprile 2002

Vocazione e vocazioni nei percorsi educativi della scuola cattolica

Prima di accingermi a tentare un approfondimento del tema che mi è stato assegnato, mi è sorta immediata la domanda se io sappia o possa dire in proposito qualcosa che non sia già stato esposto. Di vocazioni, infatti, si è molto trattato negli ultimi decenni, da quando cioè si è registrato un calo profondo non già di “chiamate”, bensì di “risposte”. Il fenomeno “scuola”, poi, che fino a non molto tempo fa sembrava essere oggetto di riflessione attenta soltanto da parte di coloro che, a titolo più o meno personale, ne erano direttamente coinvolti, recentemente è andato acquistando considerazione e peso nell’opinione pubblica, non soltanto per l’annosa questione della parità fra scuola statale e non statale, ma soprattutto per la discussa e contrastata tematica delle riforme e dei “cicli scolastici”.

Mi accingo allora ad alcune semplici riflessioni, premettendo che esse non hanno né possono avere unità e spessore: sono un po’ un “collage” di temi interessanti, che io affronto in base alla mia ormai lunga permanenza nel mondo scolastico, ma che andrebbero ulteriormente approfonditi.

 

Importanza della scuola per la crescita valoriale

A nessuno può passare inosservata l’importanza della scuola in generale, sotto l’aspetto sia quantitativo (numero di ragazzi e di anni trascorsi in essa), sia qualitativo (incidenza dei processi relazionali, cognitivi e sociali che vi si svolgono). Nella scuola cattolica tali processi sono attivati con la specifica finalità di aprire la persona alla “significanza” dell’esistere, all’oltre”, ai “valori” e alle “verità” che toccano l’uomo, la sua natura, la sua storia, nella luce della fede. Il fine è di permettere una crescita integrale dei giovani, quindi il loro orientamento vocazionale.

Il Concilio Vaticano II ne ha definito l’identità e l’ha riconosciuta come mezzo per rendere presente la Chiesa nella società, ma anche come vero e proprio soggetto ecclesiale in quanto luogo di evangelizzazione, di apostolato, di azione pastorale, in cui si cerca di contribuire allo sviluppo quanto più completo possibile della persona. Il Vangelo dovrebbe essere l’anima della scuola cattolica, la norma della sua vita e della sua dottrina. Mentre “gradualmente introduce gli alunni nel mondo del sapere, la scuola cattolica si propone di contribuire alla loro maturità umana e cristiana e si sforza di guidarli progressivamente a costruirsi una personalità capace di scelte responsabili”. Ma quali gli impegni, le priorità educative della scuola cattolica in una società post-cristiana, dentro un ethos che appare ormai estraneo all’influenza dell’umanesimo cristiano e sempre più ispirato al narcisismo relativistico? La risposta sembra essere chiara: l’avvio alla vita e alla professionalità come vocazione e come apporto qualificato alla società civile e alla comunità ecclesiale, non evadendo le profonde domande di senso, ma dando loro espressione nella complessa realtà circostante.

Tuttavia, è evidente che non è lecito strumentalizzare la scuola con iniziative estranee alla sua natura. Inoltre, va detto che alla chiarezza delle idee e dei principi fondanti non sempre corrisponde una prassi pastorale conseguente: spesso risultano carenti la tensione ad una crescita in riferimento ai valori e la capacità di mediazione tra il sistema della persona e le esigenze sociali dell’ambiente di vita e di lavoro, in vista della realizzazione di un personale progetto di vita.

In pratica, la dimensione vocazionale non riesce a lievitare, proprio a fronte dello smarrimento decisionale dei giovani odierni e delle loro forti resistenze ad operare scelte impegnative. Il loro disorientamento è soprattutto un disorientamento valoriale e riflette perfettamente il malessere della nostra cultura occidentale in cui – venuta meno la razionalità – diviene difficile perfino la definizione stessa di valore.

Un valore non è un’astrazione concettuale, ma un motivo-carica la cui forza essenziale è il contenuto affettivo; esso si mostra, non si dimostra, è il frutto di un’esperienza concreta e gratificante per chi la compie e per colui a cui è rivolta, ha bisogno di una ricorrente ripetitività per essere interiorizzato. Nella prassi educativa si possono distinguere due ordini di valori: quelli perenni, etici, come l’amore, la giustizia, la libertà, l’amicizia, la gratuità ecc., e i valori generazionali, psicologici, quali le aspirazioni professionali, gli orientamenti politici, le concezioni etnico-culturali, che mutano rapidamente da una generazione all’altra e che sono spesso causa di conflitti. Sui primi l’educatore è chiamato a investire la sua personale responsabilità per promuovere la responsabilità altrui. Sui secondi, è sollecitato ad accettare e a rispettare il fatto che il suo interlocutore è un universo affettivo e progettuale diverso da lui e che il suo compito non è di modellarlo, ma di accompagnarlo divenendo “segno di speranza” e stimolandolo “a vivere con passione il presente, ad aprirsi con fiducia al futuro” (Novo Millennio Ineunte, n. 1). E sappiamo bene che per rispondere all’amore di Dio, ogni persona è chiamata ad essere libera per poter donare se stessa ed essere fedele, libera per affiancarsi agli altri lavorando a servizio del Regno. I giovani avvertono una sete di valori, che in certo senso è “religiosa” ed anche “cristiana”. Per molti di loro essa resta vaga ed incerta, ma costituisce pur sempre un varco aperto nel loro spirito al passaggio del messaggio religioso e cristiano.

È un dato accertato che i ragazzi che attualmente frequentano la scuola cattolica non sono diversi da tutti gli altri loro coetanei, perché hanno i limiti e i pregi propri della condizione giovanile in generale: propensione all’evasione esteriore, carenza di ideali, fuga da scelte definitive, paura di impegni troppo coinvolgenti o duraturi, ma nel contempo anche ricerca di sicurezza, di luoghi capaci di offrire spazi di interiorità, di testimoni credibili che sappiano parlare un linguaggio comprensibile….

A rendere più difficile la proposta educativa della scuola cattolica è il fatto che essa si rivolge a giovani che non sempre l’hanno scelta personalmente o volentieri per il suo progetto connotato in senso cristiano, ma talora vi rimangono per ragioni diverse. Tuttavia, il loro periodo di permanenza si protrae per tre, cinque, otto e più anni consecutivi e non è possibile pensare che tale percorso – non solo rivolto all’intelligenza, ma anche fatto di relazioni e di intenzionalità – non influisca in qualche modo sulla loro vita. Una scuola cattolica deve non solo fornire loro gli strumenti conoscitivi per poter vivere nell’attuale cultura decisamente connotata da conoscenze tecniche e scientifiche, ma anche favorire e sviluppare un forte senso di responsabilità sociale e una solida formazione orientata cristianamente, pur in un contesto di complessità e in mezzo a difficoltà vitali a vari livelli. Oggi si è, infatti, intensificato il conflitto delle interpretazioni della realtà e si sono un po’ oscurate le evidenze etiche soggettive, che spingevano ad osservare la “voce della coscienza” come stimolo a decidersi e ad impegnarsi per il bene e per il bello. Inoltre, sull’attuale scenario culturale si moltiplicano le offerte di modelli, molto spesso effimeri o fasulli.

 

Il “nodo” della coerenza educativa

Certo, se la scuola cattolica non può contare sulla omogeneità tra la propria proposta e quella della famiglia non raggiunge il suo obiettivo. Ma il fenomeno della secolarizzazione pervade la coscienza e la vita di molte delle famiglie che la scelgono con le più svariate motivazioni, intaccando i valori fondamentali della stessa compagine familiare: quelli di comunione e comunità affettiva. Anzi, nelle famiglie, e tanto più nei ragazzi, sulla scorta anche della mentalità veicolata dai media, l’amore coniugale è inteso troppo sovente come ricerca e realizzazione di sé più che come oblatività. La fede, poi, è spesso confinata negli spazi della coscienza privata e i comportamenti sono per lo più omologati sulla cultura di massa.

Va per giunta detto che assai spesso i ragazzi e i giovani delle scuole cattoliche non sono assidui frequentatori delle parrocchie e dei loro percorsi formativi, anzi, capita sovente che, se non fosse la scuola cattolica ad accostarli alla fede (anche se la fede è un dono di Dio e lo Spirito soffia dove vuole), forse essi non avrebbero altra occasione di evangelizzazione. Tutti i documenti ecclesiali da tempo dichiarano che la scuola cattolica è ormai missionaria. Ad essa, allora, tocca la sfida di “inculturare la fede”, cioè di evangelizzare la cultura attuale incarnando in essa il messaggio cristiano, “stando dentro” la complessità e la secolarizzazione.

Purtroppo, dopo avere per decenni ottimamente formato molte generazioni di giovani grazie a grandi figure di educatori che vi hanno generosamente profuso le loro energie, anche le comunità religiose da cui dipende la maggior parte delle scuole cattoliche sono ora progressivamente divenute sempre più ridotte quanto a numero di componenti. Non riescono così a fornire sempre una chiara e limpida testimonianza di quei valori particolarmente apprezzati dai giovani di oggi, quali una intensa spiritualità personale e comunitaria, la generosa apertura alle richieste esigenti della vita attuale e ai bisogni anche psicologici degli altri, la povertà dei costumi comuni, il profondo rispetto reciproco e il dialogo fraterno. Insomma, anche nelle scuole cattoliche – dove i docenti laici sono ora la quasi totalità e non sempre possono essere accuratamente selezionati dal punto di vista dei loro ideali apostolici – i giovani trovano una seria e provata professionalità, non sempre arricchita però da esperienze concrete e da modelli autentici di servizio, di fedeltà nella ferialità intesa come chiamatarisposta ad una esistenza radicalmente evangelica, di dedizione appassionata e gratuita. Eppure, è provato che percorrere la strada del gratuito è positivo per le stesse comunità cristiane che la imboccano, ma produce anche frutti nel campo delle vocazioni.

Si parla molto, oggi, di “progetto educativo”, ma forse si ricerca una formazione basata sulla competizione, sul primato di un sapere che non sempre riesce a scrutare i bisogni interiori. Forse, da un punto di vista cristiano, si dovrebbe prestare maggiore attenzione alla “chiamata” e alle sollecitazioni che
vengono dalla singola disciplina scolastica e dalla sua valenza educativa. Si dovrebbe parlare di più – o almeno altrettanto – di vocazione come abbandono fiducioso alla realtà, considerata in tutte le sue dimensioni armonicamente intese. È inoltre indispensabile che i giovani possano guardare avanti e vedere
persone adulte che esprimano la possibilità di vivere nella vita quotidiana i valori che tante volte vengono richiamati, persone che nel loro lavoro, nell’uso del loro tempo e dei loro beni, nella realizzazione della loro vocazione e nell’esperienza familiare, sappiano operare quotidianamente – non una volta per tutte! – scelte coraggiose, anche se non necessariamente clamorose. Persone che facciano questo non solo mosse da una tradizione, bensì da intime convinzioni e con la gioia di chi ha capito che questo è “il tesoro nascosto nel campo”, “la perla preziosa” che può dare senso all’intera vita. E gli psicologi insegnano che tutti abbiamo bisogno di certezze e di ideali, specialmente i giovani, i quali continuamente si chiedono – e a loro volta chiedono agli adulti che hanno vicino – come spendere la loro vita e in quale direzione andare. Essi hanno bisogno di persone che li sostengano non tanto offrendo soluzioni, ma dando una mano a comprendere i passi da fare e aiutandoli a costruire il loro cammino: insomma, dei testimoni che offrano esempi semplici, ma significativi, di vita cristiana nel quotidiano, che dimostrino come essere cristiani sia bello e possibile, che accompagnino nella fatica e nella gioia del discernimento.

 

La riduzione dei religiosi nella scuola cattolica

Che il numero dei religiosi – come già accennavo in precedenza – sia andato rapidamente calando negli ultimi decenni è un dato fin troppo risaputo e noto. Tale fenomeno si è verificato in ogni ambito apostolico, ma forse è stato avvertito in modo del tutto particolare nel mondo della scuola, spesso erroneamente non considerato dagli stessi giovani religiosi come un campo di azione privilegiata in vista della evangelizzazione delle nuove generazioni. Con la diminuzione dei consacrati, che dedicano “a tempo pieno” e gratuitamente la loro vita al servizio di Dio e dei fratelli e che portano nell’attività scolastica la ricchezza della loro tradizione educativa modellata sul carisma originario, sono venute meno a poco a poco anche diverse opportunità di un paziente e continuativo cammino spirituale e di un allargamento ed approfondimento della catechesi in chiave vocazionale. Si è soprattutto ridotta la possibilità di processi di identificazione.

È pur vero che “anche gli educatori laici, non meno che i sacerdoti e i religiosi, offrono alla scuola cattolica l’apporto della loro competenza e testimonianza di fede” e di una responsabilità apostolica come partecipazione fraterna a una comune missione. Da parte di molti Ordini e Congregazioni religiose, si stanno impiegando parecchi sforzi per sintonizzare in modo più efficace e preparare i propri docenti laici su questo versante. Gli insegnanti, infatti, dovrebbero vivere il servizio scolastico con passione educativa ed ascolto attento, come autentica missione e come personale risposta ad una vocazione che li chiama a collaborare all’opera educativa di Dio attraverso l’insegnamento: educare, infatti, significa promuovere la risposta all’appello della propria dimensione esistenziale profonda. Essi sono chiamati ad essere appassionati per quell’opera di Dio che è il servizio agli adolescenti e ai giovani in formazione, solidali con colleghi e genitori per le difficili prospettive della scuola e della docenza, profondamente consapevoli dell’autonomia – non separatezza – di ogni professione, e quindi anche dell’attività scolastica, vista e sentita come “luogo di fede e di santificazione” e come ricerca del Regno di Dio e della Sua giustizia.

Tuttavia, va purtroppo riconosciuto che anche nella scuola cattolica si è in certo senso tarpato il coraggio di offrire una vera proposta vocazionale intesa come aiuto al discernimento della propria strada nella vita: si tratti della formazione di una famiglia, di una speciale consacrazione, dell’apostolato laicale, o anche semplicemente della scelta di un ambito futuro di lavoro dove giocarsi a favore degli altri. Il discernimento, infatti, è la capacità di comprendere nel quotidiano gli appelli della Volontà di Dio e di esaminare la propria condotta alla luce della Sua parola.

Sul piano educativo occorre aiutare i ragazzi a porre e a porsi le domande giuste, cioè educarli alla libertà, il che è indispensabile per non perdere l’appuntamento con una generazione, e non perderla come grande e feconda energia di ripensamento e conversione. Per consentire ai giovani l’auspicato cammino di maturazione e di formazione della propria identità, indispensabile per crescere come uomini e donne in grado di dare – nel mondo – ragione della speranza che è in noi, si richiedono adulti che abbiano incidenza e significatività, capacità di ripensare i rapporti interpersonali, di favorire un dialogo educativo aperto all’ascolto reciproco e ad un comune processo in cui docente e discente si riscoprano “compagni di viaggio”.

Forse, la crisi dell’educazione – da più parti denunciata con una certa enfatizzazione – scaturisce principalmente proprio dall’inadeguatezza di parecchi educatori a riqualificare continuamente l’identità personale, psicologica, culturale, sociale, etica e religiosa, il senso di appartenenza comunitaria, la fantasia creatrice e la capacità di stimolare all’ulteriorità, alla trascendenza, al “rischio”.

 

Qualche utile precisazione

Non mi sembra superfluo, a questo punto, introdurre una breve digressione per precisare alcuni concetti, anche se spesso ripetuti e quindi ben noti.

Insegnare deriva da in/signare, cioè imprimere il sigillo, ma anche indicare con dei “signa”, ossia con parole, gesti, comportamenti, anzi soprattutto con comportamenti, perché questi sono esemplari. L’insegnante quindi non dovrebbe mai sentirsi fuori servizio, visto che suo compito è di “lasciare un segno”. L’istruire, invece, ha una portata più ridotta: derivando da instruere, comporta esclusivamente la trasmissione di un complesso di nozioni tecniche. Educare, infine, ha la radice etimologica di due verbi latini: “educare” ed “educere”, che significano “far crescere”, “sviluppare” qualità già intrinsecamente presenti, “spingere in alto”, facendo in modo che i nostri alunni siano migliori di noi. Anche il termine “significativo” non va equivocato. Con esso non si allude ad una figura eccezionale per doti e qualità, un po’ fuori dal comune, ma ad un adulto capace di incarnare caratteristiche di equilibrio, responsabilità, costanza, stabilità, impegno, capace soprattutto di accompagnamento e di condivisione dell’esperienza dell’altro. Egli diventa allora punto di riferimento affettivo e decisionale per bambini e ragazzi, che finiscono per farne propri i valori e i progetti. Ne risulta un’assimilazione al modo di pensare e di agire del “modello”, che dapprima è quello parentale e successivamente lascia il passo a modelli sociali. Però, perché l’appello ai valori e la risposta al progetto di Dio abbiano una risonanza emotiva consistente, occorre un’esperienza relazionale positiva: occorre, cioè, che l’adulto sia innanzi tutto ciò che è chiamato ad essere rimandando ad un Altro, occorre che riesca ad accogliere senza suscitare dipendenza (l’educatore deve esserci e non esserci, farsi presente e attivo, ma non condizionare con la sua presenza) e che inoltre sappia esprimere coerenza, dando ragione della speranza che ha nel cuore (1 Pt 3,15). Solo così la pre-evangelizzazione diviene evangelizzazione di tante vite giovanili, aiuto affinché il giovane trovi lo spazio vitale necessario per scoprire i valori e gli appelli che si porta dentro e possa discernere il disegno di Dio inscritto nella sua storia personale.

Ai “nodi” fin qui enunciati aggiungerei l’individuazione di un’altra difficoltà, concettuale prima ancora che pratica, non certo esclusiva della scuola cattolica. Il fenomeno dello sviluppo dello spirito comunitario e della cosiddetta pastorale di gruppo rende adulti e giovani piuttosto restii ad un accompagnamento spirituale individuale, quasi si trattasse di un anacronistico retaggio di altre epoche e temperie culturali. Invece, per non “conformarsi alla mentalità” corrente, per rinnovare il proprio cuore riconoscendo quello che Dio vuole, è necessario uscire dal conformismo e dalla pressione esercitata dall’ambiente circostante, coi suoi usi più o meno scontati, e liberarsi dal giudizio altrui, avventurandosi magari in una difficile esperienza di solitudine. Ma gli stessi giovani migliori riconoscono che, per falso rispetto umano, non hanno il coraggio di manifestare apertamente la loro ricerca di senso.

Per lo più – lo vediamo bene tutti – i giovani non esprimono chiaramente le proprie domande, anche perché non le hanno essi stessi presenti in una formulazione esplicita. Essi lasciano invece apparire silenzi, disorientamenti, fughe nel rumore e nella folla. Occorre allora che l’adulto educatore impari a leggere queste domande con un di più di sensibilità: incoraggiamento, rispetto e spirito di servizio devono caratterizzare le relazioni tra docenti ed alunni.

 

Sintomi pericolosi su cui intervenire

Le scuole cattoliche sono tra loro assai diverse: ne esistono di semplici o di sofisticate, di piccole o di molto articolate, di ambito pressoché familiare e parrocchiale oppure di notevole rilevanza anche sociale. Mi pare tuttavia che, pur nella loro diversificazione, sia possibile individuare e segnalare alcune “avvisaglie patologiche” che, se si verificano, devono trovare una tempestiva correzione. Spesso l’attenzione risulta eccessivamente concentrata sulla riuscita scolastica, quasi a compensare in certo senso la già citata scarsezza di personalità significative…

In qualche caso, poi, esiste anche una sorta di competizione – talora in chiave di protagonismo – tra gli stessi educatori. Infine, può risultare piuttosto debole la sensibilità al bene comune e al servizio, lasciando così spazio a forme di notevole concorrenzialità non sempre positiva. Si sa bene che l’alunno agisce e reagisce con la sua intelligenza, libertà, volontà e con la sua complessa sfera emotiva, e che il processo educativo non procede se l’alunno non si muove. Spesso anche i giovani che frequentano la scuola cattolica sono “bloccati” per ragioni di tipo psicologico o sociale o familiare o sono contaminati dall’indifferentismo, dalla superficialità oggi diffusa ad ogni livello, dalle inquietudini ed insicurezze proprie della loro età.

Lo spazio privilegiato per un intervento educativo e autenticamente vocazionale è la vita quotidiana: quell’intreccio di esperienze, grandi e piccole, in cui si distende, giorno dopo giorno, l’esistenza umana. E quella di ragazzi e giovani avviene in parte consistente nella scuola, che è un po’ come uno zoccolo duro dove cultura e fede possono convergere e diventare significative o insignificanti. Ogni proposta educativa e pastorale è un’offerta di significati per l’esistenza. Non si realizza attraverso discorsi, documenti, contributi di carattere solo cognitivo. Essa prima di tutto è uno scambio di esperienze vitali. Chi ha provato e vissuto propone ad altri quello che per lui rappresenta una dimensione affascinante della propria esistenza, colta come risposta personale ad una chiamata specifica del Padre. Dunque, la scuola non potrà essere autentica palestra di vita se mancheranno veri educatori attenti a tutte le dimensioni della persona e di tutte le persone.

Ma qui il discorso torna sulle linee già precedentemente tracciate….