N.04
Luglio/Agosto 2003

Educatori: sherpa o esploratori?

A chi ci rivolgiamo, di chi parliamo? Mi sembra opportuno distinguere a quali educatori ci riferiamo anche perché nella traccia che mi è stata passata c’erano varie interpretazioni possibili.

 

1) Educatori giovani: quelli impegnati soprattutto nei gruppi giovanili e che fanno riferimento ad un’associazione o movimento. In questo tipo di educatori noto una certa fragilità sia da un punto di vista umano (sono anche loro giovani e quindi vivono le stesse dinamiche dei giovani della loro età, non sono dei marziani!!!). Ma anche da un punto di vista della formazione: non c’è la volontà di formarsi e se c’è, è limitata al saper fare più che al saper essere. Si fa difficoltà a far passare l’idea dell’essere animatore più che il fare l’animatore. Sono più preoccupati di conoscere tecniche di animazione che fare esperienza in prima persona per poter essere veri testimoni della fede. Una mancanza di metodo educativo esiste da parte di una grande maggioranza di educatori. C’è mancanza di progettualità, di sistematicità; c’è una rincorsa a temi che accontentano i giovani più che la preoccupazione di proporre dei temi vitali per la crescita effettiva, umana e di fede dei giovani.

2) Educatori adulti nella fede: preti, religiosi/e, animatori adulti nella fede, e non legati all’età cronologica, che sono punti di riferimento nella comunità cristiana e che da essa hanno un mandato più o meno esplicito. Educatori che hanno chiara coscienza del loro ruolo educativo e che si preoccupano di far cogliere ai giovani il valore della vita e maturare in loro una risposta vocazionale perché risposta all’amore del Signore.

3) Educatori genitori: sono educatori in maggiore difficoltà da un punto di vista educativo, sono i più disorientati, i più fragili, quelli che vanno più in crisi. Hanno difficoltà a far vivere i lutti esistenziali ai propri figli perché per primi non li sanno vivere, facendo fatica ad assumersi il loro ruolo. Ci sono genitori che sono più adolescenti dei propri figli adolescenti. Sono anche quelli meno preoccupati della vita di fede dei propri figli.

4) Educatori vari: sono quegli educatori che fanno parte del mondo del giovane, sono giovani, ma anche molte figure di adulti che molto spesso pur godendo di luoghi e linguaggi privilegiati dove poter incontrare i giovani, non hanno la consapevolezza del loro ruolo educativo, e molto spesso non hanno grandi possibilità di mezzi per approfondire le loro conoscenze.

 

Per questa mia riflessione mi riferirò soprattutto al 2° tipo di educatori. Inizio dicendo una cosa che mi sta cuore perché ne vedo sempre più la necessità nella relazione educativa. Forse è banale o per lo meno scontata, ma sono convinto che in tutti i rapporti, compresi quelli tra due che si amano, compresi quelli con Dio, non ci può essere comunicazione se prima non c’è INCONTRO; questo però si realizza solo in determinate condizioni che sono poi gli atteggiamenti, le attenzioni che un animatore deve avere e maturare nel suo compito educativo.

La prima è che i tempi non li stabilisci a tavolino, le occasioni le devi sempre creare, ma non è detto che vadano sempre come vuoi tu. A te è chiesto semplicemente di esserci, di starci. Da adulto, da prete, da educatore: devi esserci. E questo i ragazzi lo capiscono. Serve tempo, tanto tempo che neanche immagini quanto, prima che ti concedano la loro fiducia. Perché il ruolo oggi non basta più, te lo devi sudare, non ti è dato per convenzione sociale. E se poi sei talmente arrogante da “pretendere” che loro te lo riconoscano solo perché sei adulto, o genitore, o insegnate o prete, allora sei finito, perché capiscono che quello è il tuo “compito”, ma non è la tua passione. E di cose taroccate loro se ne intendono. Questo chiede di porsi nei confronti dei giovani, in maniera gratuita (ed è la seconda condizione) senza la pretesa di portare a casa qualcosa.

Quando diciamo che i giovani sono schiacciati sul presente abbiamo ragione; ma ci dimentichiamo di dire che noi adulti non siamo molto diversi, quando pretendiamo di avere risposte immediate al nostro investimento educativo; quando rincorriamo il successo delle nostre iniziative, più che le persone che vi sono dentro; quando, alla faccia della gratuità, facciamo capire che se non vuoi il mio prodotto te ne puoi anche andare. E i ragazzi non sono scemi: sanno distinguere benissimo le cose vere da quelle taroccate; e non solo le cose.

Due parole, allora, o meglio due atteggiamenti da vivere nei confronti dei giovani come educatori delle fede: GRATUITÀ E SPRECO. Mi piace poi pensare che questi due atteggiamenti sono ben rappresentati da quell’icona evangelica della donna di Betania (Mc 14,3) che avendo speso tutto quello che aveva, versa l’olio preziosissimo sul capo di Gesù e questo gesto è incompreso dai presenti e ritenuto uno spreco che si poteva evitare. A me ha fatto sempre pensare anche una frase di don L. Ciotti: “Io non ho la pretesa di convertire nessuno, ma cerco solo, nella mia povertà con miei piccoli mezzi di creare degli appuntamenti dove Dio se vorrà e gli uomini se lo vorranno (i giovani in questo caso) si potranno incontrare”. Credo che questo atteggiamento di estrema gratuità ci aiuti a vivere con il passo giusto anche il nostro impegno di pastorale vocazionale.

Se crediamo a questo allora ci si potrà chiedere quali risorse e linguaggi mettere in campo e in che modo, non viceversa. Allora emergeranno anche adolescenti e giovani che hanno voglia di cose importanti, che non si tirano indietro nella fatica, che rinunciano alle loro vacanze per fare qualcosa di impegnativo. Magari, inaspettatamente, ci sarà qualcuno che ti chiede di accompagnarlo nella fede e nei comportamenti, non soltanto perché sei il prete o la religiosa o l’insegnante, ma perché ci sei stato, anche quando lui era insopportabile, perché hai detto il tuo disaccordo senza chiudergli la possibilità di ricominciare, gli hai detto dove sbagliava senza giudicarlo. Ma anche perché hai cercato sempre nuove opportunità per lui che rifiutava tutto, non ti sei stancato di lui, anche quando potevi farlo. I tempi di crescita sono sempre più lunghi, ma, in proporzione, non sono cresciuti adulti che hanno tempo e voglia di starci con questi ragazzi.

Da questo ne consegue (ed è il terzo atteggiamento) che come cristiani, ancora prima che preti e suore, siamo chiamati a ridire la fede proprio a partire dalle domande dei giovani. Molti invece tra gli educatori si pongono sempre di avere già un modello precostituito a cui devono fare arrivare il giovane. Si parte sempre con le proposte, con gli schemi, con le piste già tracciate sulle quali far camminare il giovane e se questo non cammina dove e nel modo che si è pensato allora si è scontenti. Si è buttato via il tempo. Dobbiamo essere coraggiosi e spietati e ammettere che molto spesso siamo più preoccupati a dire qualcosa di nostro che ad ascoltare la vita del giovane.

Ecco allora un altro atteggiamento che sento forte, in questo tempo di minoranza per i cristiani e di tanti messaggi di pseudo-salvatori (a cui neanche i giovani cristiani sono insensibili) è che la fede va raccontata. Non si può annunciare partendo da una conoscenza astratta deduttiva, affidata solo alla ragione, ma si annuncia attraverso una conoscenza di tipo esperienziale, induttiva che valorizza la storia, la vita, il tempo. Raccontare come ha fatto il popolo d’Israele per fare memoria della salvezza che il Signore ha operato e che continua anche oggi nella storia di ciascuno di noi, di ogni cristiano nella quotidianità della sua vita. Solo il racconto della fede dice la verità di un’esperienza vissuta. Non si può raccontare ciò che non si è vissuto.

Un’ulteriore sottolineatura va fatta sull’attenzione che l’educatore deve avere verso la comunità. Infatti non si può non tener conto del peso educativo che ha l’ambiente circostante sul giovane. Questo aspetto è vero soprattutto nel campo della comunicazione della fede in cui non sono e non possono essere solo singole e isolate persone (addetti ai lavori!) ad educare alla fede i giovani, ma è tutta una comunità. Un messaggio vocazionale anche offerto da una persona credibile e con il linguaggio giusto se non trova il “terreno fertile” di una comunità credibile e accogliente verso i giovani, cadrà nel vuoto. Ne consegue che un educatore vocazionale dovrà spendere energie anche nella e per la comunità affinché in essa vengano maturati atteggiamenti che aiutino e stimolino la vita del giovane perché la possa vivere nel dono totale di sé. Molto spesso invece ci sono belle comunità …ma senz’anima (Bella senz’anima!) dove per dirla citando il vescovo Ablondi molte volte in chiesa si fa del “puro erotismo!”: si compiono gesti senza senso, senza anima, senza amore! Un educatore quindi non può non valorizzare il lavoro di rete dentro alla comunità.

Un altro aspetto di cui l’educatore deve tener conto è verso l’apparente mancanza di progettualità e la tendenza di “presentificazione” che i giovani sembrano avere. L’ultimo Rapporto IARD sulla condizione giovanile (il 5°) mette in luce come i giovani si preoccupano poco di quello che potrà accadere loro in futuro, ma ciò non implica la rinuncia a mettersi al centro della propria vita. Pur vivendo in un mondo che esalta l’instabilità e la discontinuità non solo lavorativa ma anche relazionale e affettiva e al quale mondo loro devono adattarsi se vogliono sopravvivere, permane in questi giovani il senso di poter decidere, di potersi impegnare e di non delegare ad altri ciò che li riguarda. Quello che i giovani sentono ormai impossibile è il valore della pianificazione razionale a lungo termine: sembrano aver interiorizzato lo stile comportamentale sempre più enfatizzato all’interno di contesti produttivi dove è premiata la capacità di “navigare a vista” a fronte di obiettivi a brevissimo termine.

Rinunciare a pianificare non significa però rinunciare a porsi in una logica di finalizzazione; per i giovani rimane importante continuare a darsi degli obiettivi, sapendo che possono modificarsi nel tempo. Questo “navigare a vista” dei giovani non può non essere tenuto in conto in una pastorale giovanile e in una pastorale vocazionale. Il proporre tanti progetti a lunga scadenza, con tappe previste e ben ordinate, con modelli di perfezione a volte irraggiungibili senza tener conto delle tappe intermedie, degli arresti, delle fragilità è già un partire sconfitti. Alle volte le proposte di percorsi vocazionali sono vissute più nella fatica e nel sacrificio (ascetica) e dove si esalta la pura volontà a scapito del gusto e della gioia (mistica) di lasciarsi incontrare dal Signore e di seguirlo.

È bene quindi orientarsi verso cammini, modulari, leggeri con traguardi flessibili, che camminano dentro all’alveo dell’attenzione alla persona e della fedeltà a Dio. C’è un ulteriore dato che deve essere tenuto presente nella vita di un giovane e che può tramutarsi in attenzione e scelte anche concrete. Sappiamo ormai bene come l’età dell’adolescenza e poi quella della giovinezza si siano dilatate. Sempre il 5° Rapporto IARD afferma che nell’arco di sviluppo tra i 15 e 35 anni è possibile evidenziare due snodi particolari in cui il giovane vive determinati passaggi. Il primo è quello dei 18-20 anni; il secondo è quello dei 25 anni. Il primo snodo è ancora caratterizzato da uno sguardo rivolto verso se stessi, con ancora alcuni disagi, e una sostanziale incapacità di scelte definitive. Il secondo snodo, quello dei 25, è invece il momento in cui i giovani determinano la propria vita con scelte che li fanno sentire protagonisti anche se è molto forte da parte di questi giovani la convinzione di non poter contare su nessuno e di sentirsi quindi soli.

Un ultimo atteggiamento dell’educatore è il sapersi confrontare con il linguaggio dei giovani. A volte mi chiedo se il motivo di certi allentamenti sia di fondo: Gesù Cristo non interessa più ai giovani, non affascina, non dà risposte alle attese più vere? Oppure abbiamo perso di vista i linguaggi giovanili, i modi di comunicare il “lieto annuncio”? Pensiamo che i ragazzi siano indifferenti (a volte sarà anche vero…), ma neppure ci chiediamo se le nostre liturgie, le nostre catechesi, le nostre proposte hanno qualcosa a che vedere con le loro attese, i loro bisogni! I giovani non ci sono e allora necessariamente sono “lontani”: ma, da Cristo o dai nostri linguaggi? La sfida per la Chiesa è di confrontarsi su terreni solitamente considerati “vuoti”, con un “mondo giovanile” visto non tanto o soltanto come luogo dell’abbandono della fede e della marginalità, ma come spazio di relazione, di scommessa educativa e di annuncio cristiano. Penso alla sfida del linguaggio musicale, alla quasi totale assenza di un’arte che esprima non solo la fatica del vivere, ma soprattutto la gioia della ricerca e della scoperta. Gli educatori dovrebbero approfondire questa conoscenza.

 

Alcune categorie di positività che come Chiesa dovremo approfondire e sviluppare di più:

1) la categoria della bellezza: far fare esperienze di bello in tutto ciò che noi proponiamo a cominciare dalla liturgia e dagli incontri. Il bello è sempre esperienza di Dio.

2) Il linguaggio simbolico: i giovani parlano con i simboli più di quanto pensiamo; la Chiesa ha una ricchezza di simboli e icone che potrebbe aiutare ad accogliere il mistero di Dio ma anche la figura di Gesù. Gesù stesso nella sua vita parla e agisce usando simboli.

3) Il servizio ai poveri come profonda esperienza di amore. Fare esperienze di gratuità, di servizio disinteressato. Le esperienze dei campi residenziali incontrano poco, non sono in crisi invece le proposte dove si offre ai giovani un’esperienza di servizio in ambienti di bisogno e di estrema povertà. C’è anche una nuova possibilità che un educatore deve guardare con attenzione e la proposta del nuovo SCV (decine di giovani si sono presentati alla selezione per il progetto AC e Caritas).

4) I valori della pace e di giustizia che dicono la tensione vivissima dei giovani verso gli ideali di un mondo più giusto e di un pianeta più rispettoso dei suoi equilibri. Alle manifestazioni della pace, anche a Roma, chi pensate ci fosse? Solo i giovani dei centri sociali o di estrema sinistra? Per il 70% erano giovani delle parrocchie e delle scuole cattoliche. Il Papa con il suo appello ai giovani, definendoli “sentinelle del mattino”, ha toccato uno dei temi in cui i giovani sono più sensibili e disponibili a lasciarsi incontrare e confrontare per iniziare anche un discorso di fede.